giovedì 31 agosto 2017

l’imbroglio Macron seppellirà i francesi

Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».
L’opinione pubblica, senza eccezioni, «reagisce sostenendo la “rottamazione”: tutto quel che è vecchio è corrotto, mentre tutto quel che è nuovo è giusto e buono», scrive Meyssan. «Tuttavia, nc’erano basi per dimostrare nessuno dei crimini di cui tutti stavano parlando». E’ uno schema, che funziona sempre: «Nelle rivoluzioni colorate precedenti, l’opinione pubblica ci metteva tra i tre mesi (la Rivoluzione dei Cedri in Libano) e i due anni (la Rivoluzione delle Rose in Georgia) prima di svegliarsi e scoprire di essere stata manipolata». L’arte di coloro che organizzano le “rivoluzioni colorate” consiste «nel realizzare senza aspettare un istante tutti i cambiamenti che i loro sponsor intendevano operare nelle istituzioni». Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild, ha annunciato in anticipo le sue intenzoni: riforma d’urgenza del Codice del Lavoro, modifica del Consiglio economico e sociale, dimezzamento del numero degli eletti a tutti i livelli, nonché “moralizzazione” della vita politica. Tutti questi progetti, osserva Meyssan, ricalcano il solco tracciato dalla relazione pubblicata dalla Commissione per la liberalizzazione della crescita francese del 2008, di cui era presidente Jacques Attali, mentre Emmanuel Macron era il vicesegretario generale.
Il rapporto della Commissione Attali (creata dal presidente Sarkozy) inizia con queste parole: «Questo non è un rapporto, né uno studio, ma un manuale per le riforme urgenti e fondanti. Non è né partisan né bi-partisan: è non partisan». Per quanto riguarda il codice del lavoro, scrive Meyssan, «si punta ad abbandonare il sistema giuridico romano e alla sua sostituzione con il sistema attualmente in vigore negli Stati Uniti: un dipendente e il suo padrone potrebbero così entrare in negoziati bilaterali e concludere un contratto in contrasto con la legge». E il sistema educativo «dovrà produrre studenti bilingui (francese/inglese) già alla fine della scuola primaria». Eppure, aggiunge l’analista, questo cambiamento di paradigma non è mai stato discusso in Francia: «Tutt’al più, è stato evocato durante i dibattiti parlamentari sulla legge El-Khomri/Macron del 2016», detta anche “Loi Travail”, che di fatto “americanizza” la situazione, come il Jobs Act renziano in Italia. E le riforme istituzionali annunciate da Macron? «Nessuna di esse era attesa dai francesi», nonostante una certa insofferenza per «la stratificazione amministrativa (Comuni, Comunità di Comuni, Dipartimenti, Regioni, Stato) e la proliferazione di commissioni inconcludenti».
In realtà, sostiene Meyssan, «il presidente Macron avanza indossando una maschera». E spiega: «Il suo obiettivo a medio termine, ampiamente annunciato nel 2008, è quello di abolire Comuni e Dipartimenti. Si tratta di omogeneizzare le collettività locali francesi con il modello già imposto ovunque in altri paesi dall’Unione Europea. L’Eliseo, nel rifiutare l’esperienza storica del popolo francese, considera che possa essere governato come tutti gli altri europei». La riforma del Consiglio economico e sociale, invece, «rimane vaga». Tuttalpiù, «sappiamo che si tratterebbe sia di sciogliere le innumerevoli commissioni inutili, sia di affidargli il dialogo sociale». Aggiunge Meyssan: «Il fallimento di Charles de Gaulle nel raggiungere questo obiettivo nel 1969 ci fa pensare che, qualora questa riforma venisse realizzata, non sarebbe per risolvere un problema, ma per seppellirlo una volta per tutte». In realtà, la proposta di riforma del Codice del Lavoro «priverà questo dialogo del suo oggetto concreto». Nel 1969, ricorda Meyssan, il presidente de Gaulle «si era rassegnato ad abbandonare ancora una volta il suo vecchio progetto di “partecipazione”, cioè di ridistribuzione della crescita del capitale delle imprese tra i loro proprietari e i loro lavoratori», e in cambio aveva proposto «di far partecipare il mondo del lavoro al processo legislativo».
Per farlo, de Gaulle aveva pensato di fondere il Consiglio economico e sociale con il Senato, in modo che la Camera Alta riunisse sia i rappresentanti regionali sia quelli del mondo professionale. In particolare, aveva proposto che questa Camera non potesse più redigere essa stessa le leggi, ma che emettesse un parere su ogni testo prima che questo fosse discusso dall’Assemblea Nazionale. «Si trattava dunque di concedere un potere che consisteva in un parere legislativo alle organizzazioni rurali e cittadine, ai sindacati degli operai e del padronato, alle università, alle associazioni familiari, sociali e culturali». Macron si sta muovendo in direzione opposta. Le due priorità che il neopresidente intende perseguire «prima che i suoi elettori si risveglino» possono essere riassunte come segue: «Reggere il mercato del lavoro secondo i principi dell’ordinamento giuridico statunitense; conformare gli enti locali alle norme europee e incistare le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro in un assemblea puramente onorifica. Oltre a cancellare (a vantaggio dei soli capitalisti) qualsiasi traccia proveniente da diversi secoli di lotte sociali, Emmanuel Macron dovrebbe quindi allontanare gli eletti dai loro elettori e scoraggiare questi ultimi dall’impegnarsi nella cosa pubblica».

mercoledì 30 agosto 2017

Dalla bolletta energetica alla scuola, raffica di aumenti per le famiglie italiane

Stangata d’autunno in arrivo per le famiglie italiane. Secondo le stime rese note dall’associazione Federconsumatori, da Adusbef e Coldiretti, le famiglie italiane dovranno far i conti con una serie di aumenti al rientro dalle ferie estive.
Dalle bollette dell‘energia elettrica fino ai materiali scolastici, si allunga la lista di aumenti e rincari che supereranno fortemente l’ultimo tasso di inflazione registrato dall’Istat, ovvero oltre il +0,1%.
Si parte dall’energia elettrica: dal primo luglio è scattato l’aumento sui prezzo del +2,8%, deciso dall’Authority competente, aumento che si rifletterà sulle prossime bollette.
Per quanto riguarda il capitolo scuola, tornano a crescere i prezzi di diari, astucci, zaini e materiali scolastici vari. Il Codacons prevede un incremento medio del 2,5% e una spesa media che per la prima volta dovrebbe sfondare il muro dei 500 euro a studente, soglia a cui andrà aggiunto il costo dei libri. La spesa complessiva potrebbe dunque superare i 1100 euro a studente.
Secondo l’Adusbef, invece, la situazione non sarà migliore sul fronte bancario e assicurativo. Per le prime gli incrementi dovrebbero tradursi in un aumento delle spese per la gestione del conto corrente di circa 20-25 euro, mentre per le assicurazioni gli incrementi dovrebbero tradursi in un esborso maggiore di 10-15 euro. Tra gli aumenti con cui le famiglie si ritroveranno a fare i conti quelli legati alla tariffazione della telefonia ogni 28 giorni. La stessa Agcom stima un aggravio annuale delle bollette pari all’8,6%.

martedì 29 agosto 2017

Firmato accordo di libero scambio tra Ue e Giappone ma nessuno ne parla

E’ stato approvato a Bruxelles lo scorso 6 luglio nel più totale silenzio da parte della stampa un trattato di libero scambio tra l’Unione europea e il Giappone, che riguarderebbe il 37% degli scambi mondiali
Stiamo parlando dello JEFTA (Japan-Europe Free Trade Agreement), un accordo che si propone principalmente l’abbattimento dei dazi doganali. Ma non solo. L’intesa include le normative sul clima dell’accordo di Parigi e alcune in materia di protezione di dati personali.
Al centro dell’accordo c’è comunque l’abbattimento dei dazi: ad esempio, il Giappone si impegna ad aprire il proprio mercato agroalimentare ai prodotti europei mentre l’Unione Europea faciliterà le esportazioni nipponiche di auto e pezzi di ricambio, armonizzando gli standard tecnici dei due pool commerciali. A ciò si aggiunge l’apertura di molti appalti pubblici giapponesi alle imprese europee.
Non sono mancate le critiche: numerose organizzazioni no profit,  Greenpeace Olanda hanno sollevato dubbi sul rispetto, in fase di negoziazioni, degli standard di salvaguardia ambientale.

lunedì 28 agosto 2017

Arrestato “re dei trafficanti”: l’Italia dietro l’operazione?

Le forze speciali  libiche hanno annunciato mercoledì scorso di aver arrestato nella città di Zuara, Salim Fahmi Bin Khalifa, uno dei più grandi trafficanti di esseri umani e di petrolio. Lo hanno annunciato le stesse forze speciali, inglobate nel ministero dell’Interno del governo di accordo nazionale di Tripoli, sul loro profilo Facebook ufficiale. L’arrestato è stato definito dalla stessa Rada (Rada Special Deterrence Force è il nome in inglese dato a questo reparto delle forze speciali libiche) come “re dei trafficanti”. Nella dichiarazione rilasciata dal capo della Rada, Abdelrauf Kara, viene detto che “in una complessa operazione di polizia, le forze speciali di deterrenza sono riuscite ad arrestare uno dei più grandi contrabbandieri di idrocarburi e manipolatori di asset libici, il famoso ‘re di contrabbando’ Fahmi Salim Musa Bin Khalifa di Zuara”.

martedì 22 agosto 2017

Le vacanze coi selfie

Ora, infatti, la tecnologia consente anche di manipolare le foto e, in particolare, i popolarissimi 'autoscatti' grazie a siti appositi, come per esempio http://www.photowithme.com/, che mette a disposizione una lunga serie di immagini di vip da inserire nel proprio autoscatto, o “Fake my location”, programma per iPhone e iPad che consente di applicare la location preferita come sfondo scaricandola direttamente da Google Street View. Ma online se ne possono trovare tantissimi altri, basta cercare su Google…
Questa nuova tendenza è talmente diffusa che in Italia, secondo una web analysis realizzata con la metodologia Woa (Web opinion analysis) attraverso un monitoraggio dei più importanti social network, su un campione di 500 turisti tra i 20 e i 50 anni, in collaborazione con un pool di psicologi coordinati da Serenella Salomoni, psicologa di Padova, sono infatti due milioni coloro che si dedicano al 'selfie scam' estivo ritoccando fotograficamente le proprie vacanze, mentendo spudoratamente sull’hotel in cui si trovano, sul ristorante in cui sono andati a mangiare, sul bagno frequentato, sulla discoteca in cui hanno ballato fino al mattino o sui Vip che hanno incontrato.
Ma quali sono i contesti più taroccati? In assoluto primeggiano i selfie che hanno come scenario location di prestigiosi hotel, trend che interessa il 26% degli utenti interessati dalla ricerca. Nel dettaglio, i 5 alberghi più scattati sono l’hotel Byron di Forte dei Marmi, 5 stelle di lusso che fa parte della catena Soft Living Places, ambito da personaggi internazionali come Naomi Campbell e Daniel Craig (21%); l’hotel Danieli di Venezia, fastosissima struttura a pochi passi da Piazza San Marco, situata nello storico Palazzo Dandolo (18,5%); l’hotel De Russie di Roma, cinque stelle esclusivo a stretto contatto con Piazza del Popolo e Piazza di Spagna (16%); il Four Season hotel di Firenze, sontuoso 5 stelle affacciato sul Giardino della Gherardesca (10,5%); il Romeo Hotel di Napoli, altro 5 stelle raffinato e moderno con straordinaria veduta sul Golfo di Napoli (8%).
Al secondo posto, troviamo i selfie con vip inventati (19% delle preferenze): la più gettonata in assoluto è, naturalmente, Belen Rodriguez, vip irrinunciabile se si vuole colpire al bersaglio con un selfie ben fatto (29%), seguita a stretto giro da Massimo Giletti, noto giornalista molto ben visto dal grande pubblico e ricercatissimo per una bella foto di spessore (24%); terzo, l’onnipresente Fabrizio Corona, anche lui garanzia di successo e visibilità per il proprio autoscatto manipolato ad arte (15,5%).
Appena giù dal podio c’è Melissa Satta, pure lei molto diffusa nelle foto in compagnia, soprattutto tra i maschietti (12%); chiude questo lotto Ilaria d’Amico, sempre sulla cresta dell’onda e richiestissima, meglio se senza Buffon al fianco naturalmente… (8,5%).
Terza posizione per le discoteche (15%), con alcuni locali famosissimi e frequentati dal jet set più in voga. Nell’ordine abbiamo al primo posto l’ormai leggendario Billionaire, il club di Porto Cervo creato da Flavio Briatore, rifugio ormai tradizionale di tantissimi vip (25%); alle sue spalle il sempre trendy Cocoricò di Riccione, discoteca amatissima dai giovani sempre all’avanguardia sia come location che come proposta musicale (21%); altro locale intramontabile è la Capannina di Forte dei Marmi, luogo di ritrovo di molti nobili, industriali e vip, dalla formula sempre vincente nonostante gli anni che passano (16%).
Luogo culto per chi vuole farsi un selfie è anche la Raya, la discoteca più famosa dell’isola di Panarea: aperta fino alle 5 di mattina, è un cult, una sicurezza, senza dubbio la discoteca più frequentata delle Eolie (13,5%); non può mancare, infine, il calabrese Rebus Club di Stalettì, bellissima struttura che si affaccia sul Golfo di Squillace e sulla bellissima Baia di Caminia, in provincia di Catanzaro: divertimento assicurato in un ambiente unico, adatto anche alle famiglie (9%).
Quarta piazza per i ristoranti (12%), che molto spesso fanno da sfondo ai selfie taroccati di tanti turisti creativi italiani. In prima posizione abbiamo l’Osteria Francescana di Modena, guidata dallo chef Massimo Bottura: la sua fama è ormai globale e tutti vogliono un autoscatto davanti al notissimo ristorante, anche se finto (22,5%); segue l’Enoteca Pinchiorri di Firenze, locale italiano creativo con piatti e vini prelibatissimi tra arredi di design e quadri dell’800 (17,5%); 3° posto per La Pergola di Roma, luogo dall’offerta enogastronomica succulenta ma, soprattutto, in cui è facilissimo beccare vip di assoluta grandezza (15,5%); segue l’Esplanade di Desenzano, in una location favolosa come la riva del lago di Garda che è il tocco di classe in più in questo locale in cui si mangia pure alla grande (11%); chiude il Rossellinis di Ravello che, con lo spettacolare panorama della Terrazza Belvedere, è sicuramente uno degli scenari più affascinanti da immortalare con un autoscatto d’autore (8,5%).
I 5 i bagni più gettonati (9%), gli stabilimenti balneari che più attirano i nostri 'faker' professionisti del selfie vacanziero. Prima posizione per il notissimo Papeete Beach di Milano Marittima, certamente il bagno più famoso d’Italia, copiato da tante altre spiagge italiane. Si può dire sia stato il precursore delle feste in spiaggia in alternativa alle classiche discoteche (23%). Secondo il Samsara Beach di Gallipoli, una delle mete più hot, ideale per chi ha voglia di ballare tutto il giorno, aperto ogni giorno anche in primavera, ideale per trascorrere attimi di relax, la spiaggia ospita turisti di tutte le età e offre servizi adatti ad ogni esigenza (21%).
Ci spostiamo a Stintino, in Sardegna, dove c’è il Bagno Sardigna, ambiente piacevole e pulito dominato dalla magnifica vista del Golfo dell’Asinara: ce n’è per tutti i gusti, dall’animazione e parco giochi per i piccoli a musica, aerobica e acqua gym per i più grandi (17,5%).
Quarta La Giunca, nel cuore di Sabaudia sulla via del lungomare: stabilimento dotato di ogni confort e di attrezzature moderne e all’avanguardia, offre una grande spiaggia, relax e comfort, ma dopo le 17 si scatena l’ottimo aperitivo e la musica del dj set (14%). Chiude la Baia De Punta, nella splendida costa jonica in località Punta Alice, sulla spiaggia di Cirò Marina. La struttura, raffinata e dallo stile etnico, è impreziosita dal panorama unico da cui poter ammirare splendidi tramonti e gustare aperitivi in riva al mare (9%).

giovedì 17 agosto 2017

L'Arabia Saudita è 'responsabile più di ogni altro paese' per le minacce terroristiche

I sauditi stanno promuovendo il terrorismo e il radicalismo con i soldi del petrolio. Wahabismo (l'ideologia radicale che domina in Arabia Saudita) è la base per la creazione dell'ISIS e di Al-Qaeda" si sostiene in un programma dell'emittente statunitense 'Fox News', andato e intitolato 'Palude Watch'.

Nel suo reportage, la rete statunitense cita uno dei messaggi di posta elettronica dell'ex Segretario di Stato USA Hillary Clinton, nel quale si legge: "Dobbiamo fare pressione sui governi di Qatar e Arabia Saudita per il sostegno clandestino finanziario e logistico all'ISIS e di  altri gruppi estremisti nella regione."

Fox News, tuttavia, ha osservato che la critica di Clinton a Riad durò solo fino a che non ebbe "bisogno di soldi". Nello stesso contesto, ha ricordato che Al Saud "ha aiutato con almeno 25 milioni di dollari la Fondazione Clinton tra il 1999 e il 2014."

giovedì 10 agosto 2017

LA QUESTIONE LIBIA

Sulla Libia, dopo le bombe, piovono bugie, quasi ogni giorno. Non stiamo sbarcando sulla ex quarta sponda, già persa sei anni fa. L’Italia non si oppose nel 2011 all’intervento di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti ma si unì ai bombardamenti perché i nostri alleati minacciavano di colpire i terminali Eni, come ha detto anche l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini.
L’ allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi rimise al presidente della repubblica Giorgio Napolitano la decisione dell’intervento. La Germania si rifiutò di partecipare ai raid, l’Italia lo fece per difendere i suoi interessi.
Il 30 agosto 2010, sei mesi prima dei bombardamenti, Muammar Gheddafi era stato ricevuto in pompa magna a Roma per firmare contratti miliardari: erano tutti contenti, maggioranza e opposizione, tutti egualmente responsabili, perché gli accordi con Gheddafi sono stati sostenuti sia dai governi di destra che da quelli di centro-sinistra"

martedì 8 agosto 2017

Gli squilibri dell’eurozona e le guerre commerciali globali

Lo smantellamento dell’eurozona potrebbe essere positivo non solo per i membri dell’eurozona in crisi, ma anche per i partner commerciali europei, e per la Germania

Uno smantellamento controllato dell’eurozona potrebbe migliorare la situazione dei Paesi del Sud

Per poter salvare l’Unione Europea e il mercato unico, bisognerebbe smantellare l’eurozona in maniera ordinata. La segmentazione dell’eurozona condotta attraverso la via più in voga, ossia l’uscita dei Paesi meno competitivi, potrebbe causare fallimenti delle banche e il collasso dei settori bancari in questi paesi. Di conseguenza, alcuni economisti propongono uno scenario differente, secondo cui l’eurozona viene smantellata in maniera opposta, con un’uscita graduale dei paesi più competitivi. (1). In parallelo alla segmentazione dell’eurozona, un nuovo meccanismo di coordinamento tra valute dovrebbe essere messo in atto in Europa, con l’obiettivo di prevenire guerre valutarie e un apprezzamento eccessivo della nuova valuta tedesca.

Questa proposta di segmentazione dell’eurozona aumenterebbe la competitività dei paesi del Sud attraverso una svalutazione monetaria. Alcuni paesi potrebbero avere comunque bisogno di una ristrutturazione del debito.

La dimensione e il costo di questa ristrutturazione sarebbero comunque inferiori rispetto allo scenario in cui questi paesi rimanessero nell’attuale eurozona e le loro economie soffrissero di un livello di attività economica inferiore al loro potenziale e un alto livello di disoccupazione.

Un’Europa con valute nazionali potrebbe avere migliori relazioni commerciali con il resto del mondo

Secondo una visione parecchio diffusa, l’UE ha necessità di avere una moneta unica per operare con successo all’interno dell’economia mondiale tra i grandi protagonisti come gli USA, la Cina e l’India. Tuttavia, la moneta unica costringe l’eurozona a sforzarsi disperatamente di generare un surplus commerciale e di partite correnti con il resto del mondo, cosa che potrebbe innescare una guerra valutaria con i principali partner commerciali.

Se i Paesi dell’eurozona tornassero alle loro valute nazionali, legate tra loro con bande di oscillazione flessibili, i deficit commerciali e di partite correnti dei paesi in crisi potrebbero venire eliminati. Si potrebbe ottenere questo risultato bilanciando gli squilibri tra gli attuali membri dell’eurozona, senza generare un grosso surplus dell’eurozona intera, e quindi senza causare un effetto globale negativo sui partner commerciali dell’Europa. Questo meccanismo sarebbe più vantaggioso per i partner commerciali europei rispetto alla “difesa dell’euro a tutti i costi”, nella quale è probabile che l’eurozona crei un surplus commerciale notevole, deprimendo il valore dell’euro.

La Germania eviterebbe di sbattere contro un muro

Secondo una visione diffusa, lo smantellamento dell’euro e il ritorno alle valute nazionali avrebbero conseguenze negative per la Germania, perché la nuova valuta tedesca si apprezzerebbe, facendo precipitare il surplus commerciale tedesco o trasformandolo persino in un deficit.  Michel Pettis (2) sostiene tuttavia che l’enorme surplus commerciale e di partite correnti della Germania è insostenibile. Prima o poi la Germania dovrà ricorrere a un processo di riaggiustamento, che ridurrebbe il suo surplus al prezzo di una crescita economica più lenta. La gravità di questo aggiustamento dipenderà dalle circostanze. Se l’aggiustamento dovesse essere imposto da una recessione globale, potrebbe essere molto grave.

Pettis fa riferimento all’esempio della Francia, che nel 1930 aveva un alto surplus commerciale e basso debito. Si pensava quindi che avrebbe resistito bene a una successiva recessione mondiale. Ma le cose andarono in maniera diversa, e la Francia soffrì durante la Grande Depressione degli anni ’30 molto più di altri Paesi.


Un surplus commerciale stabile non è un cuscinetto di protezione per le economie dagli effetti dei peggioramenti delle condizioni economiche. Un surplus permanente è segnale di mancata flessibilità, che riflette l’incapacità dell’economia di dare lavoro ai suoi lavoratori in una situazione di commercio estero bilanciato. Questo stato di cose espone il Paese a un grande rischio. Una grande economia non può contare indefinitamente su un surplus commerciale. Se l’economia stessa non è in grado di auto-ridurre il suo surplus, prima o poi la riduzione avverrà come risultato dei cambiamenti delle politiche dei suoi partner commerciali o dei cambiamenti nella situazione economica mondiale.

Un’economia rigida, troppo dipendente dagli avanzi commerciali, in casi del genere è quella che più facilmente subirà un duro impatto, che si tradurrà in una recessione e in un aumento della disoccupazione. In questo momento, il rischio di un duro risveglio minaccia l’economia cinese, cosa che produce preoccupazioni e ansietà nel resto del mondo. Un giorno, la possibilità di un duro risveglio minaccerà anche la Germania, se non riuscirà a ridurre da sola il proprio avanzo commerciale.

Vale la pena di analizzare dalla prospettiva tedesca la differenza tra due modi di ridurre il surplus commerciale e di partite correnti: (a) bilanciare gli squilibri tra gli attuali membri dell’eurozona ritornando alle valute nazionali e permettendo aggiustamenti di cambio all’interno di bande di oscillazione (opzione qui sostenuta), rispetto a (b) ridurre gli squilibri attraverso l’espansione fiscale e l’aumento degli stipendi tedeschi (opzione che verrà confutata nella seconda parte di questo articolo).

Entrambi i metodi hanno come risultato atteso l’aumento dei salari tedeschi, se considerati nella valuta dei loro partner commerciali esteri. Tuttavia, nell’opzione (a) questo avverrebbe con l’apprezzamento della nuova valuta tedesca, mentre in (b) avverrebbe tramite l’aumento nominale dei salari tedeschi.

Una grossa differenza tra questi due approcci risulterebbe evidente se, in futuro, i salari tedeschi dovessero diventare non competitivi (cosa che potrebbe essere causata da vari fattori e processi che potrebbero avvenire in Germania o nelle economie dei partner commerciali tedeschi).

In questo caso, nello scenario (a) l’eccessivo aumento dei salari tedeschi rispetto a quelli dei partner commerciali verrebbe automaticamente compensato da un aggiustamento del tasso di cambio. Nello scenario (b), che prevede la permanenza nell’eurozona con salari non competitivi, la Germania sarebbe costretta a una dolorosa terapia di “svalutazione interna”, che potrebbe comportare anni di stagnazione economica e alta disoccupazione.

L’esperienza storica mostra che l’economia tedesca è riuscita a svilupparsi con grande successo, aumentando la produttività e i salari e mantenendo la propria competitività, durante il continuo processo di apprezzamento della moneta.

L’economia tedesca ha dimostrato di saper gestire bene l’apprezzamento della propria moneta, a patto naturalmente che questo avvenga all’interno dei limiti delle differenze di aumenti di produttività rispetto ai suoi partner commerciali. Tuttavia, negli ultimi 60 anni, a dispetto di un trend molto forte di apprezzamento della valuta tedesca rispetto a quella statunitense, ci sono stati anche episodi di deprezzamento. Gli aggiustamenti valutari in entrambe le direzioni hanno quindi giocato un ruolo importante nel proteggere la competitività dell’economia tedesca. Lo smantellamento controllato dell’eurozona consentirebbe alla Germania di risolvere il problema dell’attuale, persistente surplus commerciale in una maniera più sicura e graduale rispetto agli altri possibili sistemi. La relativa tranquillità di questo processo sarebbe data dalla combinazione di due fattori.

In primis, il processo avverrebbe in una condizione di crescita economica della Germania, grazie alla crescita economica europea causata dalla segmentazione dell’eurozona. In condizioni di crescita economica, una diminuzione del surplus commerciale sarebbe molto meno dolorosa rispetto allo stesso fenomeno in una situazione di recessione globale e collasso del commercio internazionale (come avvenne in Francia negli anni ’30).

In secondo luogo, la rivalutazione della nuova valuta tedesca verrebbe controllata con bande di oscillazione valutarie all’interno di un nuovo sistema di coordinamento delle valute europee.

La sicurezza di questo processo deriva dal fatto che la Germania riotterrebbe una valuta flessibile, cosa che aiuterebbe il paese a rimanere competitivo indipendentemente dai futuri cambiamenti nei costi relativi e nelle fluttuazioni della situazione internazionale. Perciò – come abbiamo spiegato sopra – la riduzione del surplus commerciale attraverso gli aggiustamenti del cambio della nuova valuta tedesca è più sicura rispetto a ottenere lo stesso risultato attraverso la crescita nominale dei salari tedeschi all’interno dell’attuale struttura dell’eurozona.

lunedì 7 agosto 2017

TAX

Ci hanno provato anche con la tassa sull'ombra che le tende parasole proiettano sul suolo pubblico, come risulta da un'indagine della Cgia sui dati Istat, per conto di "Affari e Finanza". Così almeno voleva il Consiglio comunale di Conegliano, che provò ad imporre questo balzello di 30 euro l'anno. Un po' meno costa, invece, a Modena, mettere zerbini personalizzati davanti ai negozi. O per alcuni hotel esporre bandiere italiane e di altri paesi.
Quello del nostro Paese è un sistema fiscale che trae comunque la stragrande maggioranza del suo sostentamento da dieci imposte: Irpef, Iva, Ires, Irap, Imu e poche altre che riescono a coprire più dell'85% del gettito italiano, ossia 421 miliardi su entrate complessive per 493 miliardi. Così le restanti 90 tasse recuperano poco meno del 15%; ma ci sono.
Sulla morte, le tasse da pagare sono addirittura tre: la prima per avere il certificato che constati il decesso, propedeutica ad adempimenti successivi (pensioni e conti correnti); la seconda su funerali, trasporto salme, e l'ultima ancora su cimiteri, sepolture ed eventuale cremazione.

giovedì 3 agosto 2017

Mafia, affari e cemento: l’Odissea delle spiagge italiane

«Lo studio presentato dai Verdi:sotto attacco seimila chilometri di costa sequestrati 110 stabilimenti alle organizzazioni criminali». la Repubblica, 2 agosto 2017 (c.m.c.)
Su ottomila chilometri di spiagge, ben seimila sono cementificati: di questo passo nel 2060 tutta la costa italiana sarà un’unica barriera di cemento e mattoni.
La denuncia arriva da un dossier dei Verdi,2017 Odissea nella spiaggia, sui litorali italiani. Una morsa di cemento spesso nata nell’illegalità: dalla Romagna alla Sicilia, passando per la Capitale, sono oltre 110, secondo il rapporto, gli stabilimenti balneari sequestrati alla mafia negli ultimi cinque anni, ottenuti con attività intimidatorie e infiltrazioni mafiose nei Comuni e nelle Regioni.
Troppi, infatti, gli interessi che fanno gola alla criminalità organizzata: dal costo irrisorio della concessione demaniale — incide meno dell’1% sul fatturato dello stabilimento — alla facilità con cui è possibile riciclarne i proventi. Secondo il dossier, il fatturato degli stabilimenti balneari si aggira intorno ai 10 miliardi di euro l’anno — dato peraltro sottostimato rispetto ad altre rilevazioni — un business redditizio reso possibile dall’affitto irrisorio dello Stato.
Il rapporto dei Verdi spiega come le tariffe di affitto sulle aree demaniali dipendono dal regolamento che individua tre tipi di area nelle coste italiane: fascia A, alta valenza turistica, fascia B, normale valenza, e fascia C, bassa valenza. Però in tutta Italia, secondo il dossier, i canoni applicati nelle concessioni sono di fascia B. Così, denuncia il rapporto, lo Stato svende un bene pubblico e tollera una colata di cemento che fa dell’Italia uno dei paesi più cementificati nell’Unione europea. Sulla costa Tirrenica, “respirano” infatti, liberi dal cemento, appena 144 chilometri, 200 sulla costa adriatica.

mercoledì 2 agosto 2017

Lavoro: In Italia non si investe sulla formazione qualificata

Che in Italia la formazione professionale sia rimasta molto indietro rispetto al resto dell’Europa è un dato ormai noto. Il nostro Paese non ha mai agito seriamente sulla formazione continua. La conferma arriva dai numeri presentati nel Rapporto al Parlamento sulla formazione continua realizzato da Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) per conto del ministero del Lavoro relativo al 2015-2016. Le imprese italiane investono poco in capitale e poco in formazione.
In Italia a beneficiare di corsi per la crescita professionale sono meno di 2,5 milioni di persone. Solo il 7,3% di chi ha un età compresa tra i 25 e i 64 anni. La situazione in Italia è grave nonostante sia sempre più urgente preparare i lavoratori alle nuove competenze che saranno richieste quando quelle attuali saranno state automatizzate. Attualmente in Europa c’è una carenza di lavoratori qualificati in diversi settori e allo stesso tempo un surplus di lavoratori con poche qualifiche.
Il tasso di partecipazione alle attività di formazione in Italia è ancora inferiore rispetto alla media europea (10,7%) e al valore del 15% fissato da Europa 2020. Nella classifica continentale a 28, l’Italia occupa stabilmente il sedicesimo posto ed è seguita solo da Paesi del Sud e dell’Est, a eccezione di Irlanda e Belgio. Sette gli Stati già in linea con le aspettative. Come al solito, i più virtuosi sono a Nord: Danimarca, Svezia, Finlandia e Paesi Bassi, seguiti da Francia, Lussemburgo e Regno Unito.
In Europa le opportunità di apprendimento si concentrano sulle professioni più qualificate, con un tasso medio del 17,9%, quattro volte superiore a quello registrato per gli operai specializzati e gli addetti meno qualificati (5%). L’Italia mostra valori inferiori per tutte le categorie professionali, con tassi di partecipazione formativa che vanno dal 13,2% di chi esercita professioni altamente qualificate fino al 2,8% per quelle meno qualificate. Da noi la formazione va soprattutto a chi ha già un’alta qualifica e possiede un diploma di laurea o un titolo superiore.
Chi più ha bisogno di aggiornarsi, in Italia, ottiene meno opportunità di farlo. E il rischio concreto è di essere tagliati fuori dal mercato del lavoro.
“In generale – commenta Stefano Sacchi, Presidente INAPP – gli over 50 mostrano competenze inadeguate rispetto alle innovazioni tecnologiche e organizzative: fattore che può ulteriormente ampliare la differenza tra domanda e offerta di competenze e metterne a rischio l’occupabilità. Per questo Industria 4.0 prevede la progettazione di una formazione professionale mirata allo sviluppo delle competenze chiave”. Competenze chiave quali l’esercizio del pensiero critico, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la creatività, la disponibilità a innovare, la capacità di comunicare efficacemente, l’apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo. “La formazione, come l’innovazione e la ricerca – aggiunge – fanno la differenza nell’ambito dei processi di crescita delle imprese e dell’economia. Puntare sulla crescita professionale dei lavoratori è un investimento importante, un cambio di passo necessario per restare competitivi, affrontando adeguatamente le trasformazione della IV Rivoluzione produttiva”.
Anche il numero di imprese formatrici è crollato in questi anni passando dal 35% del 2011 al 20,8% del 2015.
La formazione è strumento per la nobilitazione delle competenze esistenti e per l’acquisizione di nuove e, in quanto tale, è strumento essenziale per migliorare la qualità del lavoro, per la crescita della produttività e della competitività. In Italia non scarseggia solo la quantità, ma anche la qualità del lavoro. Non investire in formazione equivale a chiedere di rimanere quel che si è, cioè a diventare obsoleti. Non va bene.

martedì 1 agosto 2017

L’Italia dei condoni

La foglia di fico è sempre la stessa, e quando la mettono si aspettano persino l’applauso: «Contenere il consumo del suolo». C’è scritto questo nella sanatoria delle mansarde, che la Regione Lazio sta prorogando da otto anni a questa parte, e c’è scritto questo pure nella sanatoria delle cantine, fresca di pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione Abruzzo. Avete capito bene: le cantine. Chi non sottoscriverebbe una legge regionale sul «Contenimento del consumo del suolo attraverso il recupero dei vani e locali del patrimonio edilizio esistente»?
Leggendo il titolo si potrebbe immaginare un provvedimento per favorire il riuso degli immobili abbandonati, spesso così belli da lasciare senza fiato, dei quali l’Italia è piena. Prima però di aver scorso il testo, scoprendo che delimita invece quel recupero ai «vani e locali seminterrati » da destinare «a uso residenziale, direzionale, commerciale o artigianale ». Ma non religioso: sia chiaro. Perché la sanatoria delle cantine decretata dalla Regione Abruzzo esclude invece espressamente, all’articolo 3, la possibilità di cambiare la destinazione d’uso dei seminterrati «per la trasformazione in luoghi di culto».
Insomma, fateci tutto, anche un bed & breakfast (non è forse attività residenziale?). Tranne che una moschea. Certo, per ottenere questo curioso condono (termine che di sicuro i proponenti rigetteranno sdegnati) bisognerà pagare gli «oneri concessori”. Se però l’intervento riguarda la prima casa è previsto uno sconto del 30 per cento. Va pure da sé che i locali debbano avere determinate caratteristiche. Per farci abitare gli esseri umani sono necessari impianti di “aero- illuminazione” (testuale nella legge) e l’altezza dei locali non può essere inferiore a due metri e quaranta. Ma a trovarle, cantine così alte… Niente paura. Anche in questo caso la legge della Regione Abruzzo offre una elegante scappatoia. Eccola: «Ai fini del raggiungimento dell’altezza minima è consentito effettuare la rimozione di eventuali controsoffittature, l’abbassamento del pavimento o l’innalzamento del solaio sovrastante ».
Il vostro scantinato tocca a malapena uno e novanta? Niente paura: scavate un altro mezzo metro o alzate il solaio di cinquanta centimetri. Sempre rispettando «le norme antisismiche », però. Dopo quello che è successo in Abruzzo, è il minimo. Già… Ma colpisce che nemmeno il terremoto sia stato capace di frenare lo stillicidio delle sanatorie. Anzi. Qualche mese fa c’è stato chi ha rivelato che i contributi pubblici per il sisma non avrebbero discriminato le case abusive. Suscitando la reazione risentita delle strutture commissariali, anche se nessuna smentita ha potuto cambiare la realtà dei fatti: per ottenere i denari statali è sufficiente autocertificare che l’abitazione andata distrutta non era interamente abusiva. E poi presentare domanda di sanatoria. La prova, se ce ne fosse ancora il bisogno, che abusivismo e condoni se ne infischiano anche delle scosse telluriche del settimo grado.
Il vecchio caro condono edilizio ha così pian piano cambiato pelle. Sbarrata la strada in parlamento, si è aperto la via nelle pieghe delle leggi regionali assumendo le forme più subdole e creative. Non soltanto per i sottotetti, come nel Lazio e in Lombardia (Regione che ha deliberato anch’essa il salvataggio delle mansarde), o per le cantine, come in Abruzzo. Emblematico è il caso della Campania, dove il consiglio regionale ha appena sfornato una legge per l’adozione di «linee guida per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi».
Tradotto dal burocratese, sono le direttive alle quali si devono attenere i Comuni per evitare di buttare giù le costruzioni illegali. Per esempio, si deve valutare «il prevalente interesse pubblico rispetto alla demolizione». Come pure tenere debitamente conto dei «criteri per la valutazione del non contrasto dell’opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico ». E che dire dei «criteri di determinazione del requisito soggettivo di ‘occupante per necessità»? Ecco dunque gli abusivi per bisogno, quella figura mitica capace di spazzare via ogni tabù ambientale con relativo senso di colpa. In Campania sono il corpo elettorale fra i più consistenti e la tentazione di grattargli la pancia, tipica di certa destra, ha ormai fatto breccia anche presso certa sinistra.
I Verdi hanno adesso chiesto al governo di Paolo Gentiloni di impugnare la legge votata dalla Regione governata dal suo compagno di partito Vincenzo De Luca e di stroncare insieme anche la sanatoria delle cantine che ha fatto breccia nel cuore dell’Abruzzo presieduto da un altro dem: Luciano D’Alfonso. Arduo prevedere con quali speranze di successo. Probabilmente non più di quante ne abbiano gli oppositori di una recentissima leggina della Regione Sardegna, ora governata dal centrosinistra di Francesco Pigliaru, per bloccare la possibile invasione delle coste dell’isola con bungalow e casette di legno.
Nel provvedimento sul turismo è spuntata infatti la possibilità per i camping isolani di piazzare costruzioni mobili (ma nella versione iniziale erano ammesse anche nella versione non amovibile) al fine di «soddisfare esigenze di carattere turistico». Le quali, precisa il disegno di legge, «non costituiscono attività rilevante ai fini urbanistici ed edilizi».
Sono quindi case vere e proprie, ma è come se non lo fossero. Bisogna ricordare che questa non è una novità assoluta. Anche in precedenza le leggi regionali consentivano di impiantare strutture del genere nei camping. Ma all’inizio non si poteva superare il 25 per cento della capacità ricettiva di un campeggio. Poi si è saliti al 40. E ora al 45. Arrivare al 100, di questo passo, sarà uno scherzo…