martedì 30 maggio 2017

Ue vuole rendere obbligatoria adesione all’euro

La Commissione europea starebbe pensando di esercitare pressioni affinché la Danimarca entri nell’euro, moneta verso la quale al momento la corona nazionale è ancorata tramite un peg. È quanto riferisce la Frankfurter Allgemeine Zeitung riportando quanto sarebbe trapelato da una riunione avvenuta la scorsa settimana a Strasburgo.
Non è tutto, nelle intenzioni della Commissione vi sarebbe l’introduzione dell’obbligo ad adottare l’euro per tutti i 27 membri Ue entro il 2025.
Le rivelazioni del giornale tedesco, tuttavia, sono state smentite dal Commissario europeo per l’Euro e il Dialogo Sociale Valdis Dombrovskis, il quale ha affermato che “è stata fatta confusione. Quello che abbiamo discusso per il prossimo documento di riflessione è il completamento dell’unione economica e monetaria. Questo non significa che gli Stati membri dell’Ue debbano adottare l’euro. Non c’è alcuna scadenza di tempo specifica, ma naturalmente abbiamo incoraggiato tutti gli Stati membri a fare i preparativi necessari”.
La smentita è comparsa sulla pagina svedese della Commissione europea, a indicare che la notizia, probabilmente, non era stata vista di buon occhio dal Paese scandinavo, anch’esso ancora dotato di una moneta nazionale.
Fra i progetti in cantiere della Commissione europea, l’organo esecutivo dell’Ue, ci sarebbe anche l’istituzione di un bilancio in euro in grado di incorporare il pagamento di una tassa fissa da parte di tutti gli Stati membri, il cui utilizzo sarebbe redistribuito sotto forma di investimenti in tutta l’Eurozona.

lunedì 29 maggio 2017

La dittatura ‘democratica’ dei potenti

Una realtà molto complessa, resa ancor più confusa dall’informazione trash con cui ci sommergono i media che contano, rende i processi in corso spesso incomprensibili. Si tratta di un tratto caratteristico delle tormente generate dalle crisi sistemiche. La nitidezza dello sguardo sarebbe invece essenziale per chi non ha assicurazioni sulla vita. Quando Marx scrive il Manifesto, il rapporto tra los de abajo e los de arriba era di nove a uno. Non c’erano pensioni per gli anziani e l’università era riservata alle sole élite. Il 90 per cento della gente aveva interesse ad abbattere il sistema. Oggi stiamo forse sfiorando una “dominazione perfetta”, con le società divise in parti quasi uguali, tra chi ha bisogno di far saltare il banco e chi teme ogni possibile cambiamento. Al di sopra di esse, sta l’uno per cento della popolazione che controlla il potere dello Stato, gli altri poteri e delle democrazie elettorali che hanno senso per la metà de arriba ma sono una prigione per los de abajo. Essi non possono aver fiducia in un sistema politico che funziona come una ‘dittatura democratica’. Quelli che vivono nella “zona del non-essere”, per dirla con Fanon, resistono e costruiscono altri mondi per poter sopravvivere, ma sono bombardati con l’illusione di poter cambiare il proprio destino senza rompere il sistema.
Ci mancano le idee. La mente non pensa con l’informazione bensì con le idee, come precisa Fritjof Capra in La rete della vita. Nella tremenda transizione/tormenta in cui viviamo, abbiamo bisogno di lucidità e di organizzazione per capire quello che succede e per costruire le vie d’uscita. Quando la realtà si fa più complessa e la percezione si intorbidisce, una caratteristica delle tormente sistemiche, rendere nitido lo sguardo è un passo ineludibile e vitale.
Per questo ci riempiono di informazione spazzatura, perché contribuisce a potenziare la confusione. È in questo senso che i media giocano un ruolo sistemico che consiste nel deviare l’attenzione, far sì che le cose importanti e decisive abbiano un rilievo identico a quelle più superficiali (un incidente stradale ha maggior copertura che il caos climatico) e trattano i temi seri come se fossero una partita di calcio.
Como sappiamo, ci sono quelli che pensano che non sono in corso maggiori cambiamenti, che la tormenta sistemica è una crisi passeggera, dopo la quale tutto riprenderà il suo corso normale. Però noi, los e abajo, dobbiamo acuire i sensi, rilevare i suoni e i movimenti impercettibili, perché le nostre vite sono a rischio e qualsiasi distrazione può avere conseguenze disastrose. Noi non abbiamo assicurazioni sulla vita né guardie private come los de arriba.
Lo storico francese Emmanuel Todd riflette sulle elezioni nel suo paese, con analisi davvero interessanti. La prima, è che da diversi decenni esistono settori di forze sociali stabili, che permettono di garantire che la società sia divisa in due metà e che questa divisione permanga quasi inalterata.
In secondo luogo, si chiede perché nello scorso quarto di secolo, il rifiuto verso il modello neoliberale non è cresciuto (in Europa), malgrado l’aumento della disoccupazione e il fallimento dell’euro. Todd fa un’analisi della popolazione, un dato strutturale che gli analisti tendono a minimizzare. In Francia, dal 1992, la popolazione è invecchiata fino a sei anni e, di fatto, gli anziani “hanno perso il diritto di voto”, perché un’uscita dall’euro abbatterebbe le loro pensioni.
La seconda questione che Todd considera è la stratificazione educativa. Ne conclude che “le persone con studi superiori hanno prodotto una oligarchia di massa” e che questa élite è passata dal 12 per cento della popolazione nel 1992 al 25 per cento di oggi, cioè in soli 25 anni. La conclusione fa sussultare: una popolazione invecchiata aggiunta a una maggior “massa oligarchica” sfocia in un crescente conformismo della metà della popolazione, mentre l’altra metà, quella de abajo, si è considerevolmente deteriorata dal trattato di Maastricht del 1992.
Quando Marx scrive il Manifesto comunista, il rapporto tra los de abajo e los de arriba era di nove a uno. Non c’erano pensioni per gli anziani e l’università era riservata alle élite. Era un sistema instabile, che il 90 per cento della gente aveva interesse ad abbattere.
I due cambiamenti menzionati da Todd (demografia ed educazione superiore) rappresentano mutamenti profondi per noi che aspiriamo a trasformare il mondo. Tuttavia nel 1960 abbondavano gli universitari come il Che, disposti a usare le proprie conoscenze assieme agli oppressi. Il sistema ha saputo capire che tra i giovani universitari c’era un punto debole e ha preso provvedimenti.
Adesso i docenti di quel livello guadagnano fortune: in diversi paesi fino a 30 volte il salario minimo (nazionale, ndr). Gli studenti beneficiano di borse di studio che consentono loro di allungare gli studi di post-laurea fino a sfiorare i 40 anni e poi aspirano a fare il loro ingresso nella élite universitaria. Nell’immaginario collettivo, la scalata sociale passa dagli studi superiori ai quali si dedica buona parte della vita.
Tre decenni fa (in Marx e il sottosviluppo), Immanuel Wallerstein sosteneva che sotto il capitalismo la classe alta era passata dall’1 al 20 per cento della popolazione mondiale. Per l’”oligarchia di massa”, che presume Todd, la cifra può adesso avvicinarsi al 25 per cento. In América Latina le cifre vanno attenuate, però stiamo andando in quella direzione.
Può essere che stiamo rasentando la “dominazione perfetta”: società divise in parti quasi uguali, tra quelli che hanno bisogno di far saltare il banco e quelli che temono qualsiasi cambiamento. Una metà conformista e l’altra metà sopraffatta dalla Quarta guerra mondiale (secondo la definizione della tormenta cara agli zapatisti, ndr). Al di sopra di entrambe, sta l’1 per cento che controlla il potere statale, quello materiale e le democrazie elettorali.
“Man mano che si espandono le dimensioni del gruppo che sta in cima, via via che rendiamo sempre più uguali tra loro nei loro diritti politici i membri del gruppo che sta in cima, diventa possibile estrarre sempre di più da los de abajo”, scrive Wallerstein in Dopo il liberalismo. E aggiunge che “un paese per metà libero e per metà
Le conseguenze di questi cambiamenti dovrebbero portarci a trarre alcune conclusioni “strategiche”.
Uno, la democrazia si consolida in quel settore che non vuole destabilizzare il sistema, mentre l’altra metà non si sente rappresentata. La democrazia elettorale ha senso per la metà de arriba, ma è una prigione per los de abajo.
Due, per la metà diseredata della popolazione, l’attuale disegno del capitalismo è una realtà oppressiva, poiché le politiche sociali mirate tendono a neutralizzare e a dividere quelli che avrebbero bisogno di sollevarsi contro il sistema.
I partiti di centro-sinistra raccolgono le aspirazioni, e le paure, di quella metà della popolazione che vuole solamente cambiamenti cosmetici e il cui esclusivo esercizio politico è votare ogni cinque o sei anni e assistere ai meeting per applaudire i suoi caudillos.
La metà de abajo non può aver fiducia in un sistema politico che funziona come una “dittatura democratica”. Wallerstein continua così: “Un struttura politica con libertà totale per la metà de arriba può essere la forma più oppressiva che si possa immaginare per la metà de abajo”.
Quelli che vivono nella zona del non-essere, nelle parole di Fanon, sono quelli che resistono e costruiscono altri mondi, per mera necessità di sopravvivere. Ma sono bombardati dalla fantasia secondo la quale possono cambiare il proprio destino senza rompere il sistema.

venerdì 26 maggio 2017

DIETRO ALLA POLITICA NEOLIBERALE DELL’APPARTENENZA

Il sito Counterpunch denuncia la deriva del Partito Democratico americano, la stessa che è avvenuta da noi. Invece di occuparsi dei conflitti di classe cercando di risolverli, i democratici li negano, così approfondendoli. Il loro ragionare in termini di gender, preferenze sessuali o religiose e simili non fa che aiutare i capitalisti, dividendo la classe lavoratrice in innumerevoli fazioni.

di Paul Street, 24 maggio 2017
L’anno scorso, Daniel Denvir descrisse acutamente la strategia politica di Hillary Clinton come “l’apice del neoliberalismo, in cui una versione distorta della politica dell’appartenenza viene usata per difendere un’oligarchia e uno stato nazionale di sicurezza, celebrando le diversità per gestire lo sfruttamento e il conflitto sociale” (il corsivo è mio).
Questo “apice” della politica neoliberale dell’appartenenza (NIP) è un’arma potente nelle mani dei pochi capitalisti privilegiati e del loro impero globale di omicidi di massa. È stata al centro del fenomeno Barack Obama e della sua presidenza. Ed è tuttora viva e vegeta e presente al vertice del Partito Democratico e dei suoi numerosi alleati tra i media, anche sei mesi dopo l’umiliante sconfitta di Hillary Clinton.
Funziona così. Non sei riuscito a sopportare di votare il “male minore” ossia la candidata bugiarda neoliberale e guerrafondaia Hillary Clinton, malvagio strumento e alleata di una dittatura non eletta e intrecciata di denaro, impero e supremazia bianca?
Be’, dice la NIP, questo dimostra che sei sessista. Hai un problema di genere. Evidentemente non sopporti che una donna ricopra una posizione di autorità.
Lo stesso vale se hai avuto l’ardire di notare il grottesco imperialismo di Madeleine Albright, buona amica anti-russa di Hillary ed ex Segretario di Stato di Bill Clinton. La Albright è la rivoltante funzionaria imperialista che ha dichiarato alla CBS che l’assassinio di mezzo milione di bambini iracheni (bambine incluse) ad opera delle sanzioni economiche imposte dagli USA è stato “un prezzo che valeva la pena pagare” per i progressi nel raggiungimento degli obiettivi di politica estera statunitensi (la Albright ha dichiarato anche che c’è “un posto all’inferno” per le ragazze che non hanno votato per la Clinton l’anno scorso).
Lo stesso vale se non se non esulti di gioia per la partecipazione delle donne-pilota al bombardamento statunitense dei villaggi afgani.
Che importa delle donne e ragazze tra gli innumerevoli cittadini USA e del mondo feriti e minacciati dall’agenda neoliberale e imperialista che la Clinton ha portato avanti con lo stesso fervore e malignità del suo leggendario marito molestatore di donne?
Che importa se molte femministe e donne progressiste non hanno potuto digerire il corporativismo e il militarismo di Hillary Clinton e hanno appoggiato Bernie Sanders (insieme a uomini che sono stati assurdamente scherniti come “Berniebros” – “fratelli di Bernie” NdVdE – dalla campagna di Hillary) alle primarie presidenziali democratiche? O se hai votato per una donna (Jill Stein) come presidente?
No, dice la NIP. Hai odiato Hillary perché non credi nei diritti delle donne.
Hai criticato il primo presidente nero degli USA perché era prigioniero e servo della già menzionata dittatura di non eletti e hai rifiutato di salire sul carro del suo falso progressismo di speranza-cambiamento? Hai denunciato la dedizione senza risparmio di Obama ai ricchi e ai potenti? Non hai sostenuto Obama quando bombardava con i droni donne e bambini musulmani attraverso un programma di assassinii non-molto-mirati che Noam Chomsky ha giustamente definito “la più estrema campagna di terrorismo dell’era moderna?”
Be’, dice la NIP; questo dimostra soltanto quanto tu sia razzista. Devi avere un problema con gli uomini neri in posizioni di autorità.
Che importa dei molti milioni, se non miliardi, di persone di colore che sono state colpite o minacciate dall’agenda neoliberale e imperialista che Obama ha portato avanti con lo stesso fervore e malignità dei Clinton? A chi importa dei tuoi avvertimenti e osservazioni riguardo il totale disastro del fenomeno Obama e della sua presidenza rispetto alla causa dell’uguaglianza nera? O del fatto che molti neri americani non fossero d’accordo con il concetto malato che mettere una faccia tecnicamente nera nel posto simbolicamente più alto fosse una soluzione alla perdurante esistenza del razzismo nel cuore della vita americana?
Sei preoccupato delle pressioni al ribasso che gli immigranti africani e messicani possono esercitare sui salari e sul potere negoziale dei sindacati sul tuo mercato del lavoro locale?
Be’, sostiene la NIP, questo dimostra che razza di egoista, nazionalista-bianco-che-guarda-solo-FOX-News sei.
Dimentichiamoci il gioioso sfruttamento da parte dei datori di lavoro locali del lavoro degli immigranti come alternativa a basso costo e strumento per dividere la classe lavoratrice – e dimentichiamoci i tuoi stessi sforzi per vedere riconosciuti i diritti agli immigrati e l’inclusione degli immigrati nelle lotte per ottenere condizioni di lavoro e di vita migliori.
Sei preoccupato che l’influsso di ricchi studenti provenienti dalla Cina stia contribuendo a gonfiare i prezzi del tutoraggio al college e all’università, provocando l’esclusione dei figli della classe lavoratrice americana dall’istruzione superiore negli USA? Trovi sgradevoli i notevoli sprechi e l’esclusivo orientamento al business di molti di questi studenti cinesi?
Per la NIP ciò dimostra solo quanto tu sia un razzista che desidera segretamente riportare in vita la Legge di Esclusione della Cina del 1882.
Non importa quanto hai scritto, detto e/o fatto per criticare il rozzo, neo-Dickensiano sfruttamento del proletariato cinese – la vera fonte di ricchezza che rende possibile per le famiglie cinesi ricche mandare i propri figli unici nelle università americane.
Hai osato notare che l’afflusso di massa delle donne nel mondo del lavoro statunitense durante e dopo gli anni 70 ha permesso alla classe imprenditrice di schiacciare le paghe orarie e ha contribuito alla crisi della vita familiare della classe lavoratrice?
La NIP sostiene che questo dimostra che maschio sciovinista sei: ovviamente tu ritieni che “il posto di una donna è a casa”. Devi essere un sessista che vuole riportare l’orologio indietro, quando non c’erano i diritti delle donne.
Non importa se da tempo sostieni la parità di genere sul posto di lavoro e oltre.
Sei preoccupato per il fatto che i dati recenti dimostrano che i maschi della classe lavoratrice bianca degli USA stanno attraversando un periodo di declino precipitoso in termini di aspettativa di vita, a causa del collasso del mercato del lavoro per gli uomini della classe lavoratrice nell’era neoliberista?
Per la NIP questa è la dimostrazione che sei un sessista bianco che si interessa solo dei bianchi.
A chi interessa la tua lunga opposizione al sessismo, razzismo e ad altri mali?
Trovi molto poco sorprendente che molti bianche della classe lavoratrice e rurale reagiscano male alla frase “Le vite dei neri contano”, dato che negli ultimi 40 anni è stato loro insegnato dal capitalismo neoliberista che le LORO vite non contano?
Questo prova che sei un razzista che non capisce la speciale oppressione subita dalle persone di colore.
Non interessa la tua lunga denuncia e opposizione al razzismo e la tua difesa della frase “Le vite dei neri contano”.
Non sopporti il pericoloso piano imperialista USA per umiliare la Russia?
Questo dimostra che adori i grandi e forti nazionalisti bianchi, come Vladimir Putin. Vorresti segretamente tornare ai bei giorni della supremazia indiscussa degli uomini bianchi.
Non interessa la tua costante e indefessa critica dell’oligarchia neliberista di Putin, oltre che del suo razzismo e sessismo.
Non riesci a sopportare i professori di storia e sociologia (o di altre “scienze sociali”) che si concentrano sulla razza/etnicità e/o il gender e/o gli orientamenti sessuali e/o la religione e/o la nazionalità e/o l’età e/o l’ecologia, con l’assurda esclusione delle classi sociali nel raccontare la storia degli avvenimenti presenti?
Questo dimostra che sei un razzista e/o omofobo e/o bigotto e/o anti-ecologico.
Non importa la centralità della disuguaglianza tra classi nello sviluppo dei fenomeni di razzismo, oppressione etnica, sessismo, omofobia e via dicendo.
Non importa che la crisi ambientale venga pilotata al di sopra di qualsiasi problema dalla follia estremista della classe dominante capitalista.
Esiste un nome per tutta questa follia di politica dell’appartenenza nella quale si identificano così tanti liberali borghesi finti progressisti: la regola di dominio di classe divide et impera.
Non sono uno di quei social-democratici ed economisti che riducono tutto ai conflitti di classe e che dicono che tutta quanta la politica dell’appartenenza dovrebbe essere messa da parte. Nessun uomo di sinistra degno di questo nome dovrebbe negare o ignorare le esperienze specifiche di oppressione delle donne, dei neri, dei nativi americani, sudamericani, gay, transgender, musulmani, arabi, africani e così via. Sottovalutare la particolarità dell’oppressione e della vita delle persone legata a identità razziali, di genere, sessuali, etniche e di nazionalità non porta da nessuna parte, né moralmente né politicamente.
Quello che è da rigettare è l’identitarismo borghese paralizzante e reazionario al quale è profondamente legato il pessimo, affarista e neoliberista Partito Democratico. Come ha fatto notare Conor Lynch a Salon lo scorso autunno, “la campagna della Clinton ha tentato di incentrare le elezioni del 2016 sull’odiosità di Trump (“Amiamo l’odio per Trump”) e la sua “truppa di miserabili”, senza intanto offrire una reale visione di cambiamento progressivo e populista… quando qualcuno a sinistra ha sollevato legittime preoccupazioni riguardo al messaggio perdente della Clinton o al suo bagaglio politico durante e dopo le primarie, è stato ridicolmente etichettato come “fratello” sessista o razzista da figure apicali del partito (anche se alcuni dei più duri critici progressisti della Clinton erano di fatto donne e persone di colore).
La sinistra nei suoi momenti migliori ha percepito la politica dell’appartenenza in modo opposto sia al “dividi e comanda” della classe dirigente, sia al riduzionismo di classe. Come ha detto Luis Proyect lo scorso dicembre:
“Mentre l’idea di riunire i lavoratori in base ai loro interessi di classe e alla loro provenienza etnica, il loro gender, e altre differenze ha un enorme seguito a prima vista, non esiste un modo facile per dare concretezza a un approccio simile, data la tendenza innata del sistema capitalistico a creare divisioni tra la classe lavoratrice per mantenere il vantaggio sulla classe intera… ancora nel 1960… i leader trozkisti… percepivano la rivoluzione americana come una sorta di fronte unito di diverse battaglie che si sono riunite sulla base di comuni interessi di classe. Se questa è una concessione alla ‘politica dell’appartenenza’, temo che un movimento socialista che si basi su richieste particolari dei neri e altri di altri settori della popolazione che agiscono nel loro proprio interesse sulla base del sesso, delle preferenze sessuali ecc sarà inevitabilmente mancante della universalità necessaria a trionfare contro una classe capitalista coesa. Per dirla in termini dialettici, negare l’esistenza di contraddizioni e rifiutarsi di risolverle non potrà che portare a contraddizioni più profonde”.
E questo è davvero corretto. Si riferisce all’identità come un mezzo che serve a costruire solidarietà tra la classe lavoratrice in opposizione al capitale, mentre la NIP cerca di dividere la classe lavoratrice per servire

giovedì 25 maggio 2017

Trump in Terra Santa: “L’America è con Israele”

“Il legame che non può essere spezzato tra Stati Uniti e Israele”, “una cooperazione sempre maggiore nella lotta al terrorismo e alla sua ideologia malvagia” e “l’Iran deve smettere di addestrare e finanziare i gruppi terroristici e le milizie”. Tre frasi che sintetizzano in maniera forse brutale ma chiara la linea politica e strategica espressa dal presidente statunitense Donald Trump in Israele, nel corso della visita a cui hanno lavorato Jared Kushner e Jason Greenblatt, rispettivamente genero e avvocato immobiliarista di fiducia del tycoon.
Teheran torna ad essere il nemico numero uno ed il bersaglio di pesanti accuse. “Usa e Israele possono dichiarare ad una voce che all’Iran non sarà mai, mai, mai concesso di avere un arma nucleare. L’Iran deve smettere di addestrare e finanziare i gruppi terroristici e le milizie”, ha detto il presidente degli Stati Uniti durante l’incontro con il presidente israeliano Reuven Rivlin.
Il successore di Obama ha parlato di un “profondo consenso nel mondo” per la lotta al terrorismo, inanellando due dichiarazioni a dir poco discutibili in rapida successione: “Re Salman pensa in modo intenso e, posso dirvelo, gli piacerebbe molto vedere la pace tra israeliani e palestinesi” e soprattutto “molti leader musulmani hanno espresso la loro determinazione nella volontà di aiutare a mettere fine al terrorismo e alla diffusione della radicalizzazione. C’è una crescente consapevolezza tra i vostri vicini arabi di avere una causa comune con voi su questa minaccia posta dall’Iran”.
Nel mondo capovolto del magnate newyorkese, l’Iran diventa sostenitore del terrorismo mentre l’Arabia Saudita è faro di pace e di fratellanza. Quando la realtà supera gli incubi e le allucinazioni.
Da Teheran è subito arrivata la replica. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Bahram Qasemi, riferendosi al contratto da 110 miliardi di dollari per la fornitura di armi all’Arabia Saudita, ha chiesto agli Stati Uniti di “smettere di fornire armi ai principali sponsor del terrorismo”.
“Sfortunatamente, ha continuato Qasemi, con le politiche ostili e aggressive degli americani, stiamo assistendo a un rinnovato rafforzamento dei gruppi terroristici nella regione e a una cattiva analisi in merito alle dittature che sostengono questi gruppi”.
Trump, accompagnato dalla moglie Melania, dalla figlia Ivanka e dal genero Jared Kushner, ha visitato la Basilica del Santo sepolcro e il Muro del pianto, il luogo più sacro dell’ebraismo, diventando il primo presidente degli Stati Uniti a farlo. Finora i rappresentanti Usa e Ue avevano evitato questo itinerario per il preciso significato politico che ha, dal momento che si trova a Gerusalemme Est, occupata da Israele nella Guerra dei sei giorni del 1967, annessa nel 1980 con la condanna dell’Onu e che i palestinesi rivendicano come capitale del loro futuro Stato.Durante le dichiarazioni congiunte al termine dell’incontro con il presidente Reuven Rivlin a Gerusalemme, il presidente statunitense ha aggiunto: “Ho grande fiducia nel fatto che possiamo ottenere grande successo e raggiungere tutti i nostri obiettivi insieme”. E ancora: “I giovani israeliani e palestinesi meritano di crescere al sicuro e di seguire i loro sogni liberi dalla violenza che ha distrutto così tante vite”.
Alle parole di Trump ha fatto eco il premier israeliano Benjamin Netanyahu: “Israele condivide il suo impegno per la pace e tende la mano ai palestinesi”, ha detto, definendo quella del presidente Usa “una visita storica perché nessun presidente ha mai visitato Israele nel suo primo viaggio all’estero”.
Netanyahu ha poi espresso l’auspicio che “un giorno un premier israeliano possa volare da Tel Aviv a Riad in un viaggio di pace”.
“Credo che la notevole alleanza con gli Usa diventerà ancora più grande e ancora più forte”, ha concluso il capo del governo dello Stato ebraico

mercoledì 24 maggio 2017

L’Eurogruppo lascia la Grecia in mezzo alle rapide

La Grecia può tranquillamente affondare. Dopo la conclusione dell’Eurogruppo – convocato proprio per sciogliere le incertezze sul destino da scrivere per Atene – bisogna prendere atto che “i creditori” sono profondamente divisi e che le loro divisioni portano a non decidere nulla. Tranne che la Grecia deve pagare secondo le scadenze previste, anche se non ha soldi per farlo.
Se vi sembra contorto… avete ragione. La colpa è ovviamente degli accordi bizantini presi sulla testa dei greci e a loro imposti a bruttissimo muso. Per capirci: Atene deve restituire a luglio 7 miliardi di prestiti, soprattutto nei confronti della Bce, ma non li ha. Il meccanismo disegnato a suo tempo prevede che siano gli stessi creditori a forniglieli sotto forma di una nuova tranche di “aiuti”.
Ma non si sono messi d’accordo fra loro, anche per l’opposizione convergente di Germania e Fondo Monetario Internazionale, su posizioni opposte. Il Fmi, quasi a dispetto della sua fama, vorrebbe che il debito greco fosse “ristrutturato” (ossia tagliato, ridotto) fino a diventare sostenibile, in modo da rendere credibili i piani di rientro. Per la stessa ragione, vorrebbe che ad Atene fosse imposto un avanzo primario più basso di quello previsto oggi (3,5% rispetto al Pil), dando un filo di fiato in più alla derelitta economia ellenica. Altrimenti non prevede di partecipre a nuovi piani di “aiuto” che richiedono prestiti impossibili da restituire.
Sul fronte opposto il cerbero numero uno, il ministro delle finanze di Berlino, Wolfgang Schaeuble, che ha il problema tutto politico di non concedere un euro di prestito prima delle elezioni di fine settembre (lui stesso è la fonte della bufala che circola in Germania sui “laboriosi tedeschi” costretti a regalare soldi alle “cicale mediterranee”). Ragion per cui sostiene che si deve aspettare la chiusura del terzo pacchetto nell’estate 2018, «e poi vedremo quali altre misure siano necessarie».
In mezzo è rimasto il giovane ma spietato presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, secondo cui Atene obbedisce quanto basta (“molto lavoro è stato fatto”, soprattutto per quanto riguarda “azioni prioritarie” come taglio ulteriore di sanità, pensioni e ultime privatizzazioni). Questo era dunque sembrato un via libera per il pagamento della tranche di aiuti già prevista per il 15 giugno. Tanto più che sia il nuovo governo francese che il commissario europeo per gli affari economici (l’altrettanto francese Pierre Moscovici) si erano già pronunciati a favore sia della “promozione” di Atene nella “seconda revisione”, sia della (piccola) ristrutturazione del debito greco.
Nulla di fatto, invece. Le necessità elettorali della Cdu tedesca vengono prima di tutto il resto. A conferma che l’Unione Europea è un meccanismo impersonale architettato per favorire il capitale finanziario multinazionale, ma “rispettoso” di un solo interesse nazionale.

martedì 23 maggio 2017

EHOC: LO SMANTELLAMENTO DELL’EURO E LA LEZIONE DELLA FINE DELL’AREA DEL RUBLO

Nel 1994, Linda Goldberg, Barry Ickes e Randi Ryterman conclusero il loro articolo sulla rottura dell’area del rublo (rublozona, RZ) cogliendo quello che hanno definito un “paradossale” contrasto con il contemporaneo progredire dell’unione monetaria in Europa.
“Nella Comunità europea, la partecipazione all’Exchange Rate Mechanism (ERM, meccanismo del tasso di cambio, ndt) è stata in parte collegata al desiderio dei paesi di importare la disciplina monetaria imposta da un centro forte, la Germania. Questo abbraccio della disciplina monetaria in Europa non minaccia la sovranità e l’indipendenza dei paesi membri. Al contrario, la decisione dei paesi di rimanere nell’area del rublo restringe in modo chiaro il ritmo e la direzione delle loro riforme economiche. L’abbandono della zona del rublo è un rigetto del controllo da parte della Russia sia sulla politica monetaria che sulla strategia di riforme.”(1)

Questi autori non hanno colto il vero paradosso. La storia della RZ è iniziata con l’autorizzazione alle ex-Repubbliche Sovietiche (FSR) a condividere la moneta della Russia senza avere virtualmente nessun vincolo sulla propria sovranità – nel senso di essere forzati ad attenersi a determinate regole su come condurre le proprie politiche monetarie, fiscali e finanziarie. In particolare, per un certo periodo le banche centrali delle FSR sono state in grado di emettere rubli per i pagamenti non in contanti a proprio piacimento. In questo modo la RZ ha avuto due effetti: ha permesso alle FSR di non fare le riforme necessarie; e ha minato le stesse riforme russe, che miravano alla stabilizzazione macroeconomica (o, per metterla in modo più preciso, la RZ completò il cattivo lavoro che la banca centrale russa (BCR) stava facendo per proprio conto nel combattere l’inflazione in patria). Fu solo nel 1993, quando la Russia – come forma di autodifesa economica – iniziò a imporre politiche stringenti e condizioni di convergenza alle FSR, che queste ultime decisero di uscire da questa unione monetaria e introdurre le proprie monete nazionali. Nel 1994, la RZ era finita nel cestino della storia.
Questo illuminante precedente per l’eurozona (EZ) ha spinto un inviato di Bloomberg a commentare, nel giugno 2012: “Col senno di poi, è sorprendente che gli architetti dell’euro non abbiano riflettuto maggiormente sul fallimento della rublozona mentre costruivano la loro grande architettura” (2). In effetti, i cosiddetti architetti non pensarono molto alla RZ. A pochi giorni dalla firma dei Trattati di Maastricht nel dicembre 1991, l’Unione Sovietica collassò e fu stabilita la RZ, che comprendeva le FSR adesso sovrane. Nel preciso momento in cui l’Europa aveva concordato di lanciare un’unione monetaria tra stati sovrani, l’ultima cosa che volevano i funzionari europei era l’imbarazzante spettacolo del fallimento di una unione monetaria formata in modo simile, alle porte dell’Europa.
Di conseguenza, gli “architetti dell’euro” dettero un forte supporto politico alla RZ. Così come la creazione dell’euro era stata basata su un razionale economico discutibile che aveva a che fare con le aree valutarie ottimali, allo stesso modo gli architetti dell’euro determinarono una tesi economica per l’esistenza della RZ: era un mezzo per preservare i profondi legami commerciali tra le FSR. Entravano in gioco delle considerazioni politiche – che andavano dai timori della destabilizzazione di una potenza nucleare come effetto di un eccessivo disordine economico, alla preoccupazione più spicciola che aggiustamenti economici radicali nella ex-URSS – sebbene necessari e in ultima analisi benefici – potessero portare a maggiori richieste di sostegno alla bilancia dei pagamenti da parte dei paesi occidentali (i quali, sia bilateralmente che attraverso le istituzioni finanziarie internazionali, avevano rifiutato di garantire alla Russia la stessa riduzione del debito della quale avevano beneficiato altre economie post-comuniste in transizione, come la Polonia).
Comunque sia, le argomentazioni economiche sulle relazioni commerciali all’interno della ex-Unione Sovietica (FSU) erano viziate. Quelle relazioni erano l’eredità della pianificazione centrale; e una volta collassata l’Unione Sovietica, il razionale economico per mantenere questi legami era insufficiente. I prezzi del commercio intra-regionale, prima della liberalizzazione degli stessi, erano mal calcolati e definiti per la maggior parte sulla base del baratto, portando all’accumulazione, al mercato nero e alla carenza di scorte (3). La gran parte del commercio sovietico era basato su prodotti per i quali non c’era domanda. Operando sotto “vincoli di bilancio flessibili”, liberi dalla disciplina di un mercato competitivo, le imprese statali delle FSR fornivano beni alle altre repubbliche, senza curarsi delle loro necessità e della loro capacità di pagare – e assumendo invece che i crediti della BCR sarebbero stati sufficienti per regolare tutte le transazioni (4). Gaddy e Ickes affermarono in sintesi che le imprese industriali post-sovietiche erano sopravvissute “nonostante i loro risultati, invece che grazie ad essi” (5). Anche se c’era un’argomentazione di tipo gravitazionale, basata sulla vicinanza tra le FSR, una volta che furono introdotte le monete nazionali e liberalizzati i prezzi, la quota parte del commercio intra-FSR sul totale scese dal 57% del 1992 al 33% del 1997 (6).
In aggiunta ai razionali economici dubbi, le origini della RZ e dell’EZ condividono un’altra caratteristica comune: il volontarismo politico. Così come, nel caso dell’EZ, la classe al governo in Francia vedeva l’unione monetaria come un modo per accrescere il potere francese impedendo che la Bundesbank fosse di proprietà esclusiva della Germania (in corso di riunificazione), gran parte dell’élite russa era similmente ansiosa di mettere in salvo quanto più possibile dell’Unione Sovietica, che era stata uno strumento del potere russo. Bordo e Jonung hanno concluso che le unione monetarie sono sempre motivate politicamente – guidate (come sostenuto da Mark Mazower, riportato nello stesso articolo di Bloomberg citato sopra) da “una visione ideologica dell’elite”. (7,8)
Nel caso delle FSR, la motivazione politica era molto differente. Da poco dotate di sovranità, le FSR avevano ben poca volontà di lavorare per una RZ cooperativa, poiché la moneta comune era diventata il simbolo dell’ “ultima istituzione sovietica” (9). Allo stesso tempo, le FSR non gettarono immediatamente nella spazzatura la RZ, come invece fecero con altre iniziative russe tese a stabilire alcune istituzioni sovra-nazionali, come le forze armate. Al contrario, e in un modo che presagiva le relazioni odierne tra la BCE e le autorità fiscali dell’eurozona, le FSR erano incentivate a creare deficit quanto più grandi possibili emettendo crediti in rubli che “incrementavano gli acquisti reali del governo nazionale, facendone ricadere i i costi sui detentori di attività nominali in tutta l’area valutaria” (10,11).
Questa agenda delle FSR era supportata in Russia dagli interessi economici della potente lobby dell’industria, che voleva che i crediti della banca centrale continuassero a coprire le usuali transazioni con fornitori e compratori – molti dei quali erano nelle varie FSR. Questi interessi avevano un potente alleato nel governatore della BCR Viktor Gerashchenko (nominato il 17 luglio 1992), di mentalità sovietica, che sino alla fine del 1992 fornì abbondante liquidità e prestiti senza interessi per un totale rispettivamente del 3.1% e del 10% del PIL russo (12). Poiché nel dicembre 1991 la Russia aveva perso l’accesso al credito internazionale dopo il fallimento nel credito commerciale a breve termine della Vneshekonombank, questi oneri parafiscali erano finanziati attraverso la BCR quasi esclusivamente con la creazione di moneta, portando ad una inflazione molto alta e volatile (13).
Questa dinamica cambiò quando Boris Fyodorov fu nominato Ministro delle Finanze, nel gennaio 1993. La lotta all’inflazione divenne una delle maggiori priorità e i crediti alle FSR uno dei maggiori obiettivi. L’incentivo a limitare i costi della RZ venne dalle negoziazioni con il FMI su una nuova linea di credito progettata in particolare per la Russia (Sistemic Transformation Facility, STF). Ormai il FMI – che prima si era unito alla UE nel supportare la RZ – aveva riconosciuto la necessità per ogni FSR di introdurre la propria moneta nazionale (Pomfret, 2002) (questa dinamica FMI-UE assomiglia alla storia della preannunciata Grexit).
Nell’aprile 1993 i crediti furono tecnicamente aboliti e tutti i crediti alle FSR precedentemente accumulati nel 1992-1993 furono trasformati in debito statale (denominato in dollari USA e con un tasso d’interesse collegato al Libor), trasferiti sul bilancio pubblico e quindi sotto il controllo del Ministero delle Finanze. Questo limitò la generosità del presidente della BCR verso le FSR. Con la stretta creditizia verso le FSR, la loro domanda di liquidità aumentò drasticamente e divenne la principale minaccia. La Russia agì il 24 luglio 1993 introducendo una riforma monetaria con cui le banconote dell’era sovietica (raffiguranti Lenin) in circolazione nelle FSR cessavano di avere corso legale in Russia. Le FSR furono costrette a scegliere tra: introdurre le proprie monete; o negoziare con la Russia per criteri simili a quelli di Maastricht. Preferirono andare per la propria strada valutaria (14).
Così, per tornare alla citazione dello studio di Goldberg, Ickes e Ryterman dal quale siamo partiti, la lezione “paradossale” della RZ per l’Europa è che quando l’ERM si è trasformato nell’EZ i paesi periferici dell’EZ hanno sperimentato precisamente quell’erosione della loro sovranità e indipendenza che la Russia finì col richiedere alle FSR come condizione per continuare a condividere il rublo. Applicata all’EZ, l’analogia col collasso della RZ suggerisce due scenari: o i corrispettivi delle FSR – ad esempio, i paesi meno competitivi della Germania – alla fine si sottraggono ai vincoli dell’odierna unione di trasferimento e decidono di uscire; o, in alternativa, la Germania arriva a considerare gli accordi esistenti, secondo i quali la BCE (e l’ESM) in effetti finanziano i deficit di bilancio così come la BCR finanziava le FSR, come un intollerabile onere fiscale – e/o un onere potenzialmente inflazionistico – sui propri contribuenti. A quel punto, la Germani stessa potrebbe decidere di lasciare, o insistere su regole più stringenti (o almeno, su un’applicazione più stringente delle regole attuali) col risultato che altri paesi più deboli usciranno.

Affari di sangue. 110 mld di armi Usa all’Arabia Saudita

Donald Trump si appresta a vendere queste armi all’Arabia Saudita, prima tappa del tour che lo porterà anche in Israele, Vaticano, al vertice Nato e al G7
Mentre a Tehran oggi proclameranno il vincitore delle presidenziali, nelle stesse ore a Riyadh srotoleranno il tappeto rosso per accogliere Donald Trump. Il presidente americano che in campagna elettorale aveva fatto dell’avversione all’Islam e ai musulmani la sua bandiera, nelle prossime ore si rivolgerà ad oltre 50 rappresentanti e leader del mondo islamico riuniti in Arabia saudita un discorso di amicizia e alleanza, farcito di appelli alla lotta comune contro il radicalismo religioso. Un discorso che vuole chiudere nel cassetto più dimenticato della storia quello che rivolse il suo predecessore Barack Obama nel 2009 a milioni di musulmani in tutto il mondo parlando dall’università islamica del Cairo. «Il summit tra Stati Uniti, Arabia Saudita, Paesi musulmani è storico – ha commentato il ministro degli esteri saudita Adel al Jubeir, un “falco” fautore della linea del pugno di ferro nei confronti dell’Iran – è un chiaro segnale, entrambe le parti sono interessate a un dialogo positivo e ad allearsi».
Tuttavia in questa prima tappa del lungo viaggio inaugurale all’estero Trump, più di ogni altra cosa, annuncerà uno dei più ampi accordi della storia per la vendita di armi Usa all’Arabia saudita, del valore di 110 miliardi di dollari. Un accordo a cui ha lavorato suo genero e consigliere “speciale” Jared Kushner divenuto, pare, un amico stretto del giovane vice principe ereditario saudita e uomo forte del regno, Mohammed bin Salman. Kushner avrebbe personalmente chiesto all’amministratore delegato di Lockheed Martin, Marillyn Hewson, di abbassare il prezzo di un sistema radar, in modo che il prezzo fosse accettabile per l’Arabia Saudita e potesse essere incluso nell’accordo. È la polizza assicurativa che Trump offre alle petromonarchie del Golfo a garanzia del suo impegno volto a proteggere sempre e comunque gli alleati sunniti e a “contenere” le ambizioni dell’Iran.
Non sorprende che per le strade di Riyadh sventolino le bandiere americane accanto a quelle nazionali e i cartelloni con il volto del tycoon accanto a quello del re Salman in arabo e inglese, inneggianti all’amicizia tra i due Paesi e al comune obiettivo di «sconfiggere il terrorismo». Su di uno si legge «Insieme vinceremo», una vittoria non contro l’Isis, il nemico che Trump sostiene di voler colpire e sconfiggere e che in realtà non è il suo vero obiettivo. Il bersaglio vero è l’Iran e a Tehran lo sanno bene. Ibrahim Raisi, lo sfidante conservatore del presidente uscente Hassan Rohani, ha puntato la sua campagna sulle eccessive aperture del capo dello stato agli americani che, afferma, si preparano a stringere di nuovo la corda intorno al collo dell’Iran, spinti anche dall’Arabia saudita e da Israele dove Trump giungerà tra due giorni.
Terrorismo e sicurezza perciò domineranno gli incontri di Trump con i capi di stato dei Paesi islamici. Spicca, ma non sorprende, l’assenza dei diritti umani dall’agenda di Trump che, lo sottolinea in un comunicato Amnesty International, non farà altro che incoraggiare ulteriori violazioni in una regione in cui i governi violano il diritto umanitario internazionale in conflitti spesso alimentati dai trasferimenti di armi statunitensi. «I diritti umani sono sotto un continuo attacco nel Golfo», denuncia Margaret Huang di AI. «L’Arabia saudita e gli altri Paesi del Golfo – aggiunge – usano il terrorismo come scusa per schiacciare e perseguitare dissidenti pacifici e difensori dei diritti umani…e mentre in Yemen famiglie intere sono uccise all’interno delle loro case con armi vietate a livello internazionale dalla Coalizione a guida saudita in Yemen, l’Amministrazione Trump pianifica la vendita di armi per miliardi di dollari all’Arabia Saudita».

lunedì 22 maggio 2017

Tre anni di “lavoro”, 9,4 milioni di buonuscita.

La notizia è di quelle che farebbero salire il sangue agli occhi anche a un santo. Ammonta infatti a quasi 9,4 milioni di euro l'assegno di buonuscita che riceverà Mauro Moretti da Leonardo, l'azienda del settore aerospaziale di Finmeccanica del quale è stato amministratore delegato per soli tre anni. Il consiglio di amministrazione di Leonardo, nella prima riunione del nuovo cda tenutasi il 16 maggio scorso, "ha verificato la sussistenza dei presupposti per l'attribuzione all'ex amministratore delegato e direttore generale di un'indennità compensativa e risarcitoria pari a 9.262.000 euro oltre alle competenze di fine rapporto e di quanto spettante in relazione ai diritti maturati nell'ambito della partecipazione ai piani di incentivazione a breve e medio-lungo termine, come riportati nella relazione sulla remunerazione della società". A tale indennità, spiega ancora la nota, si aggiunge un importo di 180 mila euro "a fronte di rinunce specifiche effettuate" da Moretti "nell'ambito della risoluzione del rapporto". A Moretti subentra Profumo, anche lui ex presidente dell’Unicredit e persino del Monte dei Paschi di Siena.
Moretti, durante il suo mandato di a.d di Leonardo, è stato condannato a sette anni per la strage di Viareggio, avvenuta quando era amministratore delle Ferrovie dello Stato.
Proprio in questi giorni, il rapporto annuale dell’Istat ha provato a radiografare – con criteri posti sulla graticola da sociologi come Schizzerotto – il boom delle disuguaglianze sociali nel nostro paese. Una forbice cresciuta enormemente in questi ultimi dieci anni e che in larga parte è determinata proprio dalla bassa retribuzione del lavoro. Una condizione che ha portato alla crescita della popolazione che vive in condizione di povertà relativa.
Ma in un paese dove solo le pensioni d’oro non possono essere toccate perché sono un “patto tra stato e cittadini” (criterio non valido invece per quelli massacrati dalla riforma Fornero); dove il tetto alle retribuzioni più ricche viene giudicato un disvalore mentre i tagli a quelle più basse una inevitabile necessità; dove si muore e ci si ammala di più perché non ci sono più i soldi per curarsi, leggere che un pessimo personaggio come Moretti, per soli tre anni di lavoro in una azienda si porti a casa 9,4 milioni di euro di buonuscita, è una notizia che invoca quasi naturalmente quello che Marx prima e il grande Edoardo Sanguineti poi definirono come un giustificato odio di classe. Una categoria della coscienza sociale completamente diversa da quella che gentaccia come Briatore liquida come "invidia". E' qualcosa, anzi molto di più.

venerdì 19 maggio 2017

Alternanza scuola lavoro? Un mezzo flop

L’alternanza obbligatoria scuola-lavoro per gli studenti degli ultimi tre anni delle superiori e che, dal 2018, è prevista come materia dell’esame di Stato sta causando non pochi problemi agli istituti e ai professori, che non sanno dove piazzare gli studenti. E su cui ora è possibile fare un primo bilancio. Lo scrive L’Espresso in una inchiesta.
Per evitare il flop, il ministero dell’istruzione ha messo sul piatto oltre 100 milioni di euro per la formazione dei professori-tutor e ha inserito tra le strutture che possono ospitare i ragazzi associazioni del terzo settore, enti ecclesiastici e sportivi, che si vanno ad aggiungere ad aziende, camere di commercio e ordini professionali.
Per quanto riguarda i criteri che rendono valida un’alternanza, però, si naviga ancora a vista, mentre l’alternanza corre lungo la penisola tra casi di eccellenza e storie di sfruttamento e che finisce per ricalcare il divario tra Nord e Sud quando si parla di lavoro, con gli studenti settentrionali privilegiati rispetto ai compagni meridionali. Si scopre, senza troppe sorprese, riporta L’Espresso, che l’innovazione si registra nelle scuole vicine ai cluster industriali, alla meccanica 4.0, ai poli manifatturieri, alle reti d’impresa, alla Confindustria.
Per Assolombarda, che tiene insieme 5.786 imprese, esiste un problema per le aziende: «Non è che non vogliano gli studenti», spiega il vice presidente Massimo Giovanardi, «è che non sanno come muoversi. Per questo abbiamo predisposto un manuale per spiegare che si può fare».

L’Assolombarda ha creato una piattaforma digitale in cui far incontrare progetti e competenze e ha stilato un elenco per le competenze acquisite a fine progetto, oltre a una tabella su quelle trasversali. Un modello rigido, spiegano, «ma inevitabile».
Per il demografo dell’università Cattolica Alessandro Rosina, che coordina il Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo, «il problema non è la rigidità dei modelli o pulire bagni e pavimenti, ma fare in modo che i ragazzi si inseriscano in un tessuto socio-culturale ricco, che ci sia occasione di motivazione e sviluppo delle competenze: più ti scontri con i tuoi limiti, più vuoi imparare. Invece l’alternanza della Buona scuola ha obiettivi generici, nessun piano di stima d’impatto, scarsa uniformità sulla valutazione. Eppure gli studenti, che vedono e temono la disoccupazione, chiedono alla scuola di essere rafforzati proprio sulle competenze per poi stare sul mercato»

giovedì 18 maggio 2017

Istruzione, Italia maglia nera d’Europa

Nel 2014 la spesa per l’istruzione è scesa al 4,1% del Pil, di fronte a una media europea del 5,3%. E il 70% dei nostri adulti non raggiunge un livello minimo e indispensabile di alfabetizzazione. Il Rapporto sullo Stato sociale 2017
La grande crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 sarebbe una vera e propria “stagnazione secolare”.
A sostenerlo è il Rapporto sullo stato sociale 2017, curato dalla Facoltà di Economia della Sapienza di Roma. La formula, coniata per la prima volta nel 1938 dal celebre economista Alvin Hansen per descrivere gli effetti della “grande depressione” degli anni ’30, sarebbe ora più che mai attuale. Secondo i curatori del rapporto, l’attuale recessione presenterebbe molte analogie con quella che scaturì in seguito al crac di Wall Street del 1929: l’alto tasso di risparmio, i bassi investimenti e il conseguente declino dei tassi di interesse. Tutte condizioni che spingono in basso la domanda, “deprimendola a livelli incompatibili con la crescita”, e vanificano l’effetto di politiche monetarie espansive. Come rilanciare quindi le nostre economie? Il Documento è chiaro: solo con l’ampliamento delle politiche pubbliche, il rilancio del welfare e il potenziamento degli investimenti pubblici possiamo tornare a crescere e tirare un sospiro di sollievo.
E qui cominciano le critiche all’Unione Europea: secondo i curatori dello studio, le politiche sociali comunitarie riflettono “l’inadeguatezza della visione economico – sociale che ha guidato la sua costruzione”. In particolare il contenimento dei bilanci pubblici e la mancanza di investimenti e di piani industriali – in poche parole le politiche di austerity – sono la causa delle scarse performance economiche del Vecchio continente, e non la soluzione. Il veleno scambiato per l’antidoto. Un problema non solo europeo, ma sopratutto italiano, visto che lo studio sottolinea come “la polarizzazione delle condizioni nazionali che ha accompagnato le politiche economiche e sociali affermatesi nell’Unione europea vede l’Italia tra chi ha peggiorato la propria condizione relativa”. Un mix letale che ha portato il nostro Paese nelle condizioni in cui tutti conosciamo.
La Sapienza sottolinea innanzitutto come l’Italia si conferma maglia nera d’Europa per quanto riguarda la spesa per l’istruzione, tra le più basse dell’Unione, e in calo costante: nel 2014 è scesa al 4,1% del Pil rispetto al 4,4, del 2010, di fronte a una media europea del 5,3%. Nel Belpaese si spendono 9300 euro per studente, contro gli 11 mila della Francia, gli 11.500 della Germania e i 14 mila di Austria, Regno Unito e Svezia. Preoccupante anche il tasso di alfabetizzazione dei nostri adulti: secondo il paper , il 70% di questi non raggiunge un livello “minimo e indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali ed economiche”. L’insieme dei dati non rende sorprendente che la popolazione italiana tra i 30 e i 34 anni abbia un livello di istruzione molto sotto la media Ue: solo il 25% ha una laurea, contro il 38,7% della media europea e della soglia del 40% raggiunta dai Paesi membri fondatori, valori che nelle regioni del Mezzogiorno raggiungono il 20%. Un altro aspetto negativo del sistema d’istruzione italiano è il sistema universitario, molto più ristretto rispetto agli altri Paesi europei: nella media Ue ci sono 4,9 istituzioni universitarie per milioni d’abitanti: in Francia sono 5,6, mentre in Germania 3,9; l’Italia è all’ultimo posto con 1,5%. Il primato aspetta invece alle tasse universitarie, pari a un quarto della spesa totale, contro una media europea del 14% dei Pesi europei del 21% dei Paesi Ocse.
Per quanto riguarda la spesa sociale, l’Italia spende il 28,8% rispetto al Pil, una tendenza di poco superiore rispetto alla media europea (28%) Ma la spesa pro capite è in calo e sotto la media: se al dato Eu15 diamo un valore pari a 100, il nostro è sceso di 10 punti nell’arco di 14 anni, da 84 del 2000 a 74 del 2014. I Paesi che spendono di più sono Francia e Danimarca (32,2%), quello che spende meno l’Irlanda (19,3%). Le voci di spesa però sono disomogenee e variano da Paese in Paese: l’Italia registra un record nella spesa pensionistica (18,5% contro 14,7% dell’Ue) e nella spesa per anziani (vicina al 50% insieme a Grecia, Portogallo, Lettonia, Polonia e Romania).
Cattive notizie anche sul fronte della lotta alla povertà: secondo i ricercatori della Sapienza, le persone a rischio esclusione sociale in europa sono 120 milioni (poco meno di un quarto dei cittadini europei), una percentuale che oscilla dal 14% della repubblica Ceca al 41,3% della Bulgaria. Nei Paesi dell’Europa del Sud la tendenza è ancora in crescita rispetto al 2012, anno in cui i poveri stimati in Italia erano 18 milioni, quasi il 30% della popolazione. L’indice comunitario di povertà relativa si attesta invece attorno al 17,3%, mentre quello del Belpaese tocca il 20%. Per quanto riguarda la povertà assoluta, l’Italia ha registrato un miglioramento rispetto al 2015, ma il suo indice è il più alto nell’Ue dopo la Grecia. Forse perchè il nostro Paese, insieme al cugino all’ellenico, è l’unico sprovvisto di una misura universale contro la povertà e di garanzia di reddito minimo. E nonstante ciò, secondo il documento, tali provvedimenti già esistenti, non sarebbero necessari a portare il reddito dei poveri vicino ai valori previsti dall’Eurostat, del 60% del reddito mediano nazionale pro capite – in alcuni Paesi si arriva a malapena al 20%. Tuttavia, secondo la Sapienza, stimare la povertà è molto difficile: questo dipende anche dagli altri tipi di prestazioni connesse al welfare, come la spesa sanitaria, i contributi abitativi e le misure assistenziali – difficilmente quantificabili – e anche le diverse condizioni considerate dai sistemi europei, come l’età, la cittadinanza e il tipo di trasferimento monetario.
Ma quali sono state le poltiche “sbagliate” che hanno fatto precipitare l’Italia al fondo della classifica europea? Secondo il Rapporto in primo luogo le politiche sul lavoro e il varo del Jobs Act , che con l’intenzione di ridurre le tutele per i lavoratori e i contributi ai datori per un triennio, non ha rilanciato, se non solo provvisoriamente, la crescita e l’occupazione. In secondo luogo l’invecchiamento progressivo della popolazione, che genera effetti economici di rilievo per il nostro sistema di welfare; invecchiano anche gli occupati, cosa che ha effetti negativi sul grado di formazione media e sulla produttività, mentre sempre più giovani rimangono senza lavoro (40%) a causa dell’incapacità del nostro sistema di creare nuovi posti di lavoro. Ci sono poi politiche di welfare, inadeguate a creare occupazione e a contrastare la povertà e le diseguaglianze; un sistema sanitario disomogeneo che, sopratutto nel Mezzogiorno, non risponde alle esigenze di salute dei cittadini; una contrazione della spesa pensionistica che comporta anche un impulso depressivo per la domanda. Nel frattempo sempre più giovani, conclude lo studio, cercano lavoro all’estero nonostante gli investimenti – bassi – nell’istruzione del nostro sistema, mentre i risparmi privati delle famiglie italiane si ricongiungono all’estero con la “forza lavoro più istruita”, dove concorrono ad alimentare “sistemi conocrrenziali al nostro”. Il tutto mentre in Italia si punta alla riduzione del costo del lavoro per far sopravvivere imprese che operano in settori maturi, con persone di bassa formazione, di origine perlopiù immigrata, che operano spesso con modalità “irregolari se non malavitose”. Almeno su questo ci spetta il primato.

mercoledì 17 maggio 2017

Stop agli sbarchi durante il G7 di Taormina

Contrordine signori: i processi di immigrazione di massa, finora descritti come naturali, fisiologici ed irreversibili, possono essere non solo controllati e regolati ma addirittura bloccati. Per una settimana intera e con una settimana di anticipo, in occasione del G7 a Taormina, fissato per il 26 maggio.
Da lunedì prossimo, le imbarcazioni cariche di migranti dovranno attraccare altrove. A stabilirlo è la direttiva firmata dal capo della polizia Franco Gabrielli, diramata per garantire la massima sicurezza dei capi di Stato e di governo che si riuniranno per due giorni. Oltre 8mila gli uomini impegnati.
Le “aree di sicurezza” individuate dal prefetto sono tre: quella “di rispetto” che “comprende gli itinerari terrestri, marittimi e aerei di accesso alle località interessate da sottoporre a eventuali interdizioni”; quella “riservata”, contigua “ai luoghi del summit e di altri eventi collegati con specifici divieti e varchi di controllo dove far accedere persone interessate e mezzi accreditati” e infine quella di “massima sicurezza”, vale a dire quella in cui “si svolge l’evento e ci sono le strutture interessate al soggiorno delle personalità dove attuare le massime misure di vigilanza e controllo con personale specializzato e tutte le tecnologie disponibili, accessibile solo con appositi accrediti”, comprendente il San Domenico Palace di Taormina dove si svolgono le riunioni, l’antico Teatro greco e il Palazzo dei congressi.
Anche la navigazione sarà progressivamente limitata, a partire già da oggi. La direttiva è esplicita in tal senso: “È già stata rappresentata la necessità di realizzare, a partire dal 15 maggio, una riduzione progressiva degli sbarchi a Messina e poi per l’intera Sicilia evitando comunque di impegnare i porti dell’isola nei seguenti periodi: porto di Messina, dalla mezzanotte del 18 maggio 2017 fino alle 24 del 28 maggio successivo; tutti gli altri porti della Sicilia, dalla mezzanotte del 22 maggio 2017, fino alle 24 del 28 maggio successivo”.
Un capitolo specifico è stato dedicato ai “mirati servizi di monitoraggio della rete per la prevenzione e il contrasto di cyber attacchi verso infrastrutture critiche ovvero verso sistemi informatici connessi all’evento, nonché per l’espletamento di attività su possibili attività di cyber terrorismo di qualunque matrice o ispirazione politica”.
Sarà rigidamente controllata la corrispondenza “indirizzata agli organizzatori, istituzioni, personalità e obiettivi a rischio”. La Polizia Postale avrà inoltre il compito di impedire eventuali intrusioni “nelle comunicazioni telefoniche e radio, al fine di garantire la sicurezza nelle comunicazioni dedicate alla gestione dell’ordine pubblico”. Agli specialisti italiani, si affiancheranno quelli statunitensi che avranno a disposizione linee “dedicate”, utilizzabili esclusivamente dai componenti della delegazione del presidente Donald Trump.
Il controllo e la difesa del territorio spetteranno ai tiratori scelti, agli artificieri e ai sommozzatori. Sono state previste anche delle barriere per impedire qualsiasi tipo di intrusione.

martedì 16 maggio 2017

Cambiano solo i burattini eletti, non il potere che li crea

Finalmente è finita anche questa farsa che ha tenuto in ansia i media ed i social. Ha vinto Macron. Ha perso la Le Pen. E chi se ne frega. E’ un mese che non si parla d’altro, come se importasse qualcosa, come se cambiasse qualcosa, oltre alle apparenze. Ancora troppo pochi si rendono conto del discorso più profondo: tutta questa bagarre, in realtà, è perchè i popoli diano il loro gioioso assenso alla piramide di fantocci che si occuperà esclusivamente di fare quello che gli viene detto di fare da livelli superiori. In barba a desideri e speranze del popolo. Quello che cambia, come diciamo da sempre, è solo il tipo di sentimenti che vengono cavalcati: da una parte gli egoismi, dall’altra le speranze. Questa la differenza tra Trump e Obama, Le Pen e Macron, Berlusconi e Prodi, Renzi e Salvini, ecc. Che in fondo rispecchia semplicemente la differenza tra Ratzinger e Bergoglio, o meglio, tra Gesuiti ed Opus Dei. Da una parte lo sfruttamento degli egoismi, dall’altra la manipolazione dei buoni sentimenti. Questa la sola vera differenza tra le due principali piramidi di potere del mondo.
Ad esempio: cosa cambia ad un bimbo mediorientale, se la bomba che gli cade in testa arriva dall’affabile Obama o dall’impresentabile Trump? Niente. Zero. Zilch. Nada. Nella questione Macron/Le Pen possiamo quindi dire: “rien”. Negli Macronultimi anni il divide et impera principale che è stato fomentato nelle teste degli europei è “Europa sì, Europa no”. Eppure sarebbe tanto bello poter parlare di un’Europa che andrebbe costruita bene, di una democrazia, di un’economia più equa, ma non è di questo che vogliono farci parlare. Vogliono che ci dividiamo e che scegliamo il “meno peggio” a seconda del nostro orientamento politico/etico. Ma non esiste un meno peggio: esistono marionette manovrate con la mano sinistra, e marionette manovrate con la mano destra. Le differenze? Quando non sono puro maquillage, alla fine si riducono ad argomenti di terz’ordine, quelli che servono per far contenta una parte del proprio elettorato, quella più superficiale.
La Le Pen è anti-Europa esattamente come Tsipras: solo chiacchiere. Altrimenti non sarebbe stata ad un passo dalla presidenza francese. In questo articolo, Thierry Meyssan parla del ruolo dell’Opus Dei nella costruzione della Ue attraverso il riciclaggio/sdoganamento degli ex fascisti e nazisti col beneplacito di De Gaulle. Quindi, se avessero eletto la La Pen, avrebbe fatto la fine di Tsipras, ovvero, non sarebbe cambiato nulla. E Macron? Beh, lui viene dalla Banca Rotschild. Una garanzia di assoluta continuità. Dunque non cambia nulla. E quindi? Se è tutta una presa in giro, che Obamapossiamo fare? Ovvio: le cose da cui ci vogliono realmente distogliere: la coltivazione e l’utilizzo delle parti migliori di noi. Cerchiamo di smettere di abboccare sempre all’amo.
Occupiamoci di cose serie, su cui possiamo avere un impatto concreto: dal sorriso al vicino di casa, alla salvaguardia delle cose che ci sono vicine, dalla diffusione di concetti e forme-pensiero migliori, alla telefonata a quella zia sola e un po’acida, che proprio non vorremmo chiamare. Invece di sentirci a posto perchè abbiamo votato per un Nobel per la Pace che poi bombarda milioni di persone, aumentiamo per come possiamo il livello generale di pace, creandola prima in noi stessi, e poi cercando di contagiare il prossimo. Nel frattempo, ovviamente, occhi sempre più aperti per evitare di cadere in binari di pensiero che sono stati creati apposta per portarci sulla strada sbagliata. E’ finita l’era della delega

lunedì 15 maggio 2017

Stanno svendendo l’Italia al miglior offerente

Se l’amministratore di un’impresa privata decidesse di regalare beni aziendali e poi regalasse soldi a chi accettasse di appropriarsene, questo amministratore difficilmente riuscirebbe ad evitare il confronto col codice civile e penale. Invece i nostri governanti, amministratori dei beni di tutti, così si comportano con le nostre proprietà e con quelle altrui che finanziano. Per lo Stato, nell’economia debbono valere regole di svantaggio rispetto a qualsiasi grande azienda privata, così vuole l’Unione Europea e così i governanti che ad essa ubbidiscono. Ovviamente con la massima soddisfazione degli imprenditori privati, che si vedono regalate le aziende e che quando le mandano in malora possono fuggire e scaricare di nuovo tutto sullo Stato. Con quanti nostri soldi lo Stato italiano ha finanziato le privatizzazioni? Decine e decine, forse centinaia sono i miliardi spesi per privatizzare il patrimonio produttivo pubblico, nel nome della riduzione di un debito che non si è mai realizzata e di un maggiore efficienza mai ottenuta. Quanti miliardi sono stati regalati a imprenditori e multinazionali che poi hanno sfasciato le aziende?
Questa cifra non viene mai fornita ad una opinione pubblica martellata dalla campagna a favore delle svendite. Svendite come quella delle acciaierie di Piombino, che dopo una lunga trafila di fallimenti imprenditoriali, da Lucchini ai magnati russi, sono Alitaliastate regalate ad un imprenditore algerino che non si è mai fatto vedere. Quella che oggi è l’Ilva è stata regalata alla famiglia Riva dal governo e dall’Iri di Prodi. I Riva hanno accumulato per anni miliardi, poi sono crollati sotto il peso della crisi e dei danni ambientali. Lo Stato da allora finanzia l’azienda a fondo perduto, in attesa di svenderla a qualche multinazionale che saccheggerà ciò che è rimasto, farà un’ecatombe di licenziamenti e lascerà tutti i danni ambientali a carico della comunità e della spesa pubblica. Mentre fallivano in Ilva, i Riva venivano chiamati da Berlusconi a salvare l’Alitalia, assieme a Colaninno, Marcegaglia, Montezemolo e tanti altri bei nomi, tutti coordinati da Passera allora a capo di Banca Intesa. Tutta la crema della imprenditorialità e della finanza italiana ha mostrato il suo reale valore nella gestione della compagnia aerea. E il fallimento è stato totale, come quello del quotidiano che ufficialmente la rappresenta, il “Sole 24 Ore”.
Le poche grandi privatizzazioni che, per ora, non sono fallite hanno consegnato le eccellenze del sistema produttivo italiano, dalla Telecom all’Ansaldo, alle multinazionali. Multinazionali a cui si affidano le aziende private medie, non appena i loro vecchi titolari pensino al futuro, Luxottica insegna. La Fiat della famiglia Agnelli è un’azienda americana con sede legale in Olanda, mentre l’Olivetti non esiste più, è stata sacrificata da De Benedetti per realizzare l’Omnitel, che oggi appartiene alla Vodafone. Le banche, che in gran parte erano pubbliche, o sono già in possesso o sono in attesa di un compratore estero, partner si dice nel mondo bene. Quel sistema industriale e finanziario che era stato in grado di collocare il nostro paese tra quelli più sviluppati, e che si reggeva proprio per il peso ed il ruolo del sistema pubblico, è stato smantellato e svenduto pezzo Maurizio Martinadopo pezzo. E dopo il fallimento indecoroso della classe imprenditoriale italiana, quel sistema è ora terreno di caccia per tutti i venditori di Colosseo che parlino inglese.
Il vice di Renzi, Martina, ha sfacciatamente confessato che il governo non può nazionalizzare Alitalia, altrimenti dovrebbe fare altrettanto con tutte le aziende che dovessero chiudere. Che evidentemente sono tante per l’ingenuo ministro, che smentisce in tal modo l’ottimismo ufficiale del palazzo. Così, grazie alla fermezza autolesionista del governo, Lufthansa può far sapere di non essere interessata alla nostra compagnia aerea: deve solo aspettare la catastrofe finale dell’azienda e poi raccoglierne gratis i cocci. Lo stesso faranno le multinazionali dell’acciaio interessate all’Ilva: anch’esse devono solo attendere il disastro. Le privatizzazioni sono solo svendita di beni di tutti, una svendita pagata coi soldi di tutti. Non c’è nulla di più falso e in malafede che affermare che lo Stato non può più spendere i soldi dei cittadini per finanziare aziende in crisi. Perché la realtà dimostra che regalare le aziende pubbliche ai privati alla fine costa molto di più. Costa di più sul piano produttivo perché le aziende vanno peggio. Costa di più sul piano sociale per i nuovi disoccupati che si aggiungono ai tanti altri già esistenti. E costa di più perché il conto, per la spesa pubblica che deve riparare ai guasti del privato, è più alto oggi di Giorgio Cremaschiquando le aziende erano in mano pubblica. Se l’amministratore di un condominio ruba si caccia lui, ma non si butta giù la casa. Le privatizzazioni han buttato giù la casa.
Gli articoli 41e 42 della nostra Costituzione hanno definito i vincoli a cui sono sottoposte la proprietà e l’iniziativa privata e gli spazi riservato all’intervento pubblico. Decenni di politiche liberiste sotto dettatura della Unione Europea hanno rovesciato nel loro opposto questi e tanti altri articoli della nostra Carta. Il privato deve avere tutto e il pubblico lo deve finanziare a fondo perduto. Si regalano 20 miliardi alle banche perché i loro futuri acquirenti non trovino troppe sofferenze, se ne sono versati altri 60 in sede europea per lo stesso scopo. Gentiloni promette a Trump di pagare la bolletta Nato, ma salvare Alitalia, Ilva, Piombino non si può, lì o ci pensa il mercato o si chiude. L’ideologia liberista è già insopportabile in sé, quando poi diventa la giustificazione per lo spreco dei soldi pubblici e per la distruzione del patrimonio industriale diventa un costo insostenibile. Dobbiamo ringraziare i lavoratori Alitalia che con il loro No hanno respinto l’ennesimo regalo ai privati, questa volta concesso agli sceicchi di Etihad, che non sono certo privi di mezzi propri. La nazionalizzazione di Alitalia, dell’Ilva, delle altre aziende strategiche in crisi è la sola via realistica per sottrarsi ai danni dell’incapacità imprenditoriale nazionale e della rapina multinazionale. Il resto è solo servilismo verso i poteri e gli interessi che vogliono il nostro paese in vendita. Low cost.

venerdì 12 maggio 2017

Bauman. L’arte del dialogo è la nostra rivoluzione

Essere uno stato, piccolo o grande non importa, vuole sempre dire una cosa molto semplice: avere sovranità territoriale, ossia la capacità di agire all’interno dei propri confini in base alla volontà di chi abita nel proprio territorio, senza rispondere agli ordini di qualcun altro. Dopo un’epoca in cui i vicinati si sono fusi o sono stati percepiti come destinati a fondersi in unità più grandi chiamate stati-nazione (con in agguato la prospettiva di un’unificazione e di un’omogeneizzazione della cultura, della legge, della politica e della vita umane in un futuro che, se non era immediato, sarebbe senza dubbio giunto), dopo la lunga guerra dichiarata dai grandi ai piccoli, dallo stato al locale e al “parrocchiale”, entriamo ora nell’epoca della “sussidiarizzazione”, in cui gli stati non vedono l’ora di scaricare i propri doveri, le proprie responsabilità e - grazie alla globalizzazione
e alla nascente situazione cosmopolitica - il compito ingrato di riportare il caos all’ordine, mentre le vecchie località e i vecchi comuni serrano i ranghi per assumersi queste responsabilità e battersi per qualcosa in più.
L’indicatore più vistoso, carico di conflitto e potenzialmente esplosivo del momento presente e la volontà di rinunciare alla visione kantiana di una futura Burgerliche Vereinigung der Menschheit, un’unificazione civile dell’umanità, che coincide con la realtà della globalizzazione avanzata e imperante della finanza, dell’industria, del commercio, dell’informazione e di ogni forma di violazione della legge.
A cio si associa il confronto di uno spirito e di un sentimento klein aber mein (“piccolo, ma mio”) con il dato di una condizione esistenziale sempre più cosmopolita. In seguito alla globalizzazione e alla divisione dei poteri politici che ne deriva, infatti, gli stati si stanno trasformando in vicinati piuttosto grandi, compressi all’interno di confini permeabili, tracciati in modo vago e difesi in modo inefficiente. Nel mentre, i vicinati di una volta - considerati sul punto di essere cestinati dalla storia, insieme a tutti gli altri pouvoirs intermediaires — lottano per assumere il ruolo di “piccoli stati”, sfruttando al meglio cio che rimane delle politiche quasi-locali e dell’inalienabile prerogativa monopolista, un tempo gelosamente custodita dallo stato, di dividere “noi” da “loro” (e viceversa). Il “progresso”, per questi piccoli stati, si riduce a un “ritorno alle tribù”.
In un territorio popolato da tribù, le parti in conflitto evitano e rinunciano senza esitazione a convincersi e a convertirsi a vicenda; l’inferiorità di un membro — di un membro qualsiasi — di una tribù straniera è e deve restare una debolezza predestinata, eterna e incurabile, o almeno deve essere vista e trattata come tale. L’inferiorità dell’altra tribù è la sua condizione permanente e irreparabile, il suo stigma indelebile destinato a vincere ogni tentativo di riabilitazione.
Una volta che la divisione tra “noi” e “loro” è stata istituita secondo queste regole, lo scopo di ogni incontro fra gli antagonisti non è più lo stemperamento, ma la ricerca o la creazione di ulteriori prove del fatto che qualsiasi stemperamento è irragionevole e fuori questione. Preoccupati di non svegliare il can che dorme e di evitare le sventure, i membri delle tribù bloccate nel circolo di superiorità/inferiorità non si parlano ma si ignorano. Per coloro che risiedono (o sono stati esiliati) nelle zone grigie di frontiera, la condizione di «essere sconosciuti e dunque minacciosi» e l’effetto della loro intrinseca o ipotetica resistenza o sottrazione alle categorie cognitive utilizzate come pilastri dell’“ordine” e della “stabilità”.
Il loro peccato capitale o il loro crimine imperdonabile consiste nell’essere la causa di una difficoltà mentale e pragmatica, derivata dalla confusione comportamentale che essi non possono non produrre (qui si può pensare a Ludwig Wittgenstein, che faceva consistere il comprendere nel sapere come andare avanti). Inoltre, questo peccato incontra ostacoli formidabili nella sua redenzione, per via del “nostro” testardo rifiuto di instaurare con “loro” un dialogo teso ad affrontare e a superare l’iniziale impossibilità della comprensione. L’assegnamento alle zone grigie è un processo autoalimentantesi messo in moto e intensificato dal venir meno o, meglio, dal rifiuto a priori della comunicazione.
Elevare la difficoltà della comprensione al rango di un’istanza o di un dovere morale imposto da Dio o dalla storia è, dopotutto, la prima causa e uno stimolo fondamentale alla definizione e al rafforzamento dei confini che “ci” separano da “loro”, anche se non su base esclusivamente etnica o religiosa, e della funzione fondamentale a cui devono assolvere. Come interfaccia tra i due contendenti, la zona grigia dell’ambiguità e dell’ambivalenza rappresenta inevitabilmente il territorio principale — e troppo spesso unico — su cui si proiettano le implacabili ostilità e si combattono le battaglie tra “noi” e “loro”.
Ritirando nel 2016 il premio Carlo Magno, papa Francesco — forse l’unica figura pubblica dotata di autorità planetaria ad aver avuto il coraggio e la determinazione di scavare le radici profonde del male, della confusione e dell’impotenza attuali e di metterle in mostra — ha dichiarato: «Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere “una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro”, portando avanti “la ricerca di consenso e di accordi, senza pero separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” ( Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione».
Subito dopo, papa Francesco aggiunge una frase che contiene un altro messaggio strettamente connesso alla cultura del dialogo, come sua autentica conditio sine qua non: «Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i percorsi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà a inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui le stiamo abituando». Ponendo una cultura del dialogo come compito educativo e chiamando noi al ruolo di insegnanti, egli afferma senza ambiguità che i problemi che oggi ci affliggono sono destinati a durare ancora a lungo — problemi che cerchiamo invano di risolvere nei modi a cui siamo abituati, ma per i quali la cultura del dialogo ha una chance di trovare soluzioni più umane (e, auspicabilmente, più efficaci).
Un vecchio proverbio cinese, ancora molto attuale, invita chi di noi è preoccupato per l’anno a venire a seminare grano e chi invece si preoccupa per i prossimi cento anni a educare le persone. I problemi che abbiamo di fronte non ammettono bacchette magiche e scorciatoie, ma richiedono niente meno che un’altra rivoluzione culturale. In tal senso, essi impongono una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati vissuti sotto la tirannia del momento. Abbiamo bisogno di recuperare e di riapprendere queste arti. Per farlo, serviranno menti lucide, nervi d’acciaio e molto coraggio. Soprattutto, servirà un’autentica visione globale a lungo termine — e tanta pazienza.

giovedì 11 maggio 2017

Sulle tavole degli italiani cibo spazzatura

La cattiva alimentazione minaccia gli italiani che mangiano troppo e male. Sono 1,9 milioni gli italiani che amano il cibo spazzatura. E sono 1,2 milioni gli italiani che si autodefiniscono ingordi, persone che mangiano troppo di tutto.
Avanti così nei prossimi anni il numero di obesi potrebbe salire di oltre 15 milioni di persone, con costi sanitari e sociali aggiuntivi insostenibili. È il quadro che emerge dalla ricerca del Censis “Crescita e qualità della vita: le opportunità della Food policy”. Tra i più voraci ci sono gli anziani e le persone a bassa scolarità.
Sono dati “preoccupanti su tanti italiani”, afferma il Censis, “che consapevolmente mangiano male o troppo: cattive abitudini che comportano un alto rischio di insorgenza di patologie e costi per la sanita’”. Tra i millennial si registra la quota più alta di junk food lover. È facile prevedere che questi giovani una volta divenuti adulti non cambieranno facilmente il loro “stile” di vita.
Nel confronto internazionale relativo al 2014, con il 10,3% di obesi l’Italia si colloca in Europa al penultimo posto (meglio di noi solo la Romania), molto al di sotto della media dei 28 Paesi (15,9%) e più ancora rispetto ai tassi di obesità di Australia (27,9%) e Stati Uniti (38,2%). Oggi un adulto su otto nel mondo è obeso.
In dieci anni però gli obesi nel nostro Paese sono aumentati del 4%. E le persone sovrappeso sono il 36,1% in Italia (+6% in dieci anni): un valore poco superiore alla media Ue (35,7%) e ai valori di Australia (35,5%) e Stati Uniti (31,9%). Il costo sociale attuale di obesità e persone sovrappeso è stimato in 30 miliardi di euro: è quindi una priorità educare alla buona alimentazione, cioè alla buona dieta italiana.
Mangiare e bere moderatamente i tanti alimenti di origine vegetale e animale a nostra disposizione è la soluzione ai pericoli della cattiva alimentazione.

mercoledì 10 maggio 2017

Il prossimo governo si ispirerà allo sceriffo di Nottingham

Mentre tutti giocavano a fare il “Macron italiano”, cercando di posizionarsi al meglio ai nastri di partenza delle ormai prossime elezioni politiche, il quasi ex presidente della Consob, Giuseppe Vegas, avvertiva tutta la classe politica che il gioco sta per cambiare ancora una volta.
"L'inflazione si sta progressivamente riportando in prossimità dell'obiettivo del 2 per cento, mentre negli Stati Uniti è già in corso un inasprimento monetario. L'Italia dovrà preparasi ad affrontare la nuova situazione che si profila, non potendo più contare sul puntello esterno della leva monetaria".
Qualche spiegazione per i non addetti ai lavori è necessaria. Il prolungarsi della crisi – dieci anni, ormai – ha scatenato una recessione produttiva disastrosa, che ha avuto come unico effetto apparetemente “positivo” l’azzeramento del tasso di inflazione. Ma i prezzi stabili intorno allo zero percento annuo – o addirittura in zona negativa (deflazione), come avvenuto per qualche mese anche in Italia – sono a loro volta un problema, perché si bloccano gli investimenti privati (un’azienda non investe soldi per produrre di più se non c’è abbastanza domanda, e quindi prospettive di prezzi in crescita controllabile).
A questo problema ha fatto fronte il quantitative easing della Bce, che "ha ridotto la pressione su quei Paesi, come il nostro, che più di altri avevano bisogno di recuperare terreno sul piano della competitività, della stabilità e della convergenza". In altri termini, con i pressi bassi e i tassi di interesse a zero, l’Italia e altri paesi con un debito pubblico molto alto (come la Francia) hanno potuto per qualche anno pagare meno interessi sul debito.
Nelle intenzioni di Mario Draghi e di tutta l’Unione Europea questa disponibilità di denaro avrebbe dovuto per un verso aiutare l’inflazione a risalire verso il livello considerato fisiologico (intorno al 2%), per un altro aiutare quegli stessi stati a correggere il livello del proprio debito pubblico. In realtà non c’è riuscito nessuno, non solo l’Italia, perché – soprattutto a causa dei tagli alla spesa pubblica imposti dall’Unione Europea per ridurre quel debito – è venuta completamente a mancare la crescita economica. Quindi l’ammontare del debito, nonostante le risorse supplementari ricavate dalle privatizzazioni di società pubbliche, è rimasto grosso modo lo stesso, se non addirittura aumentato.
Secondo l’ottusa logica ordoliberista, comunque, "questa opportunità non è stata colta". E nonostante lo stesso Vegas la indichi, non riesce a spiegare perché negli ultimi vent'anni il "sistema produttivo italiano ha subito un'erosione di competitività nell'ordine del 30% rispetto alla Germania", divario che è all'origine del "differenziale di rendimento" tra i titoli di Stato dell'Eurozona.
Non c’è infatti soltanto il peso negativo dell’euro ("La moneta unica – ha aggiunto Vegas – ha creato un ecosistema in cui la competitività può essere difesa e incrementata solo attraverso le leve dell'istruzione, dell'innovazione e delle riforma del quadro macroeconomico"), ma anche la ristrutturazione delle filiere europee del valore a vantaggio delle hoding tedesche, in un processo di depauperamento continuo delle capacità industriali di quesi tutti gli altri paesi Ue.
Ora i pericoli che si addensano all’orizzonte sono enormi e numerosi. A cominciare naturalmente dall’avvicinarsi del momento in cui i tassi di interesse riprenderanno a salire (ora sono a zero, ripetiamo), e dunque aumenterà contemporaneamente sia il livello di spesa pubblica annuale per pagare gli interessi sul debito, sia le difficoltà delle imprese di finanziare le proprie attività. Per le banche, naturalmente, questo significherà un aumento delle “sofferenze” (crediti non restituiti), che già oggi costituiscono un problema irrisolto, visto che il meccanismo del bail in (deciso dalla Ue, addebitando i costi dei salvataggi bancari ad azionisti, obbligazionisti e correntisti al di sopra dei 100mila euro) ha aggravato l’incertezza sulla stabilità del sistema creditizio, invece di contribuire a risanarlo.
Non bastasse questo, c’è anche cosiddetta la sfida Fintech, "ovvero digitalizzazione e disintermediazione dell'industria finanziaria", con la prevedibile esplosione di attività finanziarie opache, irresponsabili (più di ora? sì), rapinatorie e difficile persino da indagare grazie ai meandri teoricamente infiniti creati dalle tecnologie informatiche. Tanto che Vegas non si è negato la battuta ad effetto: "Le stesse autorità di controllo dovranno adattare al nuovo contesto strutture e metodi di lavoro", perché "nella Consob di domani ci sarà bisogno di più ingegneri e meno avvocati".
E’ finita qui, almeno? Ovvio che no. Il risultato delle elezioni francesi assicura – a meno di sorprese rilevanti nelle legislative del prossimo giugno, che decideranno se Macron avrà oppure no una maggioranza stabile – un rafforzamento dell’”asse franco-tedesco”, che dovrebbe logicamente tradursi in una riforma dall’alto della stessa Unione Europea. Una riscrittura delle regole in senso ancora più vincolante, dunque più punitivo dei paesi con più problemi. Il che disegna un quadro in cui, chiunque vinca le elezioni italiane (a settembre o febbraio prossimi) si troverà senza una sponda per contrattare margini supplementari di “flessibilità”.
Non stiamo svelando un segreto. Chi governa in questo momento lo sa benissimo. Se volete trovare una ragione strutturale alla base dei due “decreti Minniti” (su “decoro urbano” e immigrazione) bisogna guardare a questi processi, che implicheranno “manovre” sanguinosissime, tagli mai visti a welfare e dipendenti pubblici, compressione dei salari al di sotto dei livelli di sopravvivenza e, per la prima volta, riduzioni significative degli assegni pensionistici in essere. Come avvenuto in Grecia, per chi volesse un precedente.
E quando uno Stato non ha più margini materiali di “mediazione politica e sociale” – che significa spesa pubblica per welfare, ammortizzatori, redistribuzione, ecc – l’unica soluzione che può immaginare è la militarizzazione del normale conflitto sociale.

martedì 9 maggio 2017

La derIVA di Padoan

C’è un’idea fissa di cui Pier Carlo Padoan non si riesce a liberare. Da anni una vocina sussurra nell’orecchio del ministro dell’Economia lo stesso ritornello: “Devi alzare l’Iva”. Il numero uno del Tesoro cerca di resistere, ma poi, ciclicamente, le sue difese crollano e quell’idea torna a circolare. Nei suoi conti di tecnico, chissà per quale modello o proiezione, questa prospettiva un senso ce l’ha. Il problema è che, da ministro, Padoan dovrebbe anche preoccuparsi delle ragioni della politica.
E la politica non va tanto per il sottile: al di là di tutti i calcoli fiscali o economici possibili, alzare la tassa più odiata e più evasa d’Italia a pochi mesi dalle elezioni sarebbe come impugnare la katana del samurai e prodursi nel più clamoroso degli harakiri. È una considerazione elementare, ma il buon Pier Carlo non riesce a farsene una ragione.
E così, poco prima del Def, ecco che quell’idea rispunta. In un’improvvida intervista al Messaggero, il ministro torna a parlare dell’ipotesi di alzare l’imposta sul valore aggiunto per ridurre il peso delle tasse sulle buste paga. "Lo scambio tra Iva e cuneo fiscale suggerito dall'Ocse – spiega Padoan – è una forma di svalutazione interna che va a beneficio delle imprese esportatrici, che sono anche le più competitive". Peccato che in Italia ci sia anche qualche milione di consumatori: persone che ogni giorno fanno la spesa e che, prima o poi, torneranno a votare.
Di questo si rende conto benissimo Matteo Renzi, che da anni, in modo speculare rispetto a Padoan, ha una crisi di nervi ogni volta che a qualcuno viene in mente di parlare di Iva. Infatti anche stavolta il premier-ombra/segretario-Pd-in-pectore (locuzioni roboanti per non rilevare che, al momento, si tratta di un privato cittadino senza incarichi ufficiali) dopo aver letto le parole del ministro scatena subito la contraerea.
Prima lascia che a sparare il colpo d’apertura sia il capogruppo dem alla Camera, Ettore Rosato, con un tweet: “L’aumento Iva non è nel programma del Pd né può essere nelle intenzioni del governo”. Poi l’ex capo del governo scende in prima persona sul campo di battaglia per impallinare l’uomo che lui stesso, controvoglia, ha portato alla guida del Tesoro: “L’Iva non si tocca e non si toccherà – dice Renzi dal salottino di Matrix – Secondo Padoan e altri professori porterebbe benefici. Non sono d’accordo. C’è una crescita più alta del previsto e spazio per ulteriori iniziative. Dobbiamo fare come in questi anni: andare in Europa a gomiti larghi”.
A quel punto il duello da far west sembra inevitabile. Invece no. Padoan abbassa lo sguardo e batte in ritirata. In audizione davanti alle Commissioni bilancio di Camera e Senato per parlare di Def, il ministro rassicura i parlamentari Pd: “Il governo non intende aumentare l’Iva nel 2018: il rialzo sarà sostituito con altre misure”.
Qui serve una precisazione. L’aumento delle aliquote Iva non è un’idea estemporanea, ma una spada di Damocle che pende su ogni manovra finanziaria. Si tratta di una clausola di salvaguardia, ovvero di una misura che scatta automaticamente a meno che il governo non trovi le risorse per disinnescarla. E costa molto: nella manovra varata lo scorso dicembre sono stati stanziati 15,1 miliardi a questo scopo, cioè più della metà dell’intera legge di bilancio, che in tutto valeva 26,5 miliardi. Nel 2018 il conto sarà ancora più salato: serviranno 19 miliardi e mezzo, altrimenti le aliquote Iva saliranno dal 10% al 13% e dal 22% al 25%.
Da dove tireremo fuori, stavolta, questa montagna di soldi? “Non sono in grado di dirlo… Non se ne è ancora parlato”, ammette Padoan. Forse sogna di lasciare che l’Iva salga proprio perché le alternative sono difficili da trovare nelle pieghe del bilancio pubblico e c’è il rischio che la medicina si riveli peggiore della malattia. Ma tant’è: ci sono le elezioni e l’Iva non può salire. Questa è una certezza.
Il vero mistero è per quale ragione Padoan continui a tirare fuori la questione, visto che poi gli manca sempre il coraggio di sostenere lo scontro con Renzi. Del resto, parlare di aumento dell’Iva rovina la reputazione un po’ a tutti, perché smentisce il dogma governativo secondo cui le grandi riforme renziane sono state un successone. Non lo sono state: abbiamo speso una fortuna in mance e mancette che non hanno riattivato la crescita, né riacceso i consumi, né abbattuto la disoccupazione, né rilanciato gli investimenti. Siamo sempre allo stesso punto, sempre qui a cercare disperatamente di far quadrare i conti, ad avvelenarci sui decimali con Bruxelles per poi alzare le accise su sigarette e benzina, senza nemmeno la speranza di mettere in campo una manovra economica che segni un punto di svolta per il Paese. E nella testa quella vocina che ripete: “Prima o poi l’Iva salirà”.

lunedì 8 maggio 2017

Legittima difesa. Il Pd travolto dalle critiche

È peggio che un semplice disastro. La legge sulla legittima difesa affonda sommersa non solo dalle critiche ma anche dal ridicolo. La campagna securitaria decisa da Renzi con l’obiettivo di rubare voti alla destra si è risolta in una sgangherata rotta.
I magistrati aprono il fuoco. «Intervento che non serviva e anche un po’ confuso», attacca il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte. Non si ferma qui e affonda la lama nella carne viva: non bisognerebbe «assecondare gli umori» popolari, «meglio desistere dal mettere mano a questa normativa». Nella pattumiera.
Grasso, presidente di quel Senato che Renzi voleva abolire e al quale ora si raccomanda per modificare la legge, si gode la rivincita: «Meno male che c’è il Senato». Le opposizioni si divertono, non lesinano in sarcasmo. «Se questa legge passa raccoglieremo le firme per abrogarla col referendum», si allarga Salvini.
La legge, oltretutto, ha ottime probabilità di non uscire viva dall’aula del Senato. Renzi si è impegnato a modificarla, cioè a peggiorarla, nella speranza di raccattare i voti di Fi ma Berlusconi non ha intenzione di fargli il favore sacrificando la ritrovata intesa col Carroccio. Neppure gli scissionisti dell’Mdp cambiano idea e in queste condizioni una maggioranza al Senato non c’è.
Non sarà neppure facile cavarsi d’impiccio ricorrendo all’eterna arma del cassetto. La legge arriverà in commissione tra due settimane e per il Pd la cosa migliore sarebbe seppellirla lì. Più facile a dirsi che a farsi. All’origine si tratta infatti di una delle proposte di legge in quota opposizione. E’ una legge della Lega e se il Carroccio insiste per portarla in aula non c’è alternativa.
Ma il peggio è la rete. La vecchia sigla del programma cult di Renzo Arbore, Ma la notte no, impazza, vive una seconda giovinezza. Le battutacce si contano a centinaia. Inutilmente il relatore Ermini, fedelissimo del capo e reduce da una lavata di testa che lèvati, prova a correggere: «Toglieremo la parola Notte». Non ce ne sarebbe bisogno per la verità, «ma se serve a correggere un’opinione completamente stravolta…». Inutile. La slavina è irrefrenabile, il coro sull’assurda legge che permette di sparare ai malfattori ma solo di notte prosegue. Il povero Ermini in realtà ha ragione. La legge è pessima ma la distinzione tra notte e giorno è frutto solo di un pasticcio mediatico di un testo confuso, che però il gran capo conosceva bene.
Renzi aveva fiutato l’aria malsana già giovedì sera, navigando in rete e traendo le conclusioni dal diluvio di critiche e ironie pesanti che già s’abbatteva sulla legge. In questi casi il suo schema è fisso: addossare la colpa agli altri. Si attacca al telefono, strapazza Ermini: «E’ scritta così male che si comunica male da sé. Bisogna rimediare, cambiarla, sparigliare». Poi ordina al suo portavoce, l’onorevole Anzaldi, di chiamare quattro giornalisti fidati per spiegare che il capo è fuori di di sé: «Così non si può andare avanti. Manca una regia. Su questa strada andiamo a sbattere». Trattandosi di una proposta di legge nata in Parlamento e fatta propria dal partito di cui Renzi è segretario, con un suo uomo come relatore, non si capisce bene chi, se non Renzi stesso, avrebbe dovuto occuparsi della regia. Particolari. L’importante è scaricare ogni responsabilità su qualcun altro, meglio se sul governo. Al resto penseranno i media.
Quando per la legge arriverà il momento della verità, Renzi è già pronto a sfruttare come d’abitudine la situazione a proprio vantaggio, insistendo sull’impossibilità di andare avanti a fronte di un Senato dove le divisioni interne alla maggioranza non permettono più di procedere. Tanto più che, subito dopo la legittima difesa, arriveranno a palazzo Madama altri due provvedimenti modello Mission Impossible, la legge sul testamento biologico e quella sulla cittadinanza e lo ius soli.
Lo sgambetto del capo è stato preso malissimo dal governo, anche se tutti cercano di non rendere palese l’irritazione. La ministra per i rapporti col parlamento, Finocchiaro, incaricata di cercare una difficilissima mediazione sia con Fi che con i centristi della maggioranza, decisi a rendere il testo più severo di quanto non intendesse Ermini, si è ritrovata sul banco degli imputati e mastica amaro. Il ministro Orlando, che al provvedimento leghista era contrario dall’inizio, vede ancora più rosso, tanto che i suoi sbottano: «Siamo alla presa in giro. L’intervento di Renzi è insopportabile». Ma anche tra i capibastone della maggioranza Pd, Franceschini e Martina, l’umore è cupo. Si erano illusi che dopo la batosta del 4 dicembre Renzi fosse cambiato. In meno di una settimana si sono resi conto che non è così. Matteo Renzi è sempre lo stesso.

venerdì 5 maggio 2017

Soros pronto a investire in Italia

Uno degli uomini più ricchi al mondo, il 29esimo secondo Forbes, con un patrimonio stimato di 25,2 miliardi di dollari potrebbe investire in Italia. Si tratta di George Soros, finanziere ungherese che nonostante i suoi 87 anni è ancora uno degli imprenditori più attivi su scala globale.
A parlare di un interesse crescente di Soros per il mercato italiano è Milano Finanza secondo cui il miliardario avrebbe chiesto al suo staff – in particolare a Shanin Vallée, senior economist per il Soros Fund – uno studio approfondito sul nostro paese, dal punto di vista finanziario, economico e industriale ma anche politico con lo scopo ultimo di valutare eventuali investimenti, diretti o indiretti, a medio-lungo termine, sul mercato locale.
Ma perché tutto questo interesse per l’Italia? Il quotidiano economico elenca vari fattori che hanno accresciuto l’interesse di Soros per il nostro paese. Il primo è di natura politica considerando l’instabilità degli ultimi anni e l’ipotesi di una tornata elettorale nel prossimo autunno. Poi si devono considerare anche le condizioni economiche in cui versa il paese e i sui rapporti con l’Unione europea. Infine, non da ultimo può essere fonte di interesse anche il tema dei crediti deteriorati, il cui ammontare è tra i più alti della zona euro e fa gola a numerosi fondi speculativi.
“Non per nulla, Soros è anche ricordato come lo speculatore che il 16 settembre del 1992 costrinse la Banca d’Inghilterra a svalutare la sterlina, guadagnando in un sol colpo 1,1 miliardi di dollari”.
Quali sarebbero gli investimenti su cui punta? Per ora non è dato saperlo ma il quotidiano lancia un’idea.
“Soros del resto non solo opera a titolo personale o con la propria struttura, ma è fondatore di Quantum Group of funds e, soprattutto, advisor di Blackrock, uno dei colossi dell’investimento made in Usa, particolarmente esposto sull’Italia, avendo partecipazioni per quasi 2 miliardi nel sistema bancario, ma anche nelle società quotate sul listino principale, a partire da Eni, Enel, Generali , Telecom Italia , Mediaset e così via”.

giovedì 4 maggio 2017

L’AMERICA AFFONDA NEL DEBITO PRIVATO

Crescono i timori sul debito privato statunitense, tuttora in ascesa soprattutto sul fronte retail. Lo segnala Business Insider. Nel solo comparto revolving, nota il portale, i consumatori americani devono fronteggiare un debito complessivo da 1 trilione di dollari originato prevalentemente dalle carte di credito. Ma a preoccupare sono anche i debiti “studenteschi”, ovvero l’ammontare dei prestiti contratti per finanziare gli studi universitari. L’ultimo dato disponibile parla di una pendenza complessiva da 1,4 trilioni.

Particolarmente significativo il peso dei finanziamenti per l’acquisto di automobili, che viaggiano tuttora a 1.100 miliardi. Parte di questi, nota in particolare Business Insider, sono classificati come subprime (prestiti rischiosi) e sono stati cartolarizzati in asset-backed Securities di dubbia qualità. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, notava nelle scorse settimane Fitch, le insolvenze sulle rate per l’acquisto delle auto interessavano ormai il 5% dei prestiti subprime, il livello più alto dal 2008 ovvero dallo scoppio della crisi.

Di recente, ricorda ancora Business Insider, uno studio del provider finanziario Northwestern Mutual ha rivelato che il 45% degli americani è costretto ogni mese a spendere fino alla metà del reddito per saldare le rate periodiche dei propri debiti. Anche escludendo i mutui immobiliari, ovvero la voce più pesante in assoluto, l’americano medio deve fare i conti con un debito di 37 mila dollari pro capite: nel 47% dei casi l’indebitamento vale almeno 25 mila dollari; per un americano su dieci si sale addirittura oltre quota 100 mila dollari.