lunedì 31 luglio 2017

Una legge elettorale a difesa della Carta

La vittoria del referendum del 4 dicembre ha bloccato solo una delle strade tentate per stravolgere la Costituzione. Altre manovre sono in corso, a partire dalla legge elettorale. il Fatto quotidiano, 27 luglio 2017, con postilla
La vittoria del No non basta ad impedire nuovi tentativi di stravolgimento della Costituzione. Abbassare la guardia sarebbe un errore, come sottovalutare la forza e la determinazione delle potenti forze che in Italia e all’estero hanno spinto Renzi a tentare di deformare la Costituzione. La proposta di Renzi – bocciata il 4 dicembre 2016 – è solo la forma che ha assunto in Italia una scelta politica e istituzionale autoritaria e accentratrice. Panebianco ha proposto che le future modifiche debbano riguardare tutta la Costituzione, principi compresi, non più solo la parte istituzionale. Del resto il tentativo di modificare il patto costituzionale uscito dalla Resistenza e dall’intesa tra le forze fondamentali dell’epoca ha radici antiche.
Né è casuale che l’Istituto Leoni rilanci la flat tax, con il conseguente stravolgimento della progressività e dell’universalità dei diritti sociali, cambiando di fatto la prima parte della Costituzione. Le dichiarazioni fatte durante la campagna referendaria che la prima parte della Costituzione non era in discussione celavano in realtà il boccone più ambito, da affrontare una volta risolto il problema dei meccanismi decisionali in senso autoritario. Del resto nel mondo ci sono tendenze autoritarie: dalla simpatia delle grandi corporation per i regimi non democratici, fino alle derive autoritarie in Turchia, in Ungheria con il bavaglio alla stampa, in Polonia con l’attacco all’autonomia della magistratura. La pressione è contro le procedure democratiche, viste come inutili pastoie che ritardano le decisioni delle corporation e dei gruppi di potere. Il pensiero stesso è semplificato e primordiale e la società che prefigura è autoritaria, anzitutto sotto il profilo culturale. È già accaduto negli Usa, la destra ha preparato gli stravolgimenti partendo dal piano culturale, con l’obiettivo di trasformare un nuovo pensiero dominante in unico, talora in un dogma di Stato. Qualcosa del genere sta accadendo anche in Italia, la destra è all’attacco di principi fondamentali, la reazione è debolissima. La responsabilità politica e culturale del gruppo dirigente a trazione renziana è di avere buttato alle ortiche i valori della sinistra, una rottamazione dei principi. Pensiamo al fisco: la progressività del prelievo è stata abbandonata e sulla casa sono state tolte le tasse ai ricchi; sono stati approvati condoni a raffica, ora in proroga, con le stesse motivazioni di Tremonti. Sinistra e destra hanno sempre avuto un confine: il no, di principio, ai condoni. Questo argine è stato fatto saltare. Dove stanno ora le differenze? Ora è in preparazione un altro stravolgimento costituzionale e questa volta l’attacco riguarderà insieme meccanismi decisionali e principi, cioè i diritti fondamentali delle persone: lavoro, diritti, sanità, stato sociale. Per respingere questo tentativo il primo appuntamento è la legge elettorale, che non a caso nel disegno renziano era tutt’uno con le modifiche costituzionali. Il prossimo parlamento avrà un ruolo importante per respingere questi tentativi. Non si può che concordare con Onida: “Rinnegare i principi non vorrebbe dire rivedere la Costituzione ma stravolgerne i principi supremi… un salto indietro di due secoli”. Un parlamento eletto con i residui di Porcellum e Italicum, composto da nominati dai capipartito e non da eletti dai cittadini sarebbe subalterno ai poteri dominanti. Un parlamento rappresentativo, che risponde agli elettori, potrebbe impedire lo stravolgimento dell’assetto costituzionale, perfino imporne l’attuazione.
La nuova legge elettorale sarà uno spartiacque. Questo è drammaticamente sottovalutato. Troppi continuano a credere che una modalità elettorale vale l’altra. Non è così. Una legge elettorale che consenta di eleggere un parlamento rappresentativo, consapevole del suo ruolo, sarà decisiva per garantire la Costituzione. Altrimenti la destra rilancerà il presidenzialismo.
Il comitato per il No ha il merito di avere dato legittimità culturale e politica al No contro la deformazione costituzionale, impedendo il monopolio della destra. Ma anche a sinistra occorre chiarezza. Il No non è una linea del passato. Il 4 dicembre non basta ad impedire nuovi tentativi e la legge elettorale ancora non c’è. Sì e No non sono sullo stesso piano. Il Sì avrebbe fornito al gruppo di potere renziano le credenziali presso le forze che vogliono il cambiamento ad ogni costo della nostra Costituzione in modo che una minoranza di elettori diventi maggioranza comunque. Il No ha bloccato questo percorso.

venerdì 28 luglio 2017

"Caccia alle streghe" nell’Ucraina di Goebbels

Sono passate ormai alcune settimane dall’arresto di Vitalij Markiv, volontario e comandante di uno dei battaglioni punitivi che secondo la Procura di Pavia fu uno dei responsabili nell’omicidio del giornalista Andrea Rocchelli consumatosi nei pressi di Sloviansk (Ucraina Orientale) il 24 Maggio del 2014 e del suo interprete, oltre che nel grave ferimento del giornalista francese William Roguelon rimasto poi invalido. L’arresto di Markiv ha compromesso la già scarsa lucidità del governo ucraino, furioso di fronte al fatto che gli amici – o presunti amici – italiani abbiano addirittura osato mettere in stato di arresto un “eroe nazionale” come Markiv.
No, a Kiev non se lo aspettavano, e tantomeno si aspettavano che la Procura di Pavia confermasse non solo la non collaborazione sul caso Rocchelli da parte delle autorità ucraine, ma che addirittura dicesse a chiare lettere che le indagini sono state ostacolate da queste ultime, confermando quanto dichiarato dai genitori di Rocchelli nell'intervista pubblicata da L’Espresso a firma di Lucia Sgueglia. Sulla vicenda segnaliamo anche l’interrogazione parlamentare presentata da Luigi Manconi ed una ricostruzione pubblicata da Volga Newsletter.
Per completare il quadro politico con cui si trova ad dover fare i conti l’élite ucraina è importante ricordare che alcune settimane prima dell’arresto di Markiv, l’europarlamentare Eleonora Forenza – a cui abbiamo dato ampio spazio – aveva deciso di recarsi in Donbass portando la propria solidarietà agli insorti di Donetsk e Lugansk.
Alcune settimane dopo l’arresto di Markiv, invece, ancora Eleonora Forenza si è fatta promotrice di un’importante conferenza - a cui chi scrive non ha mancato di dare visibilità - che si è tenuta a Bruxelles presso gli Uffici del Parlamento Europeo durante la quale - oltre alla stessa Forenza - sono intervenuti numerosi deputati europei.
La sommatoria di questi eventi, peraltro in un lasso di tempo assai ridotto, ha scatenato il livore dell’elite golpista di Kiev, che non ha mancato di indirizzare verso l’Italia delle prevedibili risposte.
Kiev chiede l’estradizione per processare per terrorismo chiunque – soprattutto gli italiani - sia recato nei territori sui quali non esercita la propria sovranità di fatto da circa tre anni, fa coprire di minacce ed insulti deputati, solidali e giornalisti: come se già non si fosse oltrepassata la soglia del grottesco, ecco che, sul calco di copioni già visti e commentati – Kiev ripropone la pratica delle liste nere, in cui figura come “antiucraino” e “terrorista” chiunque abbia avuto il coraggio di criticare pubblicamente le responsabilità dei vertici poltiici e militari.
Non pago di Myrotvorets, banca dati dei presunti nemici dell’Ucraina a disposizione di scribacchini, diffamatori e macellai neonazisti, l’apparato ucraino sta utilizzando nuove tecniche per screditare e minacciare chiunque non si faccia intimore né dagli insulti, né dallo spettro dalle galere dove sono rinchiusi migliaia di oppositori e prigionieri politici, né dalle migliaia di morti che pesano come macigni sulle spalle dell’apparato ucraino e che ne comprovano la condotta.
La macchina del fango si rimette in moto. Dmitrij Sneghirev, ad esempio, è una voce autorevole dell’apparato ucraino: ex militante del partito neonazista Svoboda – da cui è fuoriuscito polemizzando con la linea “troppo morbida” del partito - è uno dei principali inquisitori del dissenso ucraino, diffamatore di giornalisti scomodi e – chiaramente - dei ribelli del Donbass.
Del tutto degno di quell’Andriy Parubiy recentemente ricevuto con tutti gli onori da Laura Boldrini, Dmitrij Sneghirev, oltre a ricoprire di fango chiunque abbia denunciato le responsabilità del governo ucraino, si occupa, ad esempio, di incitare l’apparato dal quale dipende ad agire contro i “mercenari italiani”. Questi ultimi vengono intenzionalmente confusi con giornalisti, musicisti, solidali e deputati, in modo da presentare come legittimo un uso della violenza indiscriminato nei loro confronti.
Lo stesso Sneghirev, in un altro autorevole scritto, con fare perentorio suggerisce alla Procura Generale Ucraina (GPU) ed ai servizi segreti (SBU) di indagare sulle presunte connivenze tra la Procura di Pavia e gli ambienti vicini alle autoproclamate Republiche Popolari di Lugansk e Donetsk, volendo far credere che l’arresto di Markiv non sia altro che una provocazione orchestrata dalla Federazione Russa con la complicità italiana. Come si tenta di delegittimare l’operato della Procura di Pavia?
Si sostiene, come fa Sneghirev, che l’operato della Procura non è volto al rintracciare le responsabilità dell’omicidio di un cittadino italiano, consistendo piuttosto in un’operazione diretta contro l’Ucraina dalla Regione Lombardia in linea con il suo ricoscimento dell’annessione della Crimea alla Federazione Russa.
Tra i numerosi personaggi della risma di Sneghirev, c’è Diana Makarova, personaggio di spicco delle bande neonaziste ucraine e delle loro maschere dal volto umano, come l’omonimo fondo di assistenza ai battaglioni punitivi di cui è responsabile. Diana Makarova si presenta come un’attivista dai canoni occidentali costantemente impegnata nell’apologia e nell’esaltazione dei macellai di Pravij Sektor.
Diana Makarova, evidentemente non soddisfatta dell’operato del camerata Sneghirev, ha ben pensato di aggiungere nuovi nomi, nuove foto e nuove calunnie contro i presunti “mercenari e sostenitori dei terroristi del Donbass”: Diana Makarova non ha fatto che aggiungere alla “velina” pubblicata da Sneghirev un’ulteriore quantità di fango prodotto manipolando alcuni dati ricavati dall’archivio di posta elettronica sottratto ad una responsabile del Ministero dell'Informazione della DNR (acronimo di Repubblica Popolare di Donetsk) da alcuni hacker ucraini.
Chi scrive, un giornalista che considerando il fervore con cui viene attaccato può dirsi assai fastidioso per la cricca di Poroshenko, si trasforma in un “mercenario” ed in un “terrorista” in combutta con un gruppo di duginiani (!) francesi e viene accostato intenzionalmente anche ai nomi di altri personaggi – non sempre illustri - sui quali, come il lettore potrà osservare, campeggia il nome di Matteo Salvini.
E’ interessante notare che sia proprio la Makarova a confidare nell’azione dell’Interpol (!) per la cattura di decine di giornalisti tra i quali il sottoscritto, e che negli ultimi giorni chi scrive stia ricevendo una mole notevole di insulti e minacce.
La pubblicazione di Diana Makarova, tutt’ora in rete, è stata velocemente ripresa prima da un blog, da Censor e da altri siti ucraini: benché, mi venga concesso un ruolo di rilievo, con tanto di foto, nella lista pubblicata dalla Makarova il mio nome compare insieme a quello di Pierpaolo Leonardi, segretario dell’Unione Sindacale di Base, musicisti come la Banda Bassotti, di semplici solidali con i ribelli del Donbass, di numerosi giornalisti - evidentemente scomodi - come Maria Elena Scandaliato, Lorenzo Giroffi, Giorgio Bianchi, Andrea Sceresini, Alfredo Bosco ed altri.
E’ ammissibile che l’Italia tolleri e permetta un atteggiamento di questo genere?

giovedì 27 luglio 2017

Tra piattaforme e algoritmi: nuove parole, vecchio sfruttamento

Nei meandri della gig e della sharing economy tutto deve essere cool. Ma oltre alla nuova frontiera del lavoro a chiamata e del ritorno del cottimo, da tempo ha fatto la sua comparsa anche il lavoro gratuito
Negli Stati Uniti hanno fatto notizia i numerosi processi intentati contro Uber, con l’obiettivo di far luce sulle condizioni di lavoro degli autisti, per stabilire se si tratti di lavoratori autonomi o no. Nell’estate 2016 a Londra hanno scioperato i lavoratori di Deliveroo e UberEats, per contrastare il tentativo delle aziende di passare da una retribuzione oraria al cottimo.
Le stesse ragioni sono state alla base delle proteste dei lavoratori di Foodora Italia, che inizialmente hanno avviato un contenzioso sulle biciclette, a loro carico come smartphone e costi telefonici. Successivamente il contenzioso è stato esteso alla retribuzione oraria, passata da 5,40 euro all’ora al cottimo (2,70 euro per consegna), che l’azienda ha introdotto per tutti i neo assunti, fino a estenderla progressivamente all’intera forza lavoro.
Non a caso c’è chi rivendica, e in taluni casi definisce per legge (come in Gran Bretagna), uno status apposito per i lavoratori della gig economy (lavoratori on demand), con ferie pagate, paghe minime e più poteri in sede di dibattimento. In particolare, si supera la dicotomia tra “lavoro dipendente” e “autonomo” verso la figura del “dependent contractor”, “dipendente a contratto” o “autonomo-dipendente”, ossia chi è idoneo a ricevere le tutele dei lavoratori pur non essendo dipendente.
Tuttavia nella maggior parte dei casi le norme non si sono ancora adeguate e le aziende ne approfittano, giocando anche su un linguaggio ambiguo e oscuro.
Ecco dunque che il fattorino diventa un rider. Già, perché gig economy e “retorica del lavoretto” vanno a braccetto con un vocabolario tanto “smart” quanto mistificatorio.
Tutto deve essere “cool”, come le pettorine fuksia. Perché se la busta paga deve assomigliare a una fattura, allora anche il turno diventa una “disponibilità”, essere assunti è “salire a bordo”, lavorare “per” si trasforma in lavorare “con”.
Ma la scomposizione del lavoro, dei suoi diritti e delle parole per nominarli sembra essere senza confini.
Oltre alla nuova frontiera del lavoro a chiamata (“on demand”) e del ritorno del cottimo, da tempo ha fatto la sua comparsa un altro incubo: il lavoro gratuito.
È stato Marco Bascetta ad aprire il dibattito su questo fenomeno, usando l’espressione folgorante di “economia politica della promessa”.
Come ricorda Francesca Coin in Salari Rubati, “il riferimento esplicito era all’accordo sindacale che ha consentito a Expo 2015 di sostituire il rapporto di lavoro contrattualizzato con una prestazione lavorativa non remunerata”.
Come per i fattorini di Foodora, “per i volontari di Expo c’era un immaginario linguistico che trasformava la grande esposizione in un’occasione di net-working, un modo per acquisire competenze e visibilità. La promessa è il miraggio di un futuro migliore, che legittima l’erogazione di lavoro gratuito come strumento di occupabilità in posizioni qualificate”.
È questa la logica che induce al lavoro gratuito tirocinanti e freelance, artisti ed editori, autori e curatori o banalmente tutti coloro che scrivono gratuitamente progetti e grant, nell’illusione che tutto ciò porti a una posizione remunerata.
Insomma, prima ti convincono che è normale fare “lavoretti”, che se non vuoi essere “choosy” devi accontentarti, poi arrivano gli stage, i tirocini, il lavoro gratuito e infine paghi per lavorare. Sì, si è visto anche questo, per esempio due anni fa con l’annuncio di una casa di produzione cinematografica che proponeva di partecipare all’”avventura” della realizzazione di un film in qualità di assistente alla regia, fotografo, scenografo, truccatore, per 500 euro.
Credo sia innegabile che, non esistendo forme di reddito minimo di autonomia per disoccupati, inoccupati, precariamente occupati e sottoccupati, questa escalation sia stata ancora più inarrestabile.
Un dato su tutti: in Italia il numero dei Neet è sempre stato del 60-70 per cento superiore alla media Ue, intorno a un livello del 20% rispetto alla forza lavoro complessiva. La media europea è dell’11%. Si tratta soprattutto di giovani che hanno bisogno di lavorare perché hanno bisogno di reddito. Non sono quindi disoccupati volontari, ma non rientrano nemmeno tra i disoccupati. I Neet sono il bacino degli scoraggiati, oltre che del lavoro nero e grigio.
L’Italia, di fronte a questi fenomeni, è davvero maglia nera in Europa, uno stato carogna (“rogue state”), insieme alla Grecia l’unico a non avere un sistema minimo di tutela garantito dal reddito universale, come la UE non ha mancato di ricordare più volte.
Eppure, come hanno sostenuto Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli, le ragioni del reddito e del salario minimo sono affermate negli articoli 36 e 38 della Costituzione e non contraddicono l’articolo 1 sulla “repubblica fondata sul lavoro”.
Non solo: a gennaio di quest’anno il Parlamento europeo si è espresso con un’importantissima Risoluzione sul “pilastro europeo dei diritti sociali”, in cui emergono in particolare proprio i due temi della predisposizione di tutele e garanzie anche per il nuovo “lavoro digitale” sulle piattaforme e la centralità del reddito minimo garantito nel rilancio del “modello sociale europeo”.
Perché questa riflessione?
In occasione delle giornate del G7 su impresa, lavoro e scienza a Torino (24 settembre-1 ottobre), stiamo organizzando “ProXima”, un festival di quattro giorni con dibattiti, spettacoli, ospiti nazionali e internazionali.
Per quattro giorni parleremo di società, cultura, politica, di presente e di futuro con persone che nel loro Paese hanno cambiato o stanno cambiando il corso delle cose, e con chi ha studiato e ragionato su ciò che oggi, nel nostro mondo, sono diventati l’economia e il lavoro, che cosa ne muove le trasformazioni, a vantaggio di chi, con quali effetti sulla società (in queste ore stiamo mandando le lettere di invito a Jeremy Corbyn, Jean-Luc Mélenchon, Pablo Iglesias, Ada Colau, Yanis Varoufakis, Thomas Piketty, Joseph Stiglitz e altri). Per quattro giorni ci troveremo in un luogo simbolo della città, da troppo tempo spento: i Murazzi. Uno spazio aperto, popolare, dove tutti e tutte possono riunirsi senza limiti e senza barriere.

mercoledì 26 luglio 2017

Via d'Amelio oltre i depistaggi, cercate i mandanti esterni

Silenzi” e “depistaggi di Stato” sono stati al centro del dibattito nelle commemorazioni della strage di via d’Amelio, che quest’anno ha compiuto un quarto di secolo. Venticinque anni dopo il delitto in cui persero la vita Paolo Borsellino ed i cinque agenti di scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina) lo scorso 20 aprile, la Corte d’Assise di Caltanissetta, al processo Borsellino quater, oltre ad aver condannato all'ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino (imputati della strage) ha sancito per la prima volta l’esistenza di un depistaggio nella strage di via d’Amelio, condannando a 10 anni i "falsi pentiti" Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Con il dispositivo ha anche dichiarato il “non doversi procedere per pervenuta prescrizione in ordine al reato di calunnia pluriaggravata” nei confronti di Vincenzo Scarantino, il “picciotto della Guadagna” le cui dichiarazioni sono state sconfessate da quelle di Gaspare Spatuzza in tempi successivi. Scarantino, dicono i giudici, avrebbe quindi effettuato la calunnia solo perché "determinato a commettere il reato" dagli apparati di Polizia, che l’hanno “imboccato”, inducendolo a raccontare false verità. Inoltre la Corte ha disposto la trasmissione ai pm dei verbali d’udienza dibattimentale “per eventuali determinazioni di sua competenza”.
Sicuramente un atto di giustizia nei confronti dei familiari delle vittime, che da anni aspettano ancora di sapere la verità su quanto avvenuto, e nei confronti di chi è stato condannato ingiustamente per il delitto. Le riflessioni sul depistaggio (da chi è stato ordito? chi l’ha permesso? perché?), però, non devono distogliere l’attenzione sul quesito madre: chi sono i mandanti esterni della strage Borsellino?
Rispondere a questa domanda, forse, può anche aiutare a far capire i motivi che si nascondono dietro al depistaggio stesso.
I mandanti esterni che ci sono
Della presenza di mandanti esterni dietro le stragi ha parlato più volte il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e nei giorni scorsi gli stessi pm nisseni, ascoltati in Commissione antimafia, hanno affrontato l’argomento. Nella Procura nissena, tra i primi magistrati ad indagare sui mandanti esterni a Cosa nostra nelle stragi sono stati Luca Tescaroli e Nino Di Matteo, con quest’ultimo che è recentemente tornato chiedere la riapertura del fascicolo. Di Matteo, oggi pm del processo trattativa Stato-mafia, ha seguito parte del “Borsellino bis” (anche se quell’indagine lo ha visto tra i protagonisti solo a partire dall'ottobre-novembre del 1994) ed ha istruito interamente, insieme al pm Anna Maria Palma, il Borsellino ter che, diversamente dai primi due processi sulla strage di via d’Amelio, non è stato messo in discussione. Proprio in questo dibattimento emersero diversi elementi sui coinvolgimenti esterni alla mafia per le stragi. Un processo che ha portato alla definitiva condanna di boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe '55) e Salvatore Biondo (classe '56). Nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ricostruzioni basate sui pentiti Pulvirenti, Malvagna, Avola e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”. Cancemi disse anche che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi.
Ciò che viene accertato anche nelle sentenze definitive è che c’è stata un’accelerazione anomala dell’esecuzione della strage di via d’Amelio

martedì 25 luglio 2017

Manca l’acqua? In Italia le fonti fossili ne bevono 160 milioni di metri cubi l’anno

In Italia dove (fortunatamente) non ci sono centrali nucleari – di gran lunga risulta le più assetate per la produzione di energia –, ci pensano quelle alimentate da fonti fossili a consumare ingenti quantità d’acqua per poter funzionare: ogni anno ne bevono 160 milioni di metri cubi di acqua, ovvero (considerando in media un consumo procapite di circa 200 litri al giorno per persona) il fabbisogno annuale d’acqua di circa 2,2 milioni di persone.
D’altronde, però, l’energia è fondamentale al funzionamento della nostra società. Come rimediare? Passando alle fonti rinnovabili: «L’emergenza acqua che sta colpendo molte Regioni italiane – spiegano oggi dall’Anev, l’Associazione nazionale energia del vento – è dovuta in primis ai mutamenti climatici che sostengono una tra le più severe siccità mai registrate, ma anche alla scarsa attenzione verso un’oculata gestione delle risorse ambientali e delle materie prime. Questi fattori messi insieme stanno portando ad una vera è propria crisi ecologica e al rischio di calamità naturale. Oltre agli adeguamenti strutturali e ad una gestione più razionale, è necessario avviare una pianificazione organica di lungo termine anche nel campo dell’approvvigionamento energetico. Uno studio dell’Eea, Agenzia europea dell’ambiente, ha infatti quantificato in circa il 44% dell’acqua usata direttamente ed indirettamente in Europa la quota utilizzata negli impianti termici e nucleari, più di quanto consumato dalla somma del settore industriale e agricolo; quota equivalente al consumo annuale di circa 80 milioni di persone».
Il contesto italiano – come si evince dai dati Istat sul consumo di acqua – è diverso, con l’agricoltura che spicca come il settore in assoluto più assetato: «I prelievi di acqua effettuati nel 2012 (dove ad oggi si fermano i dati Istat, ndr) sono stati destinati per il 46,8% all’irrigazione delle coltivazioni, per il 27,8% a usi civili, per il 17,8% a usi industriali, per il 4,7% alla produzione di energia termoelettrica e per il restante 2,9% alla zootecnia».
Ciò non toglie che una maggiore diffusione delle fonti di energia rinnovabili permetterebbe da una parte di combattere efficacemente i cambiamenti climatici, dall’altra di ridurre il comunque abbondante consumo d’acqua imputabile alle fonti fossili: «Negli ultimi dieci anni, grazie all’apporto della fonte eolica nella produzione di energia elettrica nel nostro Paese – aggiungono infatti dall’Anev – si sono risparmiati circa 110 milioni di metri cubi d’acqua, equivalenti al consumo annuale di circa 1,5 milioni di persone».

lunedì 24 luglio 2017

A Falcone fu impedito di indagare su Gladio

Una pista non ancora esplorata sulla strage di Capaci è quella che porta ai legami tra gli omicidi eccellenti di Cosa Nostra e la Gladio, la struttura paramilitare segreta creata per contrastare l’avanzata delle sinistre in Italia. Giovanni Falcone avrebbe voluto indagare su questo fronte prima di lasciare la Procura di Palermo per assumere l’incarico di direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ma gli fu impedito. Ne accenna in questo articolo-intervista il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, che è stato uno dei più stretti collaboratori del giudice assassinato il 23 maggio di vent’anni fa.
Palermo, 23 maggio 2012
I primi a registrare l’esplosione sono i sismografi dell’istituto di geofisica di Monte Cammarata, nell’Agrigentino. Siamo nel 1992. Nel pomeriggio del 23 maggio Giovanni Falcone e la moglie, Francesca Morvillo, dopo essere atterrati a Punta Raisi, sono saliti su un’auto blindata e stanno viaggiando in autostrada verso Palermo, scortati da due macchine della polizia. Alle 17,56 e 48 secondi, quando il piccolo convoglio è in prossimità di Capaci, le apparecchiature di Monte Cammarata segnalano una scossa. In realtà è una deflagrazione terrificante. Cinquecento chili di esplosivo infilato in un cunicolo sotto l’asfalto hanno fatto una strage: hanno aperto un cratere profondo tre metri e mezzo, facendo schizzare le auto come birilli. Solo da una sono usciti illesi tre uomini. S’è anche salvato l’autista di Falcone. Ma per gli altri non c’è stato niente da fare. Con il giudice e la sua consorte sono morti gli agenti Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Nove i feriti, di cui cinque cittadini comuni. Per avere ideato l’eccidio saranno riconosciuti colpevoli dalla Corte d’Assise di Caltanissetta Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capi corleonesi della mafia. E con sentenza d’appello, nell’aprile 2000, fioccheranno gli ergastoli contro gli esecutori materiali della strage. Ma chi erano i mandanti a volto coperto di Capaci? «È solo mafia questa? Non ha anche il marchio atroce e inumano del terrorismo? Chi ci può essere dietro questo atto di guerra?», dirà a Montecitorio il presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, che il 25 maggio 1992 sarà eletto capo dello Stato sbarrando la strada al principale aspirante al Quirinale, Giulio Andreotti.
L’ipotesi che i mandanti fossero esterni a Cosa nostra, ancorché priva di riscontri processuali, continua ad essere oggetto di accertamenti dopo le rivelazioni degli ultimi collaboratori di giustizia. Spiega il Procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, che lavorò con Falcone alla Procura di Palermo fino a che questi non si trasferì a Roma come direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia: «I fatti sono più complessi e rientrano in quello che Falcone chiamava “il gioco grande”, espressione con la quale alludeva al gioco grande del potere di cui il sistema mafioso è stato coprotagonista fin dall’unità d’Italia. L’idea che da una parte vi siano i buoni, i rappresentanti dell’antimafia, e dall’altra i soliti noti, brutti e cattivi, cioè i Riina e i Provenzano, è una semplificazione nella quale chi, come me, ha vissuto quelle vicende non si riconosce. La storia di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e di coloro che li hanno preceduti è uno spinoso affare di famiglia interno alla classe dirigente». Una storia che ha alle spalle una scia di sangue e che comincia nei primi anni 80 con gli omicidi del procuratore capo di Palermo Gaetano Costa e del consigliere istruttore Rocco Chinnici. Sono entrambi delle avanguardie che fanno da rompighiaccio all’interno di un palazzo di giustizia dove opera una magistratura ripiegata su una tranquilla routine burocratica e talora in consonanza culturale con la mafia. Chinnici racconta nei suoi diari delle pressioni subite, dentro e fuori del palazzo di giustizia, per fare in modo che Falcone, che lavorava con lui all’ufficio istruzione, fosse distolto dalle indagini sui colletti bianchi. Collaboratori come Giovanni Brusca, il quale azionò il radiocomando che fece esplodere il tritolo di Capaci, «hanno raccontato che l’ordine di uccidere Chinnici era venuto dal mondo superiore dei colletti bianchi e cioè dai cugini Salvo», aggiunge Scarpinato.
È su questa scia di sangue che Falcone e Borsellino proseguono le loro inchieste dopo gli omicidi Costa e Chinnici. Continua Scarpinato: «Essi si insinuano in una storia difficile, in cui alcuni cadono perché hanno osato alzare il livello delle indagini. Se espungiamo questa parte del racconto, restano sul campo solo i Riina e i Provenzano». Falcone e Borsellino riscuotono consenso fintantoché nel mirino del pool c’è solo la mafia militare, che con il maxiprocesso subisce condanne esemplari. Il loro isolamento scatta quando cominciano a indagare sui piani alti del potere. Con l’arresto dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, il 3 novembre 1984, e con quelli di Antonino e Ignazio Salvo, imprenditori legati alla Dc, detentori del monopolio delle esattorie, «quel consenso – dice ancora Scarpinato – viene progressivamente ritirato e comincia una campagna mediatica di delegittimazione tendente a rappresentare Falcone e Borsellino come soggetti nei quali non ci si poteva identificare o perché pedine del Partito Comunista o perché ammalati di protagonismo. Ci sono i diari ai quali Falcone affidò tutta la sua amarezza per essere stato emarginato all’interno della Procura e c’è l’agenda rossa, mai ritrovata dopo la strage di Via D’Amelio, in cui Borsellino annotava l’indicibile».
Falcone non doveva occuparsi d’altro che di mafia militare e lasciar perdere le indagini sui colletti bianchi: questo era il messaggio che veniva dall’alto. E quando cercò di capire le eventuali connessioni tra gli omicidi eccellenti e la Gladio (la struttura paramilitare segreta, creata per contrastare l’avanzata della sinistra) gli fu impedito di farlo. Nella sua agenda elettronica c’è un appunto su una richiesta di incontro ai magistrati romani che seguivano quella pista. Prosegue Scarpinato: «Falcone aveva preso degli appuntamenti in seguito a un esposto della parte civile del processo La Torre (il segretario regionale del Pci assassinato da Cosa nostra, ndr) da cui emergevano possibili collegamenti tra Gladio e questo omicidio. Ma l’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, li disdisse».
Subisce la stessa emarginazione Borsellino. Commenta Scarpinato: «Ricordo che gli era stato inibito di occuparsi di certi processi e ricordo il braccio di ferro in Procura per impedirgli di parlare con Gaspare Mutolo dopo la morte di Falcone. Quando gli viene data la possibilità di ascoltarlo, Mutolo gli anticipa che intende parlare di Bruno Contrada. Ma da lì a poco Borsellino viene eliminato».
Diversi fatti avvalorano la tesi dei mandanti occulti dietro Capaci e Via D’Amelio. Due giorni prima del 23 maggio una piccola agenzia di stampa vicina ai servizi (Repubblica) dà l’annuncio di un grande “botto”. Poco prima dell’omicidio Lima, il neofascista Elio Ciolini, coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna, parla dell’inizio di una stagione stragista. E non meno inquietante è il suicidio in carcere per impiccagione di Antonino Gioè, che contribuì a collocare l’esplosivo nel cunicolo sotto l’autostrada. Come riferirono alcuni collaboratori, Gioè annunciò che dopo Capaci sarebbero avvenuti altri fatti gravi. Dice Scarpinato: «Era certamente a conoscenza di altre parti mancanti del gioco grande. Nella sua cella fu trovato un biglietto in cui faceva allusioni a strani suoi rapporti con i servizi». E conclude con una metafora: «Riina e Provenzano sono come i bravi dei Promessi Sposi. Non si può raccontare la storia dei Promessi sposi tagliando fuori don Rodrigo. Riina e Provenzano sono figli di don Rodrigo. E finché questo Paese vedrà calcare la scena di tanti don Rodrigo dovremo convivere con i loro bravi. I quali a volte si montano la testa e possono mandare il mondo sotto sopra. Quella della mafia, tranne la parentesi corleonese, è la storia di una componente della classe dirigente che ha sempre avuto un rapporto irrisolto con la violenza e con la legalità».

venerdì 21 luglio 2017

Trump ordina alla CIA di fermare tutti gli aiuti finanziari e militari ai "ribelli" in Siria

Dopo sei anni di guerra in Siria, l'amministrazione statunitense ha infine deciso di rinunciare al suo sostegno ai gruppi ribelli che combattono contro le truppe siriane.
Secondo i funzionari statunitensi, Donald Trump ha deciso di porre fine al programma segreto della CIA per armare e formare i "ribelli" in Siria. Questo programma di armamento è stato messo in atto dall'amministrazione Obama nel 2013 per cercare di abbattere il governo di Bashar Al-Assad.
Dopo i colloqui con la Russia, la Casa Bianca ora blocca il programma segreto, una mossa che probabilmente avrà gravi implicazioni per l'esercito siriano libero (FSA), appoggiato dagli Stati Uniti, che si trova nella Siria meridionale attorno al confine di Al-Tanf.

Anche se la CIA ha rifiutato di commentare, i funzionari statunitensi hanno detto al 'The Washington Post' che Trump ha deciso di interrompere il programma della CIA quasi un mese prima di una riunione del 7 luglio scorso con il presidente russo Vladimir Putin. "Questa è una decisione importante ... Putin ha vinto in Siria", ha dichiarato un funzionario nordamericano, che ha parlato in condizione di anonimato.
Il piano non coinvolge le forze democratiche siriane (SDF), una forza che sta combattendo per conquistare Raqqa e che ha ricevuto armi pesanti e veicoli corazzati in numero sempre crescente dagli USA negli ultimi mesi.

giovedì 20 luglio 2017

Fisco complicato, abbiamo il primato in Europa. Con una valanga di tasse inutili

Più le tasse sono complicate, più sono ingiuste e meno si pagano. È una legge dell’Economia, oltre che delle Scienze sociali, e l’Italia non a caso abbina il doppio primato (entrambi negativi) in Europa: il paese con la più alta pressione fiscale (43 per cento del pil) e quello con il sistema fiscale più complesso. Doppio record, doppio spreco.
Sono già passati dieci anni, esattamente dal 2006, quando furono introdotte le prime comunicazioni online all’erario. Un decennio nel quale abbiamo fatto un importante, e costoso, passo avanti, e tanti passi indietro. Iniziamo da questi. Nel 2016 sono stati inviati alle Entrate 177 milioni di documenti, nel 2017 saranno più di 200 milioni. Alla faccia della semplificazione. E anche i codici tributari, giusto per non farci mancare nulla in tema di fisco velenoso, sono passati da 300 a 350. Allo stesso tempo non si placa, ma anzi aumenta, la raffica di scadenze fiscali con nuovi obblighi per commercialisti e ragionieri che poi presentano il conto ai contribuenti.
FISCO COMPLICATO IN ITALIA
E il passo avanti? Ci sono 30 milioni di contribuenti che hanno finalmente potuto inviare il 730 precompilato, con un risparmio importante (si parla di circa 2 miliardi di euro) per lo Stato. Un risparmio per lo Stato, ma un aumento per i cittadini: qui sta il paradosso di questa catena infinita di sprechi. A fronte di quei 30 milioni di fortunati che se la cavano con un clic, ci sono milioni di altri contribuenti per i quali invece la montagna di comunicazioni è ulteriormente cresciuta.
E nella giungla di carte, scadenze, adempimenti e costi che aumentano, e continuano ad aumentare, non poteva mancare l’ultima chicca, tutta da creatività italiana: le tasse inutili. Almeno cento. Tasse che non valgono quasi nulla in termini di gettito, rappresentano balzelli anacronistici oppure assurdi e non fanno altro che complicare il fisco, aiutando così a gonfiarsi la bolla dell’evasione fiscale, il vero virus che azzoppa l’Italia.
TASSE INUTILI
Esiste una tassa per esporre la bandiera, una per mettere una tenda parasole, o anche per scrivere sullo zerbino del negozio il nome dell’esercizio commerciale. Sui decessi paghiamo tre imposte: per il certificato di constatazione di morte, per il trasporto e la manutenzione dei cimiteri, per la cremazione. Ci sono anche le tasse sugli sposi, sulle suppliche, sulla raccolta dei funghi e sulle paludi. Già, le paludi: il balzello risale al 1904, quando iniziarono le bonifiche. E da allora nessuno ha pensato di eliminarlo, mentre tutti hanno però promesso di semplificare. E gli italiani sono rimasti intrappolati nella palude del fisco complicato e ingiusto.

mercoledì 19 luglio 2017

Borsellino: ''Via d'Amelio strage nata da complicità mafia-pezzo deviato Stato''

Non inventeranno mai una bomba che uccida l’amore”. E’ così, agenda rossa in mano, che Salvatore Borsellino ha concluso l’incontro organizzato da ANTIMAFIADuemila, in collaborazione con Contrariamente e Agende rosse, a 25 anni dalla strage di via d’Amelio. “Venticinque anni sono passati da dalla strage di via d’Amelio, nata da complicità mafia-pezzo deviato Stato. Mio fratello è morto a 52 anni, così come il fratello di mio padre e mio padre”. Il fratello del giudice, nel suo intervento, ha letto la postfazione che ha scritto per il libro di Aaron Pettinari, “Quel terribile '92” (curato da Pietro Orsatti ed edito da Imprimatur).
“Venticinque anni e non puoi più dimenticare - scrive in un passaggio - Perché tuo fratello è andato in guerra ma ad ucciderlo non è stato il fuoco del nemico che era andato a combattere, ma il fuoco di chi stava alle sue spalle, di chi avrebbe dovuto proteggerlo, di chi avrebbe dovuto combattere insieme a lui. Venticinque anni e non c’è tempo per piangere. Non è tempo di lacrime perché è solo tempo di combattere per la Verità e per la Giustizia, per quella Giustizia che viene invece irrisa, vilipesa, calpestata da un depistaggio durato per l’arco di ben tre processi. Un depistaggio ordito da pezzi deviati dello Stato ma avallato da magistrati che avrebbero dovuto rigettarlo, tanto era inverosimile che potesse essere stato affidato ad un balordo di quartiere il compito di uccidere Paolo Borsellino. E poi un quarto processo nel quale si pretendeva di processarne la vittima accusandolo delle calunnie a cui era stato costretto con torture di ogni tipo da pezzi di uno stato deviato che, per occultare la Verità, nasconde nelle sue casseforti un’Agenda Rossa, sottratta dalla macchina di Paolo ancora in fiamme”.
Ed infine ha concluso: “Venticinque anni e non so quanti anni ancora mi restano per obbedire al giuramento fatto a mia madre, ma una sola certezza: che il sogno di Paolo non morirà mai, perché era soltanto un sogno d’amore”.
Ingroia: “Siamo ancora orfani di verità”
di AMDuemila
“Oggi, dopo 25 anni, siamo orfani non solo di Paolo Borsellino ma anche della verità” ecco perché “resistere senza cambiare idea è importante, ma non basta, perché dobbiamo soprattutto cambiare il corso delle cose” e per farlo “dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà”. Con queste parole Antonio Ingroia ha ricordato la strage di via d’Amelio a venticinque anni, all’incontro “In che Stato è la mafia?” in corso a Palermo. “Abbiamo il diritto di sapere la verità e nei suoi confronti noi cittadini abbiamo dei doveri - ha detto ancora Ingroia - ciascuno con il proprio ruolo che vada ben oltre la tifoseria”.
Guardare in faccia la realtà, ha detto l’ex pm palermitano, significa “dire che i magistrati come Giuseppe Lombardo e Nino Di Matteo fanno poca carriera mentre altri magistrati opportunisti la fanno!” Significa ricordarci che “le cose oggi non vanno bene perché l’agenda rossa è stata rubata da un traditore di Paolo Borsellino e questo traditore non è stato ancora scoperto”. A questo e molto altro “noi non possiamo rassegnarci, dobbiamo ribellarci”.
Alla luce delle ultime notizie di cronaca, Ingroia ha definito la fase attuale “quella del revisionismo in quanto al sistema criminale non basta che siano rimasti dei buchi neri” su stragi e delitti eccellenti, ma ora “i mafiosi cominciano a sperare che ci sia una revisione pronta per loro”. In riferimento alla decisione della Cassazione di dichiarare la condanna a Bruno Contrada per concorso esterno i associazione mafiosa, ineseguibile e improduttiva di effetti penali, Ingroia ha detto: “Se siamo arrivati a dire che il concorso esterno in associazione mafiosa è diventato un reato esistente chissà se si arriverà dire che anche l’associazione mafiosa è un reato inesistente e tornare all’epoca in cui non esisteva la mafia”. Una decisione che si basa sulla sentenza della Corte di Strasburgo, definita da Ingroia “una sentenza che nega la verità” perché “è falso che il concorso esterno in associazione mafiosa è un reato di origine non giurisprudenziale!”
Così come “è una menzogna che è un reato riconosciuto solo dal 1994 perché - ha continuato l’ex magistrato - ci sono due sentenze del 1875 dove si punivano i colletti bianchi concorrenti esterni alle organizzazioni criminali di brigantaggio. Oltre al fatto che gli stessi Falcone e Borsellino lo utilizzarono. La decisione della Cassazione sul caso Contrada rappresenta, secondo Ingroia “una falla dalla quale può crollare la diga intera” infatti “non è un caso che sia già iniziata la campagna mediatica per la revisione di condanna di Marcello Dell’Utri”.
“Ora la mafia sta rientrando nella fase di riemersione, il rischio è che si torni al vecchio stile: ‘essere forti con i deboli e deboli con i forti! - ha concluso l’avvocato Ingroia - Qui tocca a noi, uomini e cittadini che non si arrendono, dobbiamo non lasciare soli i magistrati e cambiare l’Italia perché Falcone e Borsellino sono morti per questo”.
Di Matteo: ''Su Contrada falsificazioni e opportunismi''
di AMDuemila
di matteo2Sulla recente vicenda dell'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, "ci sono state da un lato falsificazioni e mistificazioni, dall'altra silenzio e opportunismo". E' il duro commento di Nino Di Matteo, pubblico ministero del processo trattativa Stato-mafia, alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo per il 25° anniversario della strage di via d'Amelio. "La Cassazione ha affermato che la pena già scontata da Contrada (per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) era ineseguibile" ma "la raffinata onda mediatica, partendo da presupposti falsi, vuole rappresentare la sua innocenza". E, parallelamente, "nessuna delle alte cariche della magistratura sente il bisogno di spiegare all'opinione pubblica che non è in discussione il fatto" che "un funzionario di quel livello colludeva con la mafia". "Questi comportamenti - ha ribadito Di Matteo - sono offese alla memoria dei nostri morti. Nessuno reagisce con la stessa forza" delle "prese di posizione su gravi episodi di statue dannegiate. Lì è facile reagire e prospettare l'idea di uno Stato che difende in maniera totale e omogenea la memoria dei nostri morti". Il riferimento è all'atto vandalico dei giorni scorsi ai danni della statua di Falcone.
"Con la regia di menti raffinate e penne eleganti - ha spiegato Di Matteo - c'è una posizione negazionista che tenta di accreditare la tesi che i rapporti tra mafia e politica sono solo nella mente di magistrati politicizzati" unita alla "volontà di cancellare per sempre la stagione dei grandi processi sulle collusioni politico-istituzionali". Contestualmente, ha aggiunto il magistrato ora alla Direzione nazionale antimafia "si spinge e valorizza l'operato di quei magistrati che si sono sempre ben guardati dall'addentrarsi nei meandri del potere". Un orientamento "strategico e insidioso" esistito "fin dai tempi di Falcone e Borsellino" bollati "come giudici sceriffi, politicizzati e in cerca di notorietà". Da qualche anno, ha concluso Di Matteo, c'è la convinzione che questa potrebbe essere la stagione giusta per chiudere il capitolo a loro favore" e in questo "la vicenda di Contrada è emblematica".
Ingroia: ''Procura di Roma archivierà le indagini sull’omicidio Manca''
di AMDuemila
ingroia“La procura di Roma ha deciso di archiviare le indagini sull’omicidio dell’urologo Attilio Manca ma noi faremo opposizione perché abbiamo le prove che ci fu la compiacenza dell’apparato istituzionale mafioso”. A dichiararlo è Antonio Ingroia, difensore assieme a Fabio Repici della famiglia Manca, all’incontro “In che Stato è la mafia?”, in corso alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo in memoria dei 25 anni dalla strage in cui morirono Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta. “Non possiamo permettere di mettere pietre fondali su casi come questi perché sappiamo che c’è stato l’interesse di coprire Provenzano che fu per anni il garante della trattativa Stato mafia”.
Di Matteo: riaprire indagini su mandanti esterni alle stragi
A 25 anni dalla bomba in via d'Amelio
di AMDuemila
di matteo"Bisognerebbe riaprire l'indagine dei mandanti esterni delle stragi". Così ha detto Nino Di Matteo, pm del processo trattativa Stato-mafia, all’incontro organizzato da ANTIMAFIADuemila in collaborazione con Contrariamente e il Movimento delle Agende rosse, elencando alcuni degli episodi dai quali emerge la presenza di soggetti esterni a Cosa nostra dietro le stragi.
"Non sono d'accordo - ha quindi spiegato il magistrato, recentemente alla Direzione nazionale antimafia - con chi sostiene che non si sappia nulla della strage di via d'Amelio" a fronte di "una ventina di condanne per strage" che "in Italia non è un risultato da poco". Ma allo stesso tempo, ha ammonito Di Matteo, "chi conosce quegli atti sa che quelle sentenze devono, o dovrebbero, costituire un punto di partenza per rilanciare le sempre più evidenti responsabilità di ambienti e uomini estranei a Cosa nostra". E invece di "moltiplicare le risorse e l'impegno per proseguire le idnagini sulle stragi" ha aggiunto Di Matteo, di fronte alle intercettazioni in carcere del boss Giuseppe Graviano "c'è stata una minimizzazione pregiudiziale".
"Per non tradire e calpestare la memoria di Borsellino - ha detto ancora Di Matteo - abbiamo davanti una sola strada, dura e tortuosa" ossia "pretendere il massimo sforzo da parte delle inchieste", in particolare "dalla Procura nazionale antimafia e dalle Direzioni distrettuali di Caltanissetta, Firenze e Palermo" ma anche "pretendere e valutare l'opportunità di un'inchiesta politica da parte della Commissione parlamentare antimafia" e "la massima attenzione dell'opinione pubblica". Senza dimenticare, ha concluso, l'esigenza di "lottare per evitare che continui la gerarchizzazione e la burocratizzazione delle nomine e delle cariche" nella magistratura.
Lodato: ''25 anni dopo le stragi dobbiamo continuare a lottare per la verità''
di AMDuemila
lodato“Oggi siamo molti nell’atrio di Giurisprudenza, ma cosa ci siamo venuti a fare?” si è chiesto lo scrittore Saverio Lodato intervenendo all’incontro organizzato da ANTIMAFIADuemila, in collaborazione a Contrariamente e Agende rosse, a 25 anni dalla strage di via d’Amelio. In questi “anni hanno cercato di convincerci che le stragi potevano essere considerate parentesi di sangue che si dovevano chiudere, raccontandoci la storiella che fu solo la mafia ad uccidere questi uomini, nessun’altra responsabilità, né all’interno dello Stato, né degli apparati deviati”. “Ci hanno detto che tutto quello che si cerca e non si trova non esiste”, è il caso ad esempio del “diario di Carlo Alberto dalla Chiesa, l’agenda rossa di Borsellino”, ecco allora “che non vorrei che adesso ci venissero a dire che abbiamo cercato Matteo Messina Denaro - ha detto ironicamente Lodato - ma poiché non lo abbiamo trovato allora il più famoso latitante di Castelvetrano non esiste!”. Per questo motivo, ha detto lo scrittore, “oggi siamo qui per dire che noi non cambiamo idea nemmeno dopo 25 anni!” perché “vedemmo Falcone e Borsellino andare incontro alla morte per non cambiare idea nonostante avrebbero potuto tranquillamente farlo poiché nessuno li incoraggiava a indagare in quella malaria di rapporti che da 150 anni vede assieme pezzi delle istituzioni, della mafia, e della politica”.
“Non cambiare idea può sembrare stancante e faticoso ma serve!” ha sottolineato Lodato portando come esempio il caso del magistrato Nino Di Matteo che ha “vissuto per anni in assoluto isolamento mentre la grande stampa ignoravano le minacce contro di lui” e che ha visto per due volte “il Csm non riconoscergli il posto alla procura nazionale che gli spettava di diritto e merito”. Il magistrato Nino Di Matteo non ha cambiato idea quando il Csm gli ha proposto la procura nazionale antimafia per proteggerlo dalle minacce “a costo però di lasciare il processo trattativa Stato mafia” e “siccome lui ha resistito, alla fine è riuscito ad andare alla procura nazionale potendo continuare a seguire il processo”.
Di silenzi della grande stampa il caso del magistrato palermitano non è il solo, anzi, Lodato ha fatto un lungo elenco: dal caso dell’omicidio dell’urologo Attilio Manca che probabilmente diventò uno scomodo testimone per aver curato Provenzano e per il quale “l’intera famiglia gira l’Italia chiedendo che si faccia chiarezza su quella morte non archiviando l’inchiesta!”. Al caso recente dell’imprenditore Angelo Niceta che “ha dovuto fare uno sciopero della fame per ottenere lo status di testimone di giustizia e non di collaboratore perché mafioso non lo è mai stato e della mafia non doveva pentirsi”. Nella sua analisi, lo scrittore esperto di mafia, non ha risparmiato il cambio di rotta e idea dei mezzi di informazione, un tempo “pronti a dare spazio in prima pagina alle dichiarazioni di Spatuzza su Graviano che diceva ‘noi con Forza Italia abbiamo l’Italia in mano’, ed oggi, difronte alle intercettazioni in carcere in cui Giuseppe Graviano approfondisce l’argomento, sono disposti invece a dire che forse il boss sapeva di essere intercettato”.
“C’è una manovalanza mafiosa sul territorio che ancora non si è piegata - ha detto per concludere Lodato - e sappiamo che sono in circolazione i 200 kg di tritolo destinati all’esplosione per Nino Di Matteo, ecco perché noi non possiamo cambiare idea dal momento che c’è ancora troppo da fare”. E l’invito a resistere è stato rivolto ai giovani presenti: “Credo che i giovani oggi hanno l’impegno di salvare la memoria di quella grande stagione antimafia ed evitare che tutto vada affondo, evitare che ci chiedano di cambiare idea finchè non troveremo delle altre idee che ci convincono”.
Donadio: “Per verità su via d’Amelio strade ancora da percorrere”
di AMDuemila
donadio2“La strage di via d’Amelio è stata un pezzo della nostra vita che sarà sempre indimenticabile. Ci sono elementi che sono emersi e che possono ancora essere sviluppati. Nel luogo della strage vennero trovati dei frammenti di plastica di un telecomando particolare. Gli investigatori riuscirono ad arrivare alla società che aveva prodotto quel telecomando, la Telcoma, che produceva sistemi di innesco radiocomandati che funzionavano anche otre 30 km distanza, e che era in grado di sfuggire ad ogni tipo interferenza”. A ricordarlo è Gianfranco Donadio, ex magistrato alla Procura nazionale antimafia ed oggi consulente della Commissione Moro, intervenuto alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, dove è in corso l'incontro “In che Stato è la mafia?" in memoria del 25° anniversario della strage di Via D’Amelio. “Cosa nostra - ha proseguito Donadio - è stata rifornita da qualcuno di questi telecomandi. Si risalì durante le indagini anche ai luoghi in cui gli stessi vennero commercializzati e qualcuno era stato venduto persino in Sicilia da un’impresa in provincia di Catania. Questa ha prodotto una fattura di acquisto del novembre di quell’anno e così, con questa semplice bolla ci accompagnamento, hanno dimostrato che loro non avevano nulla a che fare con la strage di via d’Amelio e sono anche stati sentiti al Borsellino bis. Ma c’è un altro aspetto. C’è un pentito, Gioacchino La Barbera che ha raccontato come Brusca gli chiese di incontrarsi a Catania, presso un’area industriale, con due personaggi scesi da un fuoristrada luccicante Nissan Nero per ritrarre un pacco in epoca anteriore alla strage di via d’Amelio. Questi temi, fino ad ora, sono stati poco approfonditi”.
Donadio: ''Vicenda Moro prototipo trattativa Stato-universo eversivo''
“Non possiamo accontentarci di verità dicibili, servono verità vere”
di AMDuemila
donadio“Nella rilettura di alcuni passaggi fondamentali ho notato che i 55 giorni della vicenda Moro assomigliano molto ai 57 che separano le stragi di Capaci e di via d’Amelio. Ho trovato tante verità dicibili ma poche verità vere a cominciare da quel prototipo di trattativa scritto nel memoriale Morucci-Faran che fissa un punto di equilibrio tra l’universo eversivo, che dice quel che può dire, e lo Stato che si fa ride solo ciò che può essere detto”. A dirlo è Gianfranco Donadio, al convegno "In che Stato è la mafia?” in ricordo del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina. “Un meccanismo di patto di omertà che sembra riproporsi in tante pagine successive del nostro Paese - ha proseguito - meccanismo che sembra poter dare una spiegazione a Capaci, che diventa un grande evento dinamitardo, mentre Cosa nostra avrebbe potuto risolvere il problema Falcone risolvendolo con una normale omicidio di mafia. E poi ancora dare una spiegazione alla sparizione delle carte di dalla Chiesa, delle carte di Nino Agostino”. “C’è la necessità di consegnare alla storia la verità - ha continuato l’ex pm della Dna - e ci deve essere questo impegno da parte di tutti, dei colleghi magistrati, ma anche dei cittadini che devono continuare a chiedere che certe verità vengano date. Fatti come quelli riguardanti la vicenda Moro che emergono solo oggi, improvvisamente. Come cittadini non potevo immaginare che attorno alle 8.30, nonostante l’allarme della Questura del rapimento giunge solo alle 9.02, già alcuni funzionari stavano già correndo fra le strade della capitale, per giungere a tutta velocità nella zona Trionfale, dove si trovano la casa di Aldo Moro e via Fani”.
Lombardo: 'Ndrangheta e ''invisibili'', oggi pezzi ricostruiti
Durante la conferenza presso la Facoltà di Giurisprudenza
di AMDuemila
lombardo"Lo scorso 15 luglio abbiamo ottenuto importantissimi risultati per dire, finalimente, che oltre alla 'Ndrangheta che conoscevamo ce n'era un'altra che si era nascosta, il livello di vertice" o la cosiddetta "componente riservata". A dirlo è stato Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, al convegno "In che Stato è la mafia?” organizzato alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo in ricordo del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, uccisi 25 anni fa in via d'Amelio.
"Ho sentito con le mie orecchie il rumore delle bombe del '93 a Roma - ha poi ricordato Lombardo - e ancora lo percepisco". Quindi sugli attentati avvenuti in Calabria ai danni dei carabinieri negli anni '93 e '94 ha dichiarato: "Una mia ricostruzione l'ho fatta, ma dovrà darsi atto nelle sedi competenti. Alcuni passaggi non sono stati facili". "Per arrivare a risposte diverse - ha aggiunto - è stato necessario rimettere in discussione anche quello che era risultato in processi importanti" ma "per fortuna abbiamo trovato coloro che ci davano le risposte".
"Per arrivare a dire che la 'Ndrangheta avesse una componente riservata ci sono voluti 7 anni di ricerche", ha raccontato ancora il magistrato, e oggi "provo un forte disagio" in quanto "in questa sede posso assumermi un impegno corale, ma devono seguire risultati. E vi prego di essere estremamente duri con chi, questi risultati, non li porta avanti". Ma, ha precisato, "le premesse per arrivare a determinate risposte le abbiamo poste" e "quei pezzi li abbiamo ricostruiti". "Non basta una verità parziale" ha concluso, rimarcando che "la dignità del magistrato è quella di colui che non si accontenta" anche a costo di "sacrifici personali".
Bongiovanni: ''In italia sistema criminale eversivo e magistrati diventati ostacolo''
di AMDuemila
bongiovanni“C’è un sistema criminale eversivo in Italia formato non solo dai cosiddetti uomini d’onore ma anche da Invisibili e potenti che sono all’interno delle nostre Istituzioni. Per questo motivo, per cercare la verità su certi fatti ci sono magistrati che sono diventati ostacolo che rischiano la vita in quanto condannati a morte. E il nostro impegno di cittadini è quello di essere a loro fianco”. Con queste parole Giorgio Bongiovanni, direttore di ANTIMAFIADuemila, è intervenuto all’incontro “In che Stato è la mafia”, organizzato in collaborazione a Contrariamente e Agende Rosse, a 25 anni dalla strage di via d’Amelio. Bongiovanni ha ricordato anche quanto scritto nella richiesta di archiviazione nell’indagine “Sistemi criminali” in cui viene evidenziato come la realizzazione delle stragi del ‘92 e del ‘93 era stata “delegata a Cosa Nostra dal vertice di quello che è stato definito il ‘Sistema Criminale Nazionale’, un sistema composito del quale fanno parte, in una comune convergenza di interessi, la massoneria, i servizi deviati e Cosa Nostra, quest’ultima in posizione egemonica sulle altre organizzazioni mafiose (‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita), pure integrate nel sistema”. I magistrati, in quel documento, evidenziavano inoltre che le stragi avevano costituito “momenti di attuazione di un complesso piano eversivo, elaborato nel 1991, diretto a conquistare lo Stato mediante la destabilizzazione del preesistente quadro politico”

martedì 18 luglio 2017

Povera Italia. A che punto è la notte

Ogni giorno una nuova gittata di dati – una nuova slide tombale – viene emessa dalle torri del sapere ufficiale a coprire la precedente, con un effetto (voluto?) d’irrealtà del reale.
Giovedì l’Istat, nella sua nota annuale sulla Povertà, ci dice che le cose vanno male, stabilmente male, e forse peggioreranno.
Venerdì la Banca d’Italia, nel suo bollettino trimestrale, ci dice che (al netto del record del debito) le cose vanno abbastanza bene, e probabilmente miglioreranno…
Viene in mente Isaia (21,11) e la domanda che sale da Seir: «Sentinella, a che punto è la notte?», a cui dalla torre si risponde: «Vien la mattina, poi anche la notte».
Per la verità la situazione della povertà è persino più grave di quanto a prima vista potrebbe sembrare. Nei commenti a caldo ci si è infatti soffermati soprattutto sui dati generali: i 4.742.000 poveri «assoluti» e gli 8.465.000 poveri «relativi», grandezze di per sé impressionanti, ma definite nella Nota arrivata dall’Istat «stabili», essendo entrambi aumentati rispetto all’anno 2015 «solamente» di 150.000 unità.
Se però si spacchettano i due insiemi aggregati si scopre che il peggioramento è stato ben più consistente, addirittura catastrofico, per almeno tre categorie cruciali: i minori, gli operai, e i membri di «famiglie miste».
Tra le «famiglie con tre o più figli minori», ad esempio, la povertà assoluta è cresciuta in un anno di quasi dieci punti.
Schizzando al 26,8%. Nel Mezzogiorno la povertà relativa in questa categoria sfiora addirittura il 60%.
Tra gli «Operai e assimilati», poi, i poveri assoluti raggiungono il livello del 12,6% (un punto percentuale più del 2015, una crescita del 9% in un anno!) e le famiglie con breadwinner operaio in condizione di povertà relativa sfiorano il 20% (una su cinque). Sono i working poors: coloro che sono poveri pur lavorando – pur avendo un «posto di lavoro» -, ed è bene ricordare che si definisce «in povertà assoluta» chi non può permettersi il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa, alimentarsi, vestirsi, curarsi, mentre in «povertà relativa» è chi ha una spesa mensile pro capite inferiore alla metà di quella media del Paese. Una parte consistente del mondo del lavoro italiano è in una di queste due condizioni.
Infine le «famiglie miste», quelle in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel loro caso la povertà assoluta è quasi raddoppiata nell’Italia settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) e quella relativa ha raggiunto nel Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), con buona pace di chi ha fatto dell’urlo tribale «Perché a loro e non a NOI» la propria bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propria miseria.
Se poi si considera il quadro nell’ultimo decennio, la storia assume i tratti del racconto gotico. Non solo il numero delle famiglie e degli individui in condizione di povertà assoluta risulta raddoppiato rispetto al 2007, ma per alcune figure la dilatazione è stata addirittura esplosiva: così per i minori, tra i quali i «poveri assoluti» sono quadruplicati (l’incidenza passa dal 3% al 12,5%).
Stessa dinamica per gli «operai e assimilati», tra i quali la diffusione della povertà assoluta, drammatica nel quinquennio 2007-2012, era rallentata fino al 2014, e poi è ritornata prepotente nel biennio successivo (3 punti percentuali in più!) dove si può leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sul potere d’acquisto e sulla stabilità del lavoro.
In questa luce l’inno alla gioia intonato da politica e media per le notizie da Bankitalia potrebbe sembrare una beffa (un «insulto alla miseria» registrata invece dall’Istat), se non contenesse però un tratto di realtà.
E cioè che economia e società hanno imboccato strade diverse, e per molti versi opposte. Che i miglioramenti dell’una (o l’attenuazione della crisi sul versante economico) non significano affatto un simmetrico rimbalzo per l’altra (una risalita sul versante della condizione sociale).
Anzi. I ritocchini al rialzo delle previsioni sul Pil (+1,4 nel ’17, + 1,3 nel ’18, + 1,2 nel ’19) sono in effetti perfettamente compatibili col parallelo degrado dei tassi di povertà e delle condizioni di vita delle famiglie.
Convivono nell’ambito di un paradigma, come quello vigente, nel quale la crescita redistribuisce la ricchezza dal basso verso l’alto, dal lavoro all’impresa (e soprattutto alla finanza), dai many ai few (all’1% che possiede il 20% di tutto). E in cui il Pil, appunto, s’arricchisce (in termini economici) impoverendo (in termini sociali).
Forse nel 2019 (forse!) ritorneremo ai livelli pre-crisi del «valore aggiunto» monetario, ma saremo un po’ di più vicini al Medioevo nell’equità sociale.
Finché non si spezzerà questo circolo vizioso, la sentinella dalla torre non potrà annunciare la definitiva fine della notte.

lunedì 17 luglio 2017

14 milioni di poveri: il grande “successo” di euro, Unione Europea e governi

Pochi anni fa Mario Monti definiva la Grecia il più grande successo dell’Euro. Ora anche il nostro paese raggiunge quei vertici di vittoria, con il dilagare della povertà in dimensioni mai viste, se non subito dopo la guerra.
A spiegare i 14 milioni di poveri servono, ma non bastano, i 7 milioni di disoccupati. Infatti milioni di lavoratori precari e supersfruttati non riescono, pur lavorando, a raggiungere un reddito dignitoso. Pochi giorni fa Renzi, intraprendendo la sua battaglia mediatica contro il fiscal compact, ha detto che tre anni fa l’italia ha vinto con la UE. Immaginiamo se avessimo perso!
La realtà è che le politiche di austerità e distruzione dei diritti sociali della Unione Europea, di cui l’euro è lo strumento fondamentale, hanno davvero vinto. La miseria e la disoccupazione diffusa permettono di pagare il lavoro sempre meno e di guadagnare sempre di più a grandi imprese, finanza, super ricchi. Se poi i governi colpiscono il lavoro con Jobsact e misure simili, tutto diventa ancora più facile per chi ha il capitale. E infatti in Italia poco più dell’1% della popolazione oggi detiene quasi un quarto di tutte le ricchezze del paese.
Sempre più ricchezza va a sempre meno persone e si trasferisce dai paesi impoveriti a quelli più ricchi. In questi giorni le banche tedesche festeggiano 1,34 miliardi di profitti extra incassati con la usura esercitata sulla Grecia. Il cui governo ora, per allentare il cappio che lo strangola, offre agli strozzini leggi contro il diritto di sciopero. Il crumiro Tsipras è in perfetta sintonia con Renzi, che per avere qualche soldo in più da spendere in campagna elettorale, sventola anch’egli la bandiera della legge antisciopero.
La Grecia ha svenduto tutti i suoi beni agli usurai internazionali e lo stesso ci apprestiamo a fare noi con la nuova, conclusiva, campagna di privatizzazioni in arrivo. Della quale i miliardi regalati per salvare le banche sono solo un costosissimo anticipo.
Tutti errori? No ha ragione Monti, questi sono i veri successi di un sistema di potere europeo concepito già con il trattato di Maastricht del 1992. Un sistema di potere che si è dato il compito di distruggere le due principali conquiste del continente, i diritti del lavoro e lo stato sociale, per creare nuove opportunità per il mercato e per i grandi profitti. I poveri aumentano per far star meglio i ricchi, questa la brutale realtà.
Che il palazzo, con la complicità di razzisti e fascisti, riesce a nascondere perfettamente facendo credere ai poveri che essi siano tali per colpa degli ancora più poveri. Così al posto dell’emergenza povertà in Italia tutta la politica in Italia si concentra sull’emergenza migranti, e i profitti crescono indisturbati, anzi riveriti.
Quindi, signori che finora avete governato in Italia ed in Europa e che, quale che fosse la vostra appartenenza politica, avete tutti fatto le stesse cose, signori niente lacrime di coccodrillo, festeggiate. Il dilagare della povertà è il vostro più grande successo e i ricchi vi ringraziano.

giovedì 13 luglio 2017

I 5 milioni di poveri assoluti italiani, un altro "grande successo dell'euro".

Pochi anni fa Mario Monti definiva la Grecia il più grande successo dell'Euro. Ora anche il nostro paese raggiunge quei vertici di vertici di vittoria, con il dilagare della povertà in dimensioni mai viste, se non subito dopo la guerra.
A spiegare i 14 milioni di poveri servono, ma non bastano, i 7 milioni di disoccupati. Infatti milioni di lavoratori precari e supersfruttati non riescono, pur lavorando, a raggiungere un reddito dignitoso. Pochi giorni fa Renzi, intraprendendo la sua battaglia mediatica contro il fiscal compact, ha detto che tre anni fa l'italia ha vinto con la UE. Immaginiamo se avessimo perso! La realtà è che le politiche di austerità e distruzione dei diritti sociali della Unione Europea, di cui l'euro è lo strumento fondamentale, hanno davvero vinto. La miseria e la disoccupazione diffusa permettono di pagare il lavoro sempre meno e di guadagnare sempre di più a grandi imprese, finanza, super ricchi. Se poi i governi colpiscono il lavoro con Jobsact e misure simili, tutto diventa ancora più facile per chi ha il capitale.
E infatti in Italia poco più dell'1% della popolazione oggi detiene quasi un quarto di tutte le ricchezze del paese.
Sempre più ricchezza va a sempre meno persone e si trasferisce dai paesi impoveriti a quelli più ricchi. In questi giorni le banche tedesche festeggiano 1,34 miliardi di profitti extra incassati con la usura esercitata sulla Grecia. Il cui governo ora, per allentare il cappio che lo strangola, offre agli strozzini leggi contro il diritto di sciopero.
Il crumiro Tsipras è in perfetta sintonia con Renzi, che per avere qualche soldo in più da spendere in campagna elettorale, sventola anch'egli la bandiera della legge antisciopero.
La Grecia ha svenduto tutti i suoi beni agli usurai internazionali e lo stesso ci apprestiamo a fare noi con la nuova, conclusiva, campagna di privatizzazioni in arrivo. Della quale i miliardi regalati per salvare le banche sono solo un costosissimo anticipo.
Tutti errori? No ha ragione Monti, questi sono i veri successi di un sistema di potere europeo concepito già con il trattato di Maastricht del 1992. Un sistema di potere che si è dato il compito di distruggere le due principali conquiste del continente, i diritti del lavoro e lo stato sociale, per creare nuove opportunità per il mercato e per i grandi profitti. I poveri aumentano per far star meglio i ricchi, questa la brutale realtà. Che il palazzo, con la complicità di razzisti e fascisti, riesce a nascondere perfettamente facendo credere ai poveri che essi siano tali per colpa degli ancora più poveri. Così al posto dell' emergenza povertà in Italia tutta la politica in Italia si concentra sull'emergenza migranti, e i profitti crescono indisturbati, anzi riveriti.
Quindi, signori che finora avete governato in Italia ed in Europa e che, quale che fosse la vostra appartenenza politica, avete tutti fatto le stesse cose, signori niente lacrime di coccodrillo, festeggiate. Il dilagare della povertà è il vostro più grande successo e i ricchi vi ringraziano.

mercoledì 12 luglio 2017

Istat: 700mila casalinghe in povertà assoluta

Poco più della metà delle casalinghe non ha mai svolto attività lavorativa retribuita nel corso della vita. A rilevarlo è l'Istat che oggi ha diffuso i dati sulle casalinghe in Italia. Il motivo principale per cui le casalinghe di 15-34 anni non cercano un lavoro retribuito, spiega l'Istituto, è familiare nel 73% dei casi, 600mila casalinghe sono scoraggiate e pensano di non poter trovare un lavoro.
La condizione economica delle casalinghe, segnala l'Istat, non è buona. Nel 2015 sono più di 700mila le casalinghe in povertà assoluta, il 9,3% del totale.
Nel 2014 sono state effettuate in Italia 71 miliardi e 353 milioni di ore di lavoro non retribuito per attività domestiche, cura di bambini, adulti e anziani della famiglia, volontariato, aiuti informali tra famiglie e spostamenti legati allo svolgimento di tali attività. Mentre 41 miliardi e 794 milioni di ore sono le ore di lavoro retribuito stimate nei Conti Nazionali.
Nel 2016 erano 7milioni 338mila le donne che si dichiarano casalinghe nel nostro Paese, 518mila in meno rispetto a 10 anni fa e la loro età media è 60 anni.
Le anziane di 65 anni e più superano i 3 milioni e rappresentano il 40,9% del totale, quelle fino a 34 anni sono l’8,5%, rileva l'Istituto evidenziando che le casalinghe vivono prevalentemente nel Centro-Sud (63,8%). Il 74,5% delle casalinghe possiede al massimo la licenza di scuola media inferiore. Nel 2012 solo l’8,8% ha frequentato corsi di formazione, quota che sale di poco tra le giovani di 18-34 anni (12,9%).
Il 42,1% delle casalinghe vive in una coppia con figli, un quarto in coppia senza figli e il 19,8% da sola. 560mila casalinghe sono di cittadinanza straniera.
L'Istat rileva inoltre che le casalinghe italiane lavorano più degli occupati con una media di quasi 49 ore a settimana. Il numero medio di ore di lavoro non retribuito svolte in un anno dalle casalinghe è pari a 2.539, sono 1.507 per le occupate e 826 per gli uomini (considerando sia quelli occupati, sia quelli non occupati).

martedì 11 luglio 2017

Mps, “salvata” la banca, non i dipendenti: tagliati 5500 posti di lavoro

Chiusura di circa 600 filiali e riduzione del personale di 5.500 unità. Sono alcuni degli obiettivi del piano di ristrutturazione di Mps. Il piano prevede il ridisegno del network distributivo, con la riduzione delle filiali (da 2mila nel 2016 a circa 1.400 nel 2021) e delle relative strutture di governo commerciale. Inoltre è previsto un ridimensionamento di tutte le strutture organizzative del gruppo Mps che porterà ad una riduzione di circa 5.500 unità entro il 2021 (di cui 4.800 uscite attraverso l’attivazione del Fondo di Solidarietà, 450 uscite legate alla cessione/chiusura di attività, 750 uscite derivanti da turnover fisiologico e circa 500 nuove assunzioni).
Mps, il piano lacrime e sangue
Il piano di ristrutturazione è «una pietra miliare nel processo di ripristinare un percorso di crescita per la banca e di recupero dei depositi e dei prestiti», ha detto Marco Morelli, amministratore delegato e direttore generale del Monte dei Paschi di Siena, presentando il piano agli analisti. Morelli ha spiegato che «sarà un processo lento e non immediato» e che «è la prima volta che una ricapitalizzazione precauzionale è realizzata e questa è una delle ragioni principali per cui il processo ha richiesto così tanto tempo». «Quello che il management della banca ha vissuto in questi mesi – ha aggiunto – credo che sia senza precedenti. L’esperienza è stata un po’ quella di un pronto soccorso all’ospedale, con un’emergenza ogni cinque minuti. E credo che il management abbia affrontato la situazione in maniera eccellente…». Un’autodifesa che ignora totalmente il destino dei risparmiatori e le vicende che hanno portato allo scandalo Mps. «Quello che la banca ha vissuto non si è mai sentito, in termini di pressione mediatica e commerciale», ha aggiunto come se sul Monte dei Paschi si fosse abbattuto il destino cinico e baro e non una pessima gestione che ha portato sul lastrico l’istituto di credito toscano sopravvissuto solo grazie al salvataggio pubblico. Mps presenterà il prospetto per il ritorno in Borsa alla fine di settembre. «La riammissione in Borsa delle azioni Mps – ha spiegato ancora Morelli – sarà decisa dalla Consob. Ci sarà un prospetto e immagino che Consob valuterà un potenziale relisting e la quotazione delle azioni ordinarie quando il prospetto sarà perfezionato alla fine di settembre».

lunedì 10 luglio 2017

Mps, “salvata” la banca, non i dipendenti: tagliati 5500 posti di lavoro

Chiusura di circa 600 filiali e riduzione del personale di 5.500 unità. Sono alcuni degli obiettivi del piano di ristrutturazione di Mps. Il piano prevede il ridisegno del network distributivo, con la riduzione delle filiali (da 2mila nel 2016 a circa 1.400 nel 2021) e delle relative strutture di governo commerciale. Inoltre è previsto un ridimensionamento di tutte le strutture organizzative del gruppo Mps che porterà ad una riduzione di circa 5.500 unità entro il 2021 (di cui 4.800 uscite attraverso l’attivazione del Fondo di Solidarietà, 450 uscite legate alla cessione/chiusura di attività, 750 uscite derivanti da turnover fisiologico e circa 500 nuove assunzioni).
Mps, il piano lacrime e sangue
Il piano di ristrutturazione è «una pietra miliare nel processo di ripristinare un percorso di crescita per la banca e di recupero dei depositi e dei prestiti», ha detto Marco Morelli, amministratore delegato e direttore generale del Monte dei Paschi di Siena, presentando il piano agli analisti. Morelli ha spiegato che «sarà un processo lento e non immediato» e che «è la prima volta che una ricapitalizzazione precauzionale è realizzata e questa è una delle ragioni principali per cui il processo ha richiesto così tanto tempo». «Quello che il management della banca ha vissuto in questi mesi – ha aggiunto – credo che sia senza precedenti. L’esperienza è stata un po’ quella di un pronto soccorso all’ospedale, con un’emergenza ogni cinque minuti. E credo che il management abbia affrontato la situazione in maniera eccellente…». Un’autodifesa che ignora totalmente il destino dei risparmiatori e le vicende che hanno portato allo scandalo Mps. «Quello che la banca ha vissuto non si è mai sentito, in termini di pressione mediatica e commerciale», ha aggiunto come se sul Monte dei Paschi si fosse abbattuto il destino cinico e baro e non una pessima gestione che ha portato sul lastrico l’istituto di credito toscano sopravvissuto solo grazie al salvataggio pubblico. Mps presenterà il prospetto per il ritorno in Borsa alla fine di settembre. «La riammissione in Borsa delle azioni Mps – ha spiegato ancora Morelli – sarà decisa dalla Consob. Ci sarà un prospetto e immagino che Consob valuterà un potenziale relisting e la quotazione delle azioni ordinarie quando il prospetto sarà perfezionato alla fine di settembre».

venerdì 7 luglio 2017

Ma quale lavoro, in Italia il 35,1% degli adulti è inattivo: né occupato, né disoccupato

Per esplorare un aspetto più che rilevante dell’ingessatura che blocca lo sviluppo italiano (ed europeo) è utile dare un’occhiata ai dati appena prodotti da Eurostat, incentrati sulle persone economicamente inattive presenti all’interno dell’Ue. In tutta Europa sono 89 milioni le persone nella fascia d’età 15-64 anni che risultano inattive, ovvero fuori dal mercato del lavoro. Né occupati, né disoccupati: il 27,1% della popolazione in età da lavoro.
Uno spettro che si fa assai variegato a seconda dello Stato preso a riferimento. Nessuno fa peggio dell’Italia, con il 35,1% dei 15-64enni classificata come inattivo. Dietro di noi seguono Croazia e Romania (entrambi al 34,4%), il Belgio (32,4%) e la Grecia (31,8%). All’estremità opposta troviamo Svezia (17,9%), Danimarca (20%) e Paesi Bassi (20,3%). Ovunque la presenza di inattivi è più marcata tra le donne rispetto agli uomini, ed è più probabile che ad essere inattivo sia una persona con un basso livello di istruzione: il 47% dei 15-64enni con al massimo un diploma di scuola media risulta inattivo nel 2016, una quota che diminuisce al 24% per coloro che hanno un diploma, e il 12% per quanti hanno una laurea.
È necessario comunque considerare che un inattivo europeo è nel 35% dei casi impegnato in un percorso di istruzione e formazione, nel 16% pensionato, in un altro 16% affetto da malattia grave e/o disabilità, e in un altro 10% dei casi si tratta di persone si prendono cura di bambini o adulti incapaci. L’Italia, con una delle popolazioni più anziane al mondo e la fetta più grande dei Neet (giovani non impegnati in un percorso lavorativo o di formazione) in tutta Europa, campeggia così come la patria degli inattivi europei.
Per esplorare un aspetto più che rilevante dell’ingessatura che blocca lo sviluppo italiano (ed europeo) è utile dare un’occhiata ai dati appena prodotti da Eurostat, incentrati sulle persone economicamente inattive presenti all’interno dell’Ue. In tutta Europa sono 89 milioni le persone nella fascia d’età 15-64 anni che risultano inattive, ovvero fuori dal mercato del lavoro. Né occupati, né disoccupati: il 27,1% della popolazione in età da lavoro. Uno spettro che si fa assai variegato a seconda dello Stato preso a riferimento. Nessuno fa peggio dell’Italia, con il 35,1% dei 15-64enni classificata come inattivo. Dietro di noi seguono Croazia e Romania (entrambi al 34,4%), il Belgio (32,4%) e la Grecia (31,8%). All’estremità opposta troviamo Svezia (17,9%), Danimarca (20%) e Paesi Bassi (20,3%). Ovunque la presenza di inattivi è più marcata tra le donne rispetto agli uomini, ed è più probabile che ad essere inattivo sia una persona con un basso livello di istruzione: il 47% dei 15-64enni con al massimo un diploma di scuola media risulta inattivo nel 2016, una quota che diminuisce al 24% per coloro che hanno un diploma, e il 12% per quanti hanno una laurea. È necessario comunque considerare che un inattivo europeo è nel 35% dei casi impegnato in un percorso di istruzione e formazione, nel 16% pensionato, in un altro 16% affetto da malattia grave e/o disabilità, e in un altro 10% dei casi si tratta di persone si prendono cura di bambini o adulti incapaci. L’Italia, con una delle popolazioni più anziane al mondo e la fetta più grande dei Neet (giovani non impegnati in un percorso lavorativo o di formazione) in tutta Europa, campeggia così come la patria degli inattivi europei.

giovedì 6 luglio 2017

E’ ora di riscoprire la geografia elettorale

Parigi non è la Francia. Per ricordarlo agli intellò della capitale ci è voluto un intervento di Michel Houellebecq su France 2 durante la regina delle puntate televisive condotta da Pierre Pujadas e Léa Salamé. In prima serata, pochi giorni prima del ballottaggio per la corsa all’Eliseo, l’autore di Sottomissione ammise di sentirsi uno straniero in patria. «Non potrei più scrivere – disse – un libro su questa Francia. Io non credo al voto ideologico ma a quello di classe. E che io lo voglia o meno appartengo alla Francia che vota Macron, sono troppo ricco per votare Le Pen e Mélenchon, ormai faccio parte dell’élite globalizzata. Eppure provengo anch’io da quella Francia. Ma quella Francia non abita nel mio quartiere, non abita nemmeno a Parigi. A Parigi Le Pen non esiste». Profetico, ancora una volta. Qualche giorno dopo la capitale avrebbe attribuito al candidato di En Marche! il 90 per cento dei voti.
Houellebecq ha letto Christophe Guilluy, il geografo divenuto popolare Oltralpe per aver dimostrato, statistiche alla mano, la «grande frattura» culturale e socio-economica che esiste tra il mondo metropolitano e quello delle periferie (che non sono le banlieue). Così l’autore di La France périphérique e Le crépuscule de la France d’en haut è diventato il nemico pubblico delle élite urbanizzate e l’icona intellettuale degli «sdentati» di François Hollande, quel popolo emarginato che alle ultime elezioni, in massa, ha barrato il simbolo Front National o non si è nemmeno recato alle urne. Se il primo dei saggi di Guilluy è un lavoro minuzioso che spiega l’ascesa del voto anti-establishment nella provincia francese, il secondo è invece un vero e proprio j’accuse contro i «bobos», i bourgeois-bohème di Parigi, incapaci di vedere le condizioni di quello che Charles Maurras chiamava il «Paese reale». I suoi studi sulla geografia socio-elettorale hanno scalato tutte le classifiche, eppure non sono mancati i detrattori che hanno inventato l’accusa di «urbanofobia». Il peccato originale di Christophe Guilluy, accusato dagli intellò di aver scritto «libri a vantaggio di Marine Le Pen», è quello di aver smascherato una minoranza cool e open mind che ha imposto ai ceti popolari una società multiculturale, terziarizzata e precaria senza viverne direttamente le conseguenze.
Si legge che negli ultimi anni la questione sociale è stata ridotta alle banlieue urbane abbandonando integralmente le aree periferiche dove vive il petit peuple di Francia. Nei quartieri popolari delle grandi città – spiega Guilluy – abitano prevalentemente figli di immigrati, borghesi in potenza, gli unici che fanno mobilità sociale per legge dei grandi numeri con annesso sistema delle quotas (leggi anti-discriminazione) e per motivi di vicinanza geografica ai milieu che contano. Quello che molti scienziati della politica chiamano multiculturalismo non è altro che un processo di ghettizzazione di classe in cui gli immigrati svolgono le professioni meno qualificate al servizio del ceto benestante protetto da una città inaccessibile sul piano economico e immobiliare. Esisterebbe dunque un patto di non belligeranza tra le élite urbanizzate benpensanti e una mano d’opera a basso costo, naturalizzata francese, che ha sacrificato i piccoli centri dell’Esagono, veri sconfitti della globalizzazione. Così le accuse di «fascismo» e «razzismo» sono diventate per Guilluy «armi al servizio della nuova borghesia intellettuale per mascherare la sofferenze delle persone comuni e difendere i propri privilegi»

mercoledì 5 luglio 2017

La Ue smonta il mini-ricatto italiano sui migranti

L’Unione Europea se ne fotte dei migranti, e il governo Gentiloni non ha il peso specifico necessario a imporre il sognato scambio tra più restrizioni all’ingresso e maggiore redistribuzione tra i vari paesi europei.
Il certice di Tallin si è concluso con uno schiaffo in faccia al governo italiano e l’apertura di una mini-crisi tra i maggiori responsabili del falimento. Per capirci: l’Austria ha messo i mezzi corazzati al valico del Brennero, con l’esplicita motivazione della sfiducia nella capacità (o nella volontà) dell’Italia di trattenere sul proprio territorio che sbarca qui dai barconi. Il “liberale ed europeista” Emmanuel Macron ribadisce un fermissimo “no” arrivo di quelli che vengono chiamati “migranti economici”, minacciando la chiusura dei porti francesi alle navi che li hanno salavati in mare. Stessa posizione per la Spagna, paese di confine forse più dell’Italia, ma che da tempo ha scelto di alzare muri di sbarramento ai confini delle sue enclave in territorio marocchino /Ceuta e Melilla).
In pratica, l’Unione Europea ha raggiunto l’agognato accordo su un solo tema: fermare gli sbarchi. A questo scopo, come al solito, si prevede di implementare gli accordi già esistenti con la Libia di Al Serraj (che controlla una porzione ridicola delle coste), magari cercando di estenderli a tribù dell’interno. L’idea è impedire la partenza dei barconi e fermare i flussi già nel deserto del Sahara, lontani dalle telecamere.
L’altro punto fermo è l’ostacolo all’attività delle navi delle cosiddette Ong (un insieme molto variegato, che va dalle multinazionali della “solidarietà” a piccoli gruppi sicuramente degni di rispetto. DI fatto, si impedirà a queste navi di effettuare soccorsi di propria iniziativa, obbligandole a sottostare agli ordini di Frontex o della Guardia costiera italiana. Non potranno entrare nelle acque territoriali libiche, non potranno spegnere il transponder (una sorta di gps che ne permette l’individuazione), dovranno ufficializzare anche più precisamente finanziatori, bilanci e mebri degli equipaggi. Un’overdose di adempimenti burocratici pensata per rallentare l’attività operativa.
Come ultima misura, resta sempre sullo sfondo la “minaccia” di Gentiloni e Minniti, quella di impedire alle navi di soccorso l’ingresso nei porti italiani (quello che hanno già deciso Francia e Spagna, in pratica) oppure, in casi limite, il sequestro delle stesse navi.
In effetti Salvini è stato scavalcato a destra…
Tutto questo però sembra ancora poco ai paesi dell’Est europeo, assolutamente contrari a qualsiasi distribuzione anche minima di migranti, non importa con quale etichetta (rifugiati, “economici”, richiedenti asilo, ecc).
L’interesse comunitario per la questione è stato del resto mostrato con chiarezza dall’aula semivuota di Strasburgo, quando il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, doveva comunicare al cosiddetto “parlamento” (in realtà privo di potere legislativo) i risultati del semestre di presidenza maltese della Ue e sulla crisi migratoria. Furente per il vuoto assoluto della platea ha giustamente apostrofato come “ridicoli” i presunti europarlamentari. Che avesse pienamente ragione lo si può capire dalla stizzita reazione del carneade Antonio Tajani, arrivato a presiedere l’assemblea in virtù di congiunzioni astrali difficilmente ripetibili.
Alla fine della fiera, comunque, resta il punto politico che spiazza definitivamente l’atteggiamento furbesco del governo italiano, che aveva pensato – “minacciando” la chiusura dei porti – di poter usare i migranti come oggetto di scambio col resto della Ue. Questa Unione “solidale”, ripetiamo, se ne fotte.

martedì 4 luglio 2017

Al funerale di Kohl i becchini di quest’Europa germanizzata

Per l’addio all’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, l’Ue ha organizzato nell’Europarlamento di Strasburgo il primo funerale di Stato. Le élite che governano l’Europa e il mondo non potevano non assumere la sua figura come fondativa del presente, della nuova Europa e della nuova realtà globalizzata. Perché indissolubilmente legata alla caduta del Muro di Berlino. Fu lui nel dicembre 1989, a quasi un mese dal crollo del Muro, che al Bundestag annunciò la possibile riunificazione tra le due Germanie (le «due patrie», l’altra era la Ddr) divise per mezzo secolo con sullo sfondo l’ombra delle responsabilità tedesche nella Seconda guerra mondiale e simbolo della Guerra fredda. Quel «dopo-Muro» fu un’epoca ricca di promesse, per gran parte non mantenute, ma certo inconfrontabile con l’attuale stagione. Il piano della riunificazione e poi la decisione del «cambio uno a uno tra marco dell’est e dell’ovest» presa da Kohl – sempre sostenuto a testa bassa dal suo ministro degli interni che si chiamava Wolfgang Schaeuble – sconvolsero e stupirono il quadro politico internazionale di sinistra e di destra, protagonisti Gorbaciov, Mitterrand e Andreotti, Thatcher, Bush padre e Reagan. E perfino autorità economiche e monetarie a partire dalla stessa Bundesbank.
Fu dalla riunificazione a tappe forzate che alla fine emerse evidente la nuova pesante centralità della Germania. Tornata grande – con il marco al centro del mercato europeo – così tanto da dover accettare, sul tavolo della trattativa con l’Unione Helmut Kohleuropea che appena nasceva, come contrappeso l’avvio dell’integrazione europea e dell’adozione dell’euro. Questa «epoca delle promesse» ieri è stata ricordata non a caso da un personale politico che – senza confronto col nuovo Corbyn – più vintage non si può: c’erano infatti in mezzo a tanti incredibili leader attuali, come l’ex monarchico berlusconiano Tajani, diventato chissà come presidente dell’Europarlamento, Bill Clinton, Romano Prodi e perfino Silvio Berlusconi. Tutti a contendersi le spoglie del «dopo-Muro» che fu. Ma non c’è più il dopo-Muro di una volta. Da quel crollo inziale, precipitò l’Unione sovietica che con Michail Gorbaciov proponeva la «casa comune europea», un’idea straordinaria fatta a pezzi dai leader occidentali che preferirono la sua caduta e l’avvento a Mosca di Boris Eltsin, piuttosto che corrispondere positivamente.
Adesso, al contrario, è tornata la guerra fredda ai confini della Russia-nazione, con l’incendio in Ucraina, nel Donbass, e con gli eserciti atlantici dislocati tutti sulla frontiera russa. Mentre la guerra calda infuria nell’inferno mediorientale e l’Africa torna a vocazione post-coloniale. E soprattutto l’erede di Kohl, Angela Merkel, pur avendo sviluppato le tematiche democristiane della Cdu in chiave socialdemocratico-cristiana, si muove proprio al contrario del grande padre Kohl che l’ha introdotta nel partito e nel potere. Lo ha affermato con durezza il nuovo leader della Spd Martin Schulz, quando all’ultimo congresso straordinario della Spd di pochi giorni fa, ha così accusato l’ex ragazza dell’est «mutti»: «L’idea dell’ex cancelliere Helmuth Il funerale di Kohl a StrasburgoKohl era quella della Germania europea, non dell’Europa germanizzata». Un attacco frontale che fotografa lo stato delle cose. Con una Germania che, dopo la Brexit, si candida apertamente a guidare i destini d’Europa, surrogata dalla Francia di Macron che annuncia nuova grandeur.
Insomma la Grande Germania è tornata, si sceglie i profughi, privilegia le sue banche, decide sanzioni, marginalizza le aree da escludere come la Grecia, guida i rapporti con l’Asia, fa guerre a destra e a manca, ingloba truppe dell’est nella Bundeshweher. Subalterni i restanti 26 paesi europei. Mentre quelli dell’Est, a proposito della Cortina di ferro, diventati appendice di Berlino e della Nato, vanno per proprio conto a destra, cancellando diritti umani e democrazia. Mentre solo in Europa di muri ne sono stati eretti almeno altri dieci. No, non c’è più il dopo-Muro di una volta.

lunedì 3 luglio 2017

Il totalitarismo corporativo e la novità della guerra

“In guerra sono sempre gli stessi a perdere” è una frase detta in una scena del film spagnolo “Soldati di Salamina” e riflette quella che è sempre stata una costante in ogni conflitto bellico che sia avvenuto in qualsiasi luogo del nostro pianeta; cioè perdono coloro che hanno la disgrazia di non avere risorse sufficienti per non essere vittime della violenza e della distruzione scatenate.
Quelli che in epoche passate erano definiti metodi corretti per fare la guerra sono stati sostituiti da altri che, nelle stesse epoche, sarebbero stati condannati da ogni punto di vista etico e morale, dato l’inutile eccesso di crudeltà, di distruzione e di morti di persone di qualsiasi età, osservato ad esempio durante la 2° Guerra Mondiale e, successivamente, nella guerra del Vietnam.
Oggi nessuno si sorprende che, ogni giorno, si commettano eccessi contro intere popolazioni indifese, trasformate in bersaglio e scenario di conflitti bellici, generalmente aizzati dalle potenze occidentali con gli Stati Uniti alla guida, come succede da decenni nella regione del Medio Oriente senza che si veda una soluzione definitiva.
Tutto questo rappresenta una nuova metodologia per la dominazione. Anche se sembra inverosimile.
Non si può ignorare l’utilizzazione di nuovi e migliori ingranaggi di controllo della vita di intere popolazioni, molte volte senza che queste ne siano coscienti.
L’evoluzione dalla politica all’economia politica (basata, soprattutto, sui postulati dell’economia neoliberista) spinge, visto che questo le è necessario, all’omogeneizzazione dei diversi gruppi sociali, al di là delle loro caratteristiche etniche, antropologiche, culturali e/o religiose: il che spiegherebbe, in parte, le espressioni xenofobe e razziste che sono affiorate con forza in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi due decenni, legittimate da una guerra contro il terrorismo che, naturalmente, solo i loro governi sono autorizzati a decretare e combattere.
Si tratta di un processo di disciplinamento che ricorre ad ogni tipo di motivazioni giuridico-legali, religiose, propagandistiche, mediatiche, ideologiche e psicologiche che finiscono per modellare ogni individuo in base alle necessità del nuovo potere corporativo economico-politico. Detto da Michel Foucault, “la disciplina, ovviamente, analizza, scompone gli individui, i luoghi, i tempi, i gesti, le operazioni. Li scompone in elementi che sono sufficienti per percepirli, da un lato, e modificarli dall’altro”. Per questo è essenziale inculcare nelle persone il bisogno compulsivo di ottenere e godere di beni materiali, anche al di sopra della propria dignità, il che spinge all’egoismo e all’abbandono di qualsiasi espressione di umanità e di solidarietà rispetto ai propri simili.
Ben lontano dal preservare e far risaltare la particolarità delle persone (in un ampio e positivo senso), ciò che si pretende è che esse siano e agiscano come massa, ottenendo il loro incanalamento collettivo, in modo che rispondano più docilmente e rassegnatamente ai disegni di coloro che governano.
L’attuale predominio dei dispositivi di sicurezza contribuisce a questo proposito, giustificato dalla paura di trasformarsi in eventuali vittime dei terroristi che, come è stato da tempo dimostrato, sono stimolati, appoggiati, addestrati, finanziati e armati dai governi degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale. Tutto in nome della libertà e della democrazia.
L’enorme crescita demografica verificatasi negli ultimi cento anni e le migrazioni di massa verso gli Stati Uniti ed i paesi dell’Europa hanno fatto sì che politici, economisti e consiglieri alla sicurezza abbiano progettato di aumentare il controllo esercitato tramite genocidi sistematici. Questo renderebbe più facile la desiderata possibilità di influire, dominare e controllare individui e gruppi sociali in tutti i loro aspetti. Così i settori dominanti, gli usufruttuari di questo potere economico-politico globalizzato garantiscono a se stessi la salvaguardia della propria egemonia e della struttura di dominazione che la rende possibile.
Questo, come si può capire, porterebbe il mondo al totalitarismo corporativo, forse non nel modo descritto da George Orwell nel suo “1984”, ma certamente molto vicino ad esso, il che imporre all’umanità intera una stessa identità e una stessa logica.