venerdì 31 marzo 2017

Casinò globale

Imercati finanziari sono una componente indispensabile in un’economia capitalista. Semplificando all’estremo, potremmo definire la finanza come il mercato dei soldi. Chi ha bisogno di denaro incontra altri disposti a prestarlo, in cambio di un interesse. Tramite questo denaro si sviluppano le attività economiche, dall’avvio di un’impresa alla costruzione di una casa. Allo stesso mercato si rivolge chi ha bisogno di gestire un rischio. La finanza è il sistema linfatico dal quale l’economia di mercato attinge risorse per sostenersi. Il problema più evidente del capitalismo contemporaneo è che questo sistema è cresciuto in maniera abnorme, scriteriata ed ipertrofica, come un gigantesco tumore che pregiudica il funzionamento dell’intera economia. Da strumento al servizio delle attività economiche, il sistema finanziario si è trasformato in un’immensa sovrastruttura che condiziona l’economia in maniera egemone. Fra gli addetti ai lavori si parla di una “coda che scodinzola il cane”, riferendosi al rapporto surreale instauratosi fra la finanza e l’economia reale.
Per fare un esempio concreto, le oscillazioni del prezzo del grano possono dipendere oggi non soltanto da fattori reali relativi al mercato del grano – un calo nella domanda, una carestia – ma anche, in modo più pesante e repentino, dall’andamento del mercato dei derivati sul grano. Ossia, in buona parte, da scommesse degli speculatori che utilizzano il grano per le stesse finalità per cui uno scommettitore, in un ippodromo, utilizzerebbe i cavalli. La differenza è che, dagli esiti del mercato del grano, dipendono le vite di milioni di agricoltori, il potere d’acquisto dei cittadini, spesso anche le sorti di interi Paesi. La maggior parte della ricchezza in circolazione oggi è formata da dati informatici che si muovono a velocità folle da una parte all’altra del globo. Nel 2007, appena prima del collasso, il valore dei contratti derivati in circolazione era pari a circa dodici volte quello del pil mondiale. Le cinque maggiori banche americane, ancora oggi, detengono derivati per circa 200mila miliardi di dollari, una cifra di 100 volte superiore a quella del debito pubblico italiano. Quest’immensa ricchezza fittizia, e rigorosamente privata, è frutto dello scollamento fra la finanza e le attività reali. In un’economia che non può più crescere – poiché crescere indefinitamente non è il destino della produzione – si sono creati strumenti finanziari sempre più complessi per permettere al capitale di continuare a far profitti a prescindere da quest’ultima. Non solo le banche d’affari, ma anche tutte le grandi imprese, che dovrebbero in teoria avere un risparmio negativo (farsi prestare i soldi per investirli nella produzione), hanno messo in piedi attività finanziarie parallele per dirottarvi una buona parte degli utili, ottenendo rendite altrimenti impossibili nell’economia reale. Grazie alla cartolarizzazione, le attività rischiose vengono poi distribuite fra i più vari operatori, con meccanismi che di fatto, invece di ridurre il rischio, lo nascondono e lo moltiplicano.
La finanziarizzazione dell’economia, lungi dall’essere uno sviluppo naturale del capitalismo, è il frutto di un chiaro progetto politico teso a garantire l’unico diritto universale globalmente riconosciuto: la libertà del capitale di realizzare profitti, a qualsiasi costo. Questo progetto, iniziato negli anni Ottanta, ha trovato una giustificazione sociale nel pensiero neoliberale, che descrive il mercato come capace di autoregolarsi portando al bene collettivo. Solo con la crisi dei subprime, che ha trascinato il mondo nella Grande Recessione, siamo stati costretti a puntare i riflettori sui problemi della finanza. Una raffinatissima operazione di maquillage è però riuscita a far passare una crisi dovuta all’ipertrofia del debito privato come un problema di finanze pubbliche. Il debito pubblico è diventato insostenibile non per l’aumento improvviso della spesa sociale – come se scuole ed ospedali fossero spuntati a iosa negli anni pre-crisi – bensì per gli sconquassi creati dall’ipertrofia della finanza privata. Sconquassi e fallimenti privati appianati poi, sistematicamente, ricorrendo alle finanze pubbliche degli Stati, nell’ormai classico gioco del socializzare le perdite privatizzando i profitti. Lo smantellamento dello Stato sociale in Europa ha permesso inoltre alla finanza privata di asservire ai suoi scopi un insieme crescente risorse – dai fondi pensione alle assicurazioni sanitarie – tradizionalmente gestite in modo pubblico. Dopo il crollo del 2008, che avrebbe dovuto provocare una riscrittura completa delle regole finanziarie, i mercati hanno ripreso la loro crescita con le stesse perverse modalità e le stesse, criminogene, (de)regolamentazioni. Il grafico seguente, relativo agli Stati Uniti, mostra chiaramente come lo scollamento fra economia e finanza sia continuato a crescere indisturbato dal 2008 ad oggi.
A
Le politiche monetarie espansive attuate da Fed e Bce dopo la crisi sono servite esattamente a questo scopo. Mentre l’economia reale prosegue nella sua stagnazione, lasciando sul campo sempre più macerie sociali, i miliardi di dollari pompati regolarmente nei caveau informatici delle banche finiscono tutti per alimentare la sala giochi della speculazione. I soldi fanno soldi dai soldi, senza che l’uomo della strada, in nessun modo, possa trarne beneficio. Eppure anche l’uomo della strada, depositando i suoi pochi risparmi nelle mani dei giocatori di roulette, contribuisce col sudore della fronte ad alimentare questo sistema. Se è vero che il gioco della speculazione è a somma zero, perché se qualcuno vince c’è qualcun altro, dall’altra parte del contratto, che per forza ci sta rimettendo, a rimetterci sempre e comunque è la collettività. Dagli umori del casinò globale dipendono infatti i fondamentali dell’economia, i salari dei lavoratori, i programmi politici e persino, come visto più volte, il destino dei governi. L’immensa sperequazione economica determinata da questo sistema genera una disparità insostenibile fra potere pubblico ed interessi privati. Inoltre, le gigantesche bolle finanziare create dalla speculazione potrebbero, come dieci anni fa, scoppiare da un momento all’altro facendo precipitare nel baratro un sistema già immerso in una lenta agonia.
Nello scontro politico sui problemi economici contemporanei ci si focalizza sempre sulla dialettica fra keynesismo e rigore, trascurando quasi completamente il punto critico fondamentale: la regolamentazione della finanza privata. Soltanto ridisegnando le regole, mettendo un forte freno ai movimenti di capitale, agli strumenti speculativi e al fenomeno connesso dei paradisi fiscali (27 miliardi di dollari rubati alla collettività ogni anno dalle banche europee), si potrà tornare a parlare di democrazia e di bene collettivo. Per farlo, occorre tanto la sovranità nazionale quanto un sistema di Paesi che, coordinando le regole comuni, escluda dai suoi scambi chi non si uniforma a quest’ultime. A questo scopo, ad esempio, dovrebbe servire quell’Europa dei Popoli di cui si parla tanto, e sempre, con finalità tutte retoriche.

giovedì 30 marzo 2017

Grecia. La Ue “aiuta” gli aeroporti, perché ora sono privati

Un sempio concreto di come funziona l'espopriazione del patrimonio pubblico da parte dell'Unione Europea. Quello che prima era vietatissimo – un aiuto pubblico per ammodernare il patrimonio infrastrutturale pubblico – ora è "normale" perché quel patrimonio è diventato privato (e, casualmente, tedesco). Gli aiuti sono sempre pubblici (li mette la Ue, attingendo dai fond versati dai tutti gli stati; quindi anche dalla Grecia!), però vanno a foraggiare imprese dedicate al profitto.
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280 milioni dal Piano Juncker per gli aeroporti che Atene è stata costretta a privatizzare
La Commissione europea ha destinato 280 milioni a 14 aeroporti greci, gli stessi che Atene era stata costretta a privatizzare nell’estate del 2015 in seguito al Terzo Memorandum stipulato con i creditori. La Commissione europea ha spiegato che il Piano Juncker, il programma di investimenti europei che porta il nome dell’attuale presidente della Commissione, supporterà un prestito da parte della Banca europea per gli investimenti (Bei) per finanziare la modernizzazione degli aeroporti regionali in questione.
La Grecia potrà beneficiare di un investimento di quasi 300 milioni di euro per mettere a nuovo i suoi principali aeroporti. Peccato che tali impianti non siano più suoi da diverso tempo. Nell’agosto del 2015 il governo guidato da Alexis Tsipras privatizzò i 14 aeroporti regionali che ora beneficeranno dell’aiuto del Piano Juncker, dandoli in concessione per 40 anni ad una joint venture formata da una compagnia tedesca la Fraport e dai greci del gruppo Copelouzos. La nuova società, denominata Fraport Greece aveva acquistato gli aeroporti versando ad Atene la somma di 1,23 miliardi di euro, la più grande concessione mai registrata nella storia del Paese ellenico.
“Le infrastrutture moderne giocheranno un ruolo cruciale nel supportare il recupero economico della Grecia. Questo richiede che l’investimento sostenuto realizzi il suo pieno potenziale nel creare impieghi e crescita”, ha commentato Pierre Moscovici, commissario europei per gli affari economici. La Commissione però è accorsa in sostegno degli aeroporti greci soltanto dopo che questi erano stati privatizzati – peraltro a beneficio di una compagnia di un altro Stato Ue come la Germania. Il portavoce della Commissione Margaritis Schinas ha confermato che gli investimenti riguarderanno i famosi 14 aeroporti ceduti alla Fraport, aggiungendo che “si tratta di un atto particolarmente importante per la Grecia, un Paese che ospita più di un milione di turisti ogni anno”.
Il prestito della Bei verrà usato per finanziare gli immediati lavori di sviluppo dei 14 aeroporti, tra cui la ristrutturazione e l’ammodernamento dei terminal, il miglioramento della sicurezza e delle piste di atterraggio. Gli aeroporti in questione sono localizzati ad Aktion, Creta, Kavala, Kefalonia, Corfù, Kos, Mitilini, Mykonos, Rodi, Samos, Santorini, Skiathos, Thessaloniki e Zacinto. In totale queste strutture hanno servito circa 25,2 milioni di passeggeri nel 2016.

mercoledì 29 marzo 2017

FT: GLI INVESTITORI COMINCIANO A SCROLLARSI L’ITALIA DI DOSSO

I movimenti dei credit default swaps [derivati che assicurano contro l’eventualità di default, NdT] suggeriscono preoccupazioni sulle derive politiche anti-euro in Italia.
Nel luglio 2011 uno speciale incantesimo si impossessò di alcuni membri della comunità finanziaria di New York. Se foste entrati in un ufficio di Manhattan aspettandovi di discutere del mercato azionario americano con un investitore che detiene solo fondi di investimento, vi sareste accorti che egli in realtà aveva la mente fissa sul debito pubblico italiano.
Le vendite allo scoperto dei titoli di stato della terza maggiore economia dell’eurozona erano diventate così diffuse che anche i non-specialisti del debito avevano iniziato a notarle, e i costi crescenti per il governo italiano erano il segno di una crisi che si stava diffondendo e che avrebbe intrappolato molti paesi europei e le loro banche, minacciando infine lo stesso futuro dell’euro.
Le turbolenze politiche — una coalizione di governo che si dibatteva tra piani di austerità e accuse di corruzione — erano in rotta di collisione con la dura realtà economica del più grande stock di debito in Europa.
Quasi sei anni dopo, un governo provvisorio è incaricato di gestire la situazione, dopo che in dicembre Matteo Renzi ha rassegnato le dimissioni da Primo Ministro, con i populisti del Movimento 5 Stelle in testa ai sondaggi d’opinione. I rendimenti dei titoli a 10 anni sono di nuovo in salita, sebbene a un livello molto più basso di allora: dall’1,74 percento di inizio anno al 2,36 percento di lunedì.
La questione, per chi investe in titoli e ha la memoria lunga, è il perché di questa tendenza, e il quanto ancora i rendimenti possano aumentare, dato che i maggiori rendimenti spingono verso il basso il valore dei bond già esistenti, i quali offrono pagamenti di cedole che erano stati fissati al momento dell’emissione.
Una spiegazione rassicurante sarebbe l’aumento globale dei tassi di interesse dopo l’elezione di Donald Trump negli USA a novembre. Le condizioni economiche stanno migliorando in tutta Europa, Italia inclusa, e i segni della ripresa dell’inflazione potrebbero portare a dei cambiamenti nelle politiche monetarie determinanti per gli oneri finanziari del debito.
La Banca Centrale Europea ad aprile ridurrà la quantità di titoli acquistati da 80 miliardi di euro al mese a 60 miliardi, e molti investitori hanno iniziato a discutere sul quando verranno applicate ulteriori riduzioni a questo programma, che era stato ideato per abbattere i tassi di interesse pagati dai governi e dalle imprese dell’eurozona.
John Wraith, esperto di tassi di interesse per UBS, dice di aspettarsi l’annuncio di ulteriori riduzioni nell’acquisto di titoli già da settembre, e i mercati hanno già iniziato ad anticiparne gli effetti.
Secondo Tradeweb la differenza, o spread, tra rendimenti dei titoli italiani e tedeschi questa settimana ha raggiunto il massimo degli ultimi tre anni, collocandosi a 2,02 punti percentuali. Il debito tedesco è considerato il più sicuro d’Europa, mentre restano delle preoccupazioni sulla sostenibilità dello stock di debito italiano. “La BCE è riuscita a far dileguare queste preoccupazioni schiacciando gli spread” dice Wraith.
Eppure alcuni sostengono che i rendimenti più alti non siano causati dalle prospettive di minore stimolo, suggerendo che i cambiamenti avvengano indipendentemente dalla politica della BCE.
Erjon Satko, esperto della Bank of America Merril Lynch, si concentra sul mercato dei credit default swap (CDS), che sono una forma di assicurazione finanziaria. In teoria la differenza di prezzo tra CDS e buoni del tesoro dovrebbe essere minima, dato che entrambi riflettono una valutazione su quanto il paese sia in grado di adempiere alle proprie obbligazioni finanziarie, e in effetti nel 2013 e 2014 era più o meno così.
L’acquisto di titoli da parte della BCE ha però fatto divergere i prezzi di CDS e titoli del debito. Se fosse vero che l’influenza delle autorità monetarie sul prezzo dei titoli sta diminuendo, allora la divergenza dovrebbe ridursi, ma finora questo non è successo.
Al contrario, le variazioni dei rendimenti dei titoli italiani, dice Satko, “dipendono dalle condizioni politiche interne. Se guardate il sistema politico italiano, vedrete che nelle prossime elezioni avrete un governo molto diviso, nel quale sarà molto difficile prendere delle decisioni.
“Potrebbe anche trattarsi delle imminenti elezioni presidenziali in Francia, dove la promessa fatta dal candidato di destra, Marine Le Pen, di portare il paese fuori dall’euro, ha attirato molto l’attenzione degli investitori. Ma l’Italia potrebbe tornare di nuovo al centro dell’attenzione in maggio, non appena il Presidente francese sarà stato eletto.
“Sono più preoccupato per l’Italia che per la Francia“, dice Andrew Bosomworth, responsabile della gestione del portafoglio di Pimco, azienda di investimenti obbligazionari.
I partiti euroscettici non includono solo il Movimento 5 Stelle, ma anche la Lega Nord, Fratelli d’Italia e perfino il partito dell’ex Primo Ministro Silvio Berlusconi.
Il crescente scetticismo è una ragione di preoccupazione per gli investitori, dice Bosomworth, a causa delle “condizioni economiche del paese che ne stanno alla base, la bassa crescita che rende meno sostenibile la posizione dell’Italia all’interno dell’eurozona“.
Se si aggiusta la crescita per l’inflazione e la variazione demografica, l’economia italiana non cresce più da quando è entrata nell’euro, nel 1999. Il tasso di disoccupazione è all’11,9 percento, ai livelli del 1998, mentre la disoccupazione giovanile e i crediti in sofferenza detenuti dalle banche sono aumentati.
Una moneta più leggera potrebbe essere di aiuto, ma si tratta di un rimedio non disponibile per i paesi membri dell’euro. I maggiori costi del debito, intanto, complicano i problemi per un paese dove il debito conta per più del 130% del prodotto interno lordo.
Per ora le banche riportano che ci sono relativamente pochi investitori che vendono allo scoperto il debito italiano. Non è strettamente necessario che gli investitori scommettano contro i titoli italiani per spingerne in alto i rendimenti; è sufficiente che essi preferiscano fare altri investimenti.
Jim Leavis, responsabile dei redditi fissi per gli investimenti M&G, dice che “l’Italia è stato il maggiore beneficiario del quantitative easing“, e che gli unici titoli pubblici italiani che ha scelto di acquistare, per il momento, giungono a maturazione quest’anno. “Non penso di riuscire a capire nulla delle prospettive della politica italiana“, dice.

martedì 28 marzo 2017

L’impero del terrore fatto in casa, il lungo sonno della verità

Un vecchio gioco sporco, sempre uguale. Guerra, o surrogati: crisi, esodi, dittature amiche, terrorismo. Cambia l’identità delle vittime – ieri militari, oggi civili – nonché la scala di grandezza dei danni collaterali, la quantità di morte e di paura, una capitale europea militarizzata o città come Gaza, come Fallujah, rase al suolo insieme ai loro abitanti, donne e bambini, bruciati vivi con il fosforo bianco. L’importante, poi, è dimenticare tutto. Alla fine, la colpa deve ricadere sul terrorista, ormai esclusivamente islamico, “radicalizzato”, immancabilmente sfuggito all’occhiuta sorveglianza della Cia, dell’Fbi, del Mossad, dell’Mi6 inglese, della Dgse francese. Il mostro è l’ex delinquente “coltivato” perché ricattabile, o addirittura spedito al fronte, armi in pugno. Non importa se poi si impone il segreto militare (Charlie Hebdo) bloccando le indagini dopo la scoperta del legame tra il commando, l’armaiolo e i servizi segreti. Non importa se salta in aria un ambasciatore americano (Bengasi) insieme alle ombre imbarazzanti sul trasferimento in Siria di guerriglieri e armi chimiche, all’epoca in cui gli ordini partivano da Hillary Clinton, che poi cancellò migliaia di email. Non importa, ai media mainstream, ricordare quello che è appenna successo: il pubblico, semplicemente, non deve ricordare, non deve fare collegamenti.
Non deve ricordare, il pubblico, che l’abominevole Isis nasce nell’Iraq spianato dalle bombe e interamente controllato dagli Usa. Non si deve ricordare che il fantomatico “califfo” Al-Baghdadi venne stranamente scarcerato nel 2009 dal centro di Esercitazione antiterrorismo a Londradetenzione di Camp Bucca, per ordini superiori, tra lo sconcerto dei carcerieri. Né si devono riproporre le foto che, qualche anno dopo, lo ritraggono in Siria in compagnia del senatore John McCain, inviato speciale di Obama per sostenere la “resistenza democratica” contro il brutale regime di Assad, resistenza affidata ai “moderati” tagliagole libici, sauditi, giordani, iracheni e anche caucasici, ceceni, cioè quasi mai siriani, tutti terroristi di professione, fraternamente accuditi, armati e protetti dalla Nato, attraverso la Turchia e Israele, nonché le petro-dittature del Golfo. No, il pubblico non deve ricordare chi ha fabbricato l’Isis, come e quando, sulla base di quali macerie, con quali soldi, con quale logistica, con quali armamenti, dopo quali rivoluzioni colorate.
Il pubblico occidentale deve solo tremare di paura davanti al fantasma del commando kamikaze con passaporto al seguito da lasciare in bella vista, deve tremare davanti al pericolo incombente del lupo solitario che colpisce con il Tir, il camion, il Suv, per poi essere immediatamente ucciso e quindi messo a tacere, in attesa del killer seguente, già in agguato, pronto a colpire ancora, alla cieca, la folla inerme – mai un obiettivo “nemico”, solo e sempre la folla inerme, cioè noi. La cattiva notizia, tra le tante, è che il mondo ormai «è in mano a cinquanta pazzi, che continuano a giocare col fuoco, fabbricando nemici di comodo telecomandati, senza più capire che il gioco si va facendo pericoloso, fuori controllo, perché gli altri – tutti gli altri, a cominciare da Russia e Cina – non consentiranno più che il gioco duri all’infinito, sulla nostra pelle». Lo ha ripetuto Giulietto Chiesa a Londra, in un dibattito con Gioele Magaldi sulla natura eversiva del potere oligarchico che domina in pianeta ormai da decenni, spingendo sette miliardi di persone in un vicolo cieco – militare, energetico, economico, finanziario, ecologico, climatico.
Uno scenario che è tragicamente sotto gli occhi di chi vuol vederlo: dove non cadono bombe, piovono i missili di una crisi senza fine, la finanza impazzita e l’economia in pezzi, l’Europa devastata dall’euro e presa d’assalto da milioni di disperati, sotto la regia di un pugno di banchieri e multinazionali. Mentre Magaldi scommette su una riscossa democratica dell’Occidente fondata sulla riconquista della sovranità impugnando le armi del socialismo liberale roosveltiano, Chiesa fa un’altra proposta, preliminare: costruire un think-tank internazionale, un trust di cervelli, che metta insieme le migliori menti del mondo, non solo americane ed europee ma anche russe, cinesi, indiane, africane, per avere una fotografia diversa da quella, unilaterale e integralmente falsa, proposta dal mainstream occidentale. Una lettura diversa della crisi, un’ottica multipolare, come unica Giulietto Chiesapossibilità per poi trovare, domani, soluzioni praticabili, lontano dalla “guerra infinita” che Giulietto Chiesa vide arrivare all’indomani del «colpo di Stato mondiale chiamato 11 Settembre».
Uno spartiacque fatale, quello dell’attacco alle Torri: da allora, l’élite neocon ha imboccato la via della strategia della tensione, senza più abbandonarla. Iraq, Afghanistan, Yemen e Sudan, Somalia, Georgia, Egitto, Libia, Siria. Una strategia sanguinosa, stragista, preparata dalle “fake news” di regime: le bugie sulle Torri Gemelle, le favole sulle armi di distruzione di Saddam, le stragi inesistenti attribuite a Gheddafi, l’attacco coi gas attribuito ad Assad. Una strategia feroce, fondata sulla grande menzogna del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, da Al-Qaeda all’Isis, per innescare campagne militari destinate a mettere le mani sull’intero pianeta, abrogando diritti in Occidente e scatenando una guerra dopo l’altra nel resto del mondo. Ora siamo all’epilogo evocato dal Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, che prima ancora del Duemila annunciò che nel 2017 il nemico strategico degli Usa sarebbe stata la Cina. Quando cadde il Muro di Berlino, Gorbaciov sognava ad occhi aperti un mondo diverso, finalmente pacificato. Oggi siamo all’autismo del terrore fabbricato in casa, da un’élite che occulta le notizie e fa spiare miliardi di persone tramite Google, Facebook e le app dello smartphone. Un’oligarchia globale decisa a tutto, pronta a investire ormai solo sull’arma più antica, quella della paura, che nasce dalla manipolazione delle notizie, dal sonno della verità.

lunedì 27 marzo 2017

Il decreto Minniti sulla sicurezza urbana: gastrolegislatori e acritici digestori

Il Ministro Minniti, rispondendo al question time della Camera sul neonato decreto legge sulla "sicurezza urbana", confessava un calo del 9,4% dei reati nell'ultimo anno. Tuttavia, sostiene il ministro, la "percezione" di insicurezza è aumentata.
La percezione non è un dato oggettivo. Chi la misura? Minniti si mette un termometro tutte le sere? Lo mette a qualcun'altro?
Semmai si potesse misurare, o fosse utile misurare un dato soggettivo, tale "percezione" non sarebbe altro che un risultato delle campagne di stampa isteriche dei media di regime, i quali hanno interesse a distrarre l'attenzione dal ladro principale: sono i monopoli globali che rubano ogni giorno di più la ricchezza a chi realmente la produce.
La "percezione" è il frutto di questa isteria disseminata sul fertile e disponibile compost di individualismo, mancanza di capacità critica e profonda ignoranza. Il padrone passa poi felice a raccoglierne ed incassare i frutti. La "percezione", come ha sostenuto felicemente qualcuno, è sono i rumori del ventre molle del Paese, unica voce a cui risponde un'operazione securitaria come il decreto Minniti.
Hai voglia a parlare di massimi sistemi e dividere le carriere dei magistrati, quando l'ultima delle oscure autorità può fare carta straccia dei diritti degli emarginati e di chi prova a lottare contro le diseguaglianze sociali.
Si pensi, ad esempio, all'articolo 9 di questo decreto, dall'ineffabile rubrica "Misure a tutela del decoro di particolari luoghi": "Fatto salvo quanto previsto dalla vigente normativa a tutela delle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze, chiunque ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilita' e fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti, e' soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300. Contestualmente alla rilevazione della condotta illecita, al trasgressore viene ordinato, nelle forme e con le modalità di cui all'articolo 10, l'allontanamento dal luogo in cui e' stato commesso il fatto".
Dal momento che le infrastrutture italiane non appaiono (nemmeno nelle isteriche prospettazione dei media) essere perennemente afflitte da delinquenti che le occupano ovvero da fastidiosi ed indecorosi elemosinanti, il pensiero malizioso del decreto non può che rivolgersi alle manifestazioni del conflitto sociale ed alle forme di sciopero ed occupazione che dovessero anche solamente interessare un viale di accesso ad un giardino od anche solo un'aiuola. La scusa è buona per autorizzare (art. 10) la Polizia a reprimere, sanzionare, emettere fogli di via e financo veri e propri DASPO, segnalazioni ai servizi socio-sanitari, perchè manifestare può nuocere alla salute. Misure liberticide imposte dalle questure che possono durare fino a due anni e in caso di condanna per reati (anche solo di occupazione abusiva) il giudice può subordinare la sospensione condizionale concedibile ad un incensurato "all'imposizione del divieto di accedere a luoghi o aree specificamente individuati."
Insomma, il tentativo securitario di criminalizzare, reprimere, prevenire ogni efficace forma di conflitto sociale e manifestazione del pensiero, facilmente ora inquadrabile come disturbo alla fruibilità delle infrastrutture e financo (questo è veramente il massimo) disturbo al "decoro urbano".
Tutto ciò in un Paese che vede - lo dice il Ministro - un calo di quasi dieci punti percentuali del numero di reati... Piacerebbe vedere con quale bronzea maschera i rappresentanti del governo muoveranno censura alle misure liberticide della paradittatura turca di Erdogan od ai bandi razziali della chioma d'oltreoceano.
Non voglia che ad esprimersi sia proprio questo Ministro, in carica durante una delle più violente e discutibili repressioni del popolo partenopeo, il quale ha osato contestare le provocazioni razziste ad orologeria messe in opera da un parlamentare europeo che non brilla per assiduità a presenziare e lavorare nell'assemblea dalla quale incassa le indennità. Tutto sommato, la tempistica semina pure gravi indizi che questa grida sia figlia benvoluta di quella discutibile operazione repressiva.
La "percezione" quand'anche non ci fosse, o fosse troppo debole, si può opportunamente creare od amplificare. Di tecnici del suono, il regime ne dispone.
La legislazione per "percezione" non può che definirsi come l'ultima spudorata barbarie di un capitalismo ormai putrescente e puteolente, il quale desidera silenziare e porre fuorilegge la povertà e la diseguaglianza che per primo crea.
Un tempo la si nascondeva dentro un politichese ipocrita.
Oggi la barbarie può venire ostentata, così come ci si vanta, in ogni formazione politica che popoli il Parlamento, di triturare ogni regola di partecipazione democratica "per il bene della causa" o "in virtù della fiducia".
Non v'è dubbio, però, che chi digerisce siffatta zuppa sia colpevole tanto quanto i propri dominanti ed i loro servi. La cosa stupefacente della nostra società, iperbombardata di informazioni emozionali, è lo sfratto esecutivo dato alla ragione od allo spirito critico, sfratto che finisce per dar cittadinanza ad una letale sicumera. Joyce ne fuggirebbe. Noi dobbiamo viverci dentro, perchè non esiste alcuna Trieste dove poter espatriare. E non sarebbe nemmeno giusto.
Per questo occorre dichiarare ferma opposizione costante e spietata ad entrambe le categorie: gastrolegislatori ed acritici digestori.

venerdì 24 marzo 2017

IL PARLAMENTO EUROPEO CENSURA LA SUA STESSA LIBERTÀ DI PAROLA

Il parlamento europeo ha introdotto una nuova norma procedurale che consente al moderatore di un dibattito di interrompere la trasmissione dal vivo di un parlamentare europeo “in caso di linguaggio o comportamento diffamatorio, razzista o xenofobo di un suo membro”. Inoltre, il presidente del parlamento può anche “decidere di eliminare dalla registrazione audiovisiva del procedimento le parti del discorso di un membro del parlamento che contengono linguaggio diffamatorio, razzista o xenofobo”.
Nessuno però si è preoccupato di definire in che cosa consista un “linguaggio o comportamento diffamatorio, razzista o xenofobo”. Questa omissione significa che il moderatore di ogni dibattito al parlamento europeo è libero di decidere, senza alcuna linea guida né criterio oggettivo, se le affermazioni del parlamentari sono “diffamatorie, razziste o xenofobe”. La pena per i colpevoli a quanto sembra può raggiungere i 9.000 euro.
“C’è stato un numero crescente di casi di politici che dicono cose inaccettabili all’interno della normale discussione e del dibattito parlamentare”, ha affermato il parlamentare UE inglese Richard Corbett, che ha difeso la nuova regola, senza peraltro specificare che cosa ritiene “inaccettabile”.
Nel giugno 2016 il presidente dell’autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha tenuto un discorso al parlamento europeo, nel quale ha rispolverato vecchie calunnie anti-semite, come la falsa accusa a carico dei rabbini di Israele di avere chiesto al governo israeliano di avvelenare l’acqua usata dagli arabi palestinesi. Un discorso così chiaramente provocatorio e anti-semita non solo è stato consentito dai sensibili e “anti-razzisti” parlamentari all’interno del parlamento; ha ricevuto addirittura una standing ovation. Evidentemente le spericolate calunnie anti-semite pronunciate dagli arabi non costituiscono “cose inaccettabili all’interno della normale discussione e dibattito parlamentare”.
Il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas riceve una standing ovation al Parlamento Europeo a Bruxelles il 23 giugno 2016, dopo aver falsamente sostenuto nel suo discorso che i rabbini di Israele chiedevano di avvelenare l’acqua dei Palestinesi. Più tardi, Abbas ha ritrattato e ammesso che le sue affermazioni erano false (fonte dell’immagine: Parlamento Europeo)
Sembra che il parlamento europeo non si sia nemmeno degnato di pubblicizzare la sua nuova regola procedurale; è stata resa pubblica dal giornale spagnolo La Vanguardia. Sembra che gli elettori non dovessero sapere quello che può essere loro impedito di ascoltare nelle trasmissioni in diretta dei parlamentari che hanno eletto per rappresentarli nella UE, se il moderatore del dibattito ritiene che – a suo giudizio – quello che viene detto è “razzista, diffamatorio o xenofobo”.
Il parlamento europeo è l’unica istituzione democraticamente eletta della UE. Helmut Sholz, del partito tedesco di sinistra Die Linke, ha dichiarato che i legislatori UE hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni su come dovrebbe funzionare l’Europa: “Non si può limitare o negare questo diritto”. Be’, certo, possono esprimerle (ma fino a quando?), peccato solo che nessuno fuori dal parlamento possa sentirli.
La regola colpisce nel profondo il diritto di parola, in particolare quello di politici eletti, che la Corte europea dei Diritti umani ha ritenuto, nella sua pratica, di dover proteggere in maniera particolare. I membri del parlamento europeo sono persone che sono state elette per dar voce agli elettori all’interno delle istituzioni dell’Unione europea. Limitare la loro libertà di parola è antidemocratico, preoccupante e pericolosamente Orwelliano.
Questa regola non può che avere un effetto limitante sulla libertà di parola del parlamento europeo e si rivelerà uno strumento efficace per mettere a tacere i parlamentari che non seguono la narrazione politicamente corretta dell’UE.
Negli ultimi tempi il parlamento europeo sembra avere ingaggiato una guerra contro la libertà di parola. All’inizio di marzo, ha tolto l’immunità parlamentare alla candidata alla presidenza francese Marine Le Pen. Il suo crimine? Avere pubblicato su Twitter nel 2015 tre immagini di esecuzioni dell’ISIS. In Francia la “pubblicazione di immagini violente” costituisce un comportamento criminale, cosa che può comportare fino a tre anni di prigione e a una multa di 75.000 euro. Togliendole l’immunità mentre è in corsa per diventare presidente francese, il parlamento europeo ha inviato un segnale chiaro: pubblicare le immagini e l’orribile verità dei crimini dell’ISIS, anziché essere visto come un avvertimento di quello che potrebbe presto avvenire in Europa, deve invece essere punito.
Si tratta di un ben strano segnale da dare, specialmente alle vittime cristiane e Yazide dell’ISIS, che sono per lo più ignorate dall’Unione Europea. I parlamentari europei, evidentemente, sono troppo sensibili per sopportare le immagini degli assassinii di persone indifese in Medio Oriente, e sono più preoccupati di perseguire coloro che le diffondono, come Marine Le Pen.
Quindi il politicamente corretto, ormai diventato la “polizia religiosa” del dibattito politico, non solo si è impadronito dei media e dei discorsi accademici; anche i parlamentari eletti ormai devono mantenersi sulla sua linea, altrimenti vengono letteralmente oscurati. Nessuno ha fermato il parlamento europeo mentre approvava questa regola antidemocratica contro la libertà di parola. Perché nessuno dei 751 europarlamentari ha puntato il dito contro la norma, prima che venisse approvata definitivamente? E ancora più importante: a che punto si fermerà questo impulso chiaramente totalitarista, e chi lo fermerà?

giovedì 23 marzo 2017

Gentiloni abolisce i voucher e (forse) salta il fosso dei referendum

I voucher sono stati aboliti. Quelli già acquistati si potranno utilizzare fino al 31 dicembre 2017, “per evitare impatti negativi”. Il decreto dell’esecutivo, varato dal Consiglio dei Ministri, ha abrogato le norme sui voucher e sugli appalti, ripristinando la responsabilità solidale e accogliendo la proposta Pd emersa dalla commissione Lavoro della Camera e votata anche da M5S, MDP e Sinistra italiana.
Il premier Gentiloni e il Governo hanno preferito evitare l’insidia della doppia consultazione popolare voluta dalla Cgil “nella consapevolezza che l’Italia non ha certo bisogno nei prossimi mesi di una campagna elettorale su temi come questi”, come ha spiegato il successore di Renzi a Palazzo Chigi.
Il decreto legge è indubbiamente un passo deciso ma non basta per evitare un referendum. Occorre una legge approvata che sostituisca quella precedente e che consenta alla Corte di ritenere il referendum superato.
Il cambio di rotta del governo ha profondamente turbato i sostenitori di queste misure. Il segretario di “Scelta Civica”, Enrico Zanetti, ha bocciato la decisione dell’esecutivo, bollandola come “priva di dignità politica”.
Per l’ex viceministro dell’Economia l’esecutivo sta facendo il “gioco delle tre carte sulle spalle delle famiglie italiane e delle piccole aziende, soprattutto del settore agricolo”.
Il capogruppo di Area Popolare, Maurizio Lupi, ha già annunciato il voto contrario del suo gruppo: “Abrogare i voucher per evitare un referendum è il classico caso in cui si butta via il bambino con l’acqua sporca. È come eliminare i semafori perché c’è chi passa col rosso”.
Il presidente della commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi, ha parlato di “balzo indietro” e di “schizofrenia legislativa”.
Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ha fatto sapere che sarebbe preferibile affrontare la prova del referendum. Contraria anche Confcommercio, che l’ha definita una vicenda “dall’epilogo paradossale”.
Esulta, invece, il leader della Fiom, Maurizio Landini, tra i primi promotori dei referendum (compreso quello sull’articolo 18, non ammesso dalla Corte costituzionale).
Landini ha sottolineato anche l’importanza del quesito referendario per la reintroduzione della responsabilità solidale negli appalti, che riguarda “milioni di persone”.
Rispetto all’allarme lanciato da molti, secondo i quali la cancellazione dei voucher potrebbe far aumentare il lavoro nero, il Presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha fatto notare che i buoni lavoro “sembrano aver dato un contributo relativo e molto limitato all’emersione del sommerso”, come aveva spiegato già in audizione in Parlamento a febbraio.
“E’ evidente – ha precisato Boeri – che c’è stato un abuso però ci sono tanti modi per tenere la situazione sotto controllo e anche noi ci siamo candidati per fare i controlli”.
Secondo il presidente dell’Inps, però, “probabilmente bisognerà trovare un altro strumento” per venire incontro alle esigenze delle piccole imprese.
C’è chi parla di strappo di Gentiloni con il suo predecessore, chi la vede come una furbata e chi, infine, parla di trappolone dello stesso Renzi per rendere inviso Gentiloni a Confindustria, ai centristi e a chi ha ispirato e sostenuto, in Italia e in Europa, le scelte renziane che, in questi anni, hanno contribuito a scaricare costi e contraddizioni della crisi sul mondo del lavoro.

mercoledì 22 marzo 2017

Amazon city

Nel luglio 2016, Matteo Renzi ha invitato a pranzo Jeff Bezos, fondatore e presidente di Amazon (pappa al pomodoro, filetto, gelato alla crema e vini tutti toscani) e, dopo averlo portato a spasso al museo, ha così commentato l’incontro: «bello discutere con Jeff Bezos a Firenze e belli i progetti di Amazon per l’Italia».
Tra i progetti che hanno suscitato l’ammirazione dell’ex capo del governo figurano i due centri di distribuzione, rispettivamente a Passo Corese, ad una trentina di chilometri da Roma, e a Vercelli, con i quali la multinazionale del commercio online si appresta a consolidare la sua presenza sul suolo italiano, dove è sbarcata nel 2011 insediandosi a Piacenza, nel polo logistico di Castel San Giovanni.
Le tappe del processo che porta alla realizzazione degli enormi magazzini sono ovunque le stesse. La location viene scelta fra un certo numero di città che lottano fra di loro per attrarre l’investitore e allo scopo offrono infrastrutture, vantaggi economici e rilassamento di norme e regole. Nelle trattative tra istituzioni locali e capitale privato, i cui termini non vengono resi noti ai cittadini, sono coinvolte grandi società immobiliari e di costruzione che si accaparrano i terreni, realizzano le opere e le affittano ad Amazon. Accortamente, i pubblici amministratori lasciano trapelare solo indiscrezioni riguardanti l’arrivo miracoloso di migliaia di posti di lavoro, il che stronca ogni possibile opposizione e fa si che i progetti vengano approvati senza una realistica valutazione dei danni ambientali e sociali che la costruzione di queste e vere e proprie città per le merci comporta.
Lo stabilimento di Passo Corese, alto quindici metri, occuperà cento dieci mila metri quadrati su una superficie fondiaria di duecento venti mila, all’interno dell’omonimo parco di sviluppo industriale istituto dalla provincia di Rieti per mettere a profitto una “naturale vocazione alla logistica, a servizio del sistema-Roma, ma anche dell’intera Italia centrale e meridionale. Un investimento reale, che punta sulla crescita economica locale per creare lavoro, specie per i più giovani.”
L’area del parco industriale coincide con quella che avrebbe dovuto essere riservata al parco archeologico della Sabina, di fatto cancellato, malgrado le proteste di alcuni gruppi di cittadini e del FAI che, nel 2011, aveva segnalato alla sopraintendenza per i beni archeologici del Lazio i rischi di danni ambientali e deturpazione del paesaggio. La sopraintendente aveva risposto che «la normativa vigente permette di contemperare le istanze di tutela del patrimonio archeologico con la realizzazione dell’intervento che risulta provvisto delle necessarie autorizzazioni». I lavori per il parco industriale sono proceduti a rilento per molti anni - la vicenda è stata oggetto anche di una delle inchieste del programma televisivo Report - ma ora, grazie al bel progetto di Amazon, il cantiere è in piena attività.
Subito dopo il vertice di Firenze, Amazon e la regione Lazio hanno sottoscritto un accordo per dare il via a "uno dei più grandi progetti di sviluppo del territorio". La regione ha messo “nero su bianco gli impegni al fine di dotare l’area di tutte le infrastrutture ed i servizi necessari all’arrivo di un gigante come Amazon”. Più specificamente, si è impegnata "a investire sulle infrastrutture materiali e immateriali e a impartire direttive ai centri per l'impiego presenti nella provincie di Rieti e Roma affinché promuovano le offerte di lavoro, consigliando gli strumenti legislativi per procedere all'assunzione del personale e prevedendo altresì agevolazioni per la formazione”.
La regione si è altresì impegnata a incrementare il servizio pubblico di trasporto ferroviario e su gomma dalle città di Roma e Rieti a quella di Fara in Sabina; a realizzare un percorso ciclo-pedonale protetto tra la stazione e il parco industriale, istituendo anche un sistema di bike sharing, e ponendo a disposizione, in via sperimentale, due postazioni di car sharing; a stanziare le risorse necessarie per consentire al consorzio di avviare un parcheggio attrezzato per i camion che operano nel parco industriale, munito di servizi per autisti (bagni e docce). E’ prevista anche la costruzione di una palestra, un mini-market, uno sportello bancario e un bar, nonché la modernizzazione della stazione ferroviaria di Fara in Sabina, con l'incremento degli sportelli automatici e dei collegamenti con la rete ferroviaria laziale, anche in periodi notturni.
Inoltre, le parti pubbliche dovranno completare la bretella di collegamento tra la strada statale Salaria e la strada regionale di Passo Corese. Per questo, “senza oneri alle parti private”, la regione s'impegna a concedere un finanziamento affinché venga realizzato, entro il 31 dicembre 2017, il raddoppio della strada regionale nel tratto compreso tra la bretella di collegamento e l'asse di penetrazione all'area del polo.
Gli edifici per Amazon verranno costruiti dalla Vailog real estate investment sui terreni che, dopo essere stati espropriati al valore di suolo agricolo, risultano di proprietà della SECI real estate (una branca del gruppo Maccaferri di Bologna) che fa parte della società per il parco industriale della Sabina spa, e verranno attrezzati con sistemi di gestione e movimentazione della merce robotizzati, automatizzati e standardizzati.
«Finalmente arriva il lavoro» è stato il commento entusiasta del presidente della regione Nicola Zingaretti, alla posa della prima pietra, il 10 febbraio 2017. Alla cerimonia è intervenuto anche il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio che ha detto: «la scelta di Amazon di continuare a investire sul nostro paese è la prova della nostra capacità di offrire una rete infrastrutturale e amministrazioni locali che funzionano». In passato, ha aggiunto «l'Italia è rimasta indietro nelle infrastrutture, anche perché la logistica non è mai stata al centro dell'attenzione. Ciò che serve sono investimenti accompagnati da una forte semplificazione burocratica in un quadro di scelte strategiche concrete. L'Italia è davvero la porta d'ingresso delle merci per l'Europa». «Oggi, e così nei prossimi anni» - ha concluso il ministro - «l'Italia è chiamata ad affrontare la sfida della crescita del commercio online anche ai fini dell'internazionalizzazione delle nostre imprese, e al centro di ciò deve esserci l'innovazione della logistica e l'ottimizzazione dei trasporti».
A conferma che l’Italia è stata scelta dalla multinazionale del commercio online come uno dei fronti di penetrazione in Europa, nel dicembre 2016 Amazon ha annunciato che costruirà un centro di distribuzione anche a Vercelli.
«Vercelli è, per noi, un posto strategicamente molto importante», ha detto Tareq Rajjal, il country manager di Amazon Italia. «Abbiamo l'autostrada vicino, che ci permette di essere ben connessi con il resto del paese, ma non solo. Noi siamo un network continentale, abbiamo 31 siti in tutto il contesto europeo e Vercelli sarà inserita in questa scacchiera, per noi l'Europa è un paese unico, e noi siamo un'unica city”.
Lo stabilimento occuperà cento mila metri quadrati di terreno agricolo. «La trattativa è stata gestita tutta da privati e i giochi sono ormai fatti. Il consiglio comunale ha concesso uno sconto sui terreni e la (tanto vituperata) macchina amministrativa ha fatto il suo lavoro», gongola la stampa locale. E a rassicurare Amazon, è intervenuto anche il presidente della regione Sergio Chiamparino che ha dichiarato «la regione considera l’investimento strategico per il territorio e si impegna a cooperare con Amazon in modo da creare e mantenere un ambiente positivo che permetta alle aziende di crescere, innovarsi ed espandersi».
La scelta di Vercelli è avvenuta dopo una fiera battaglia a colpi di sconti con Biella e Novara, al termine della quale i vincitori si vantano di essere «il luogo ideale, perché costiamo meno anche come oneri di concessione», e il Sole 24 ore ha incluso la città nella lista delle “grandi città della logistica”, lista la cui prima posizione è occupata da Piacenza, dove ormai un lavoratore su dieci è impiegato nella logistica.
Piacenza è stata la prima località italiana scelta da Amazon, perché offre “la possibilità di attingere a una forza lavoro di eccellenza, ottimi collegamenti con le principali autostrade, una valida collaborazione con il comune e i suoi enti”.
Avviato nel 2011 e più volte ampliato, anche il centro di distribuzione di Piacenza è di proprietà della società Vailog e si estende su circa cento mila metri quadrati. E’ stato oggetto di inchieste e denunce per le infami condizioni a cui sono sottoposti i lavoratori, il cui unico risultato è l’operazione Porte Aperte, cioè la possibilità per gli estranei di effettuare visite guidate al suo interno.
Oltre ai tre centri di distribuzione, Amazon ha in Italia un centro di servizio a Cagliari e una serie di magazzini e depositi in diverse località e, secondo “indiscrezioni”, sta cercando di farsi vendere dall’Enel alcune centrali elettriche in disuso per installarvi i suoi data center. Probabilmente ci riuscirà, grazie ai buoni rapporti che i padroni di Amazon hanno con il governo italiano, e soprattutto con Renzi che, nel febbraio del 2016, ha nominato Diego Piacentini, il vicepresidente della multinazionale, “commissario del governo per il digitale e l’innovazione”.

martedì 21 marzo 2017

Brexit, il Regno Unito avvierà le pratiche per l’uscita il 29 marzo

Il governo britannico ha annunciato nella mattinata di lunedì la data nella quale il Regno Unito farà richiesta ufficiale all’Unione Europea di tirarsi fuori dai trattati che sanciscono la partecipazione dell’UK all’Europa comunitaria.
Non ci sono state modifiche o rinvii, dunque, tuttavia per Londra non sarà un periodo semplice: oltre a dover trattare con gli Stati membri le condizioni della sua uscita dovrà affrontare anche le tensioni sul fronte interno, dove il Parlamento di Edimburgo ha già annunciato la volontà di indire un nuovo Referendum popolare sull’indipendenza della Scozia da Londra.
Decisione che nei giorni scorsi aveva portato con se non poche polemiche tra il premier Theresa May e il capo del governo scozzese, nonché leader del Partito Nazionale Scozzese, Nicola Sturgeon. In questo momento la leader dei tories avrebbe voluto evitare di affrontare la grana scozzese, “non è il momento per un nuovo Referendum” aveva dichiarato alla controparte di Edimburgo, ma la Sturgeon l’ha accusata di reprimere la libertà del popolo scozzese di decidere da solo cosa fare della propria sovranità.
La Scozia, infatti avrebbe molto da perdere da un allontanamento dal mercato unito europeo al quale è destinato il 16% delle proprie esportazioni (Germania, Francia, Olanda in primis). La questione indipendenza passa dunque in secondo piano. Gli scozzesi hanno votato per l’indipendenza appena tre anni fa, scegliendo, seppur con un risultato risicato, di restare nel Regno Unito. Difficile credere che ora abbiano cambiato idea e nessun leader politico rischierebbe di indire un nuovo Referendum ad una distanza temporale così breve se non credesse almeno di essere favorito.
Ma ora il referendum sulla Brexit ha rimescolato le carte: le regioni scozzesi furono le più favorevoli al ‘Remain’ nel referendum indetto da Cameron lo scorso giugno. Gli scozzesi sono così legati all’Europa unita che il giorno dopo la vittoria del Brexit il premier Sturgeon ha dato battaglia sul risultato della consultazione popolare, dichiarando che restare nell’UE sarebbe “più importante dell’indipendenza da Londra”, mentre adesso promette di spaccare il Regno Unito se non verrà accordato a Edimburgo un nuovo Referendum.

lunedì 20 marzo 2017

Merkel, Trump e i trattati che cambiano

Leggevo che i tedeschi minacciano di ricorrere alla World Trade Organisation (WTO) qualora Donald Trump imponga dazi sull'importazione di automobili tedesche negli USA.
Ho provato una certa sensazione di spaesamento, uguale a quando - un paio di mesi fa - ascoltai il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, mentre dichiarava al Parlamento Europeo che "l'Euro è irreversibile perché lo prevedono così i trattati".
Questa sensazione è dovuta al fatto che con queste dichiarazioni la dirigenza europea sembra imprigionata in una bolla temporanea, in un eterno presente immutabile.
In altri termini, queste dichiarazioni chiariscono che la dirigenza europea è priva di una pur minima prospettiva storica: da che mondo e mondo i trattati, gli accordi, i patti tra nazioni vengono stracciati da una o più parti quando le circostanze storiche nelle quali i trattati sono maturati mutano e sono necessari nuovi accordi (a volte questi nascono dopo che le parti misurano le proprie forze attraverso uno scontro diplomatico, economico e a volte anche militare).
Se era sconcertante la dichiarazione di Draghi (comunque accettabile perché siamo di fronte ad un economista, dunque per definizione una persona mediamente ottusa) quella tedesca assume venature grottesche: e di grazia cosa faranno i tedeschi agli americani se questi ultimi mettono i dazi? Denunciano al WTO? E se gli americani escono dal WTO (cosa peraltro già dichiarata da Trump)? Gli dichiarano guerra? Cioè un nano militare (peraltro pieno di basi militari del paese nemico) va alla guerra con una superpotenza di cui è difficile anche misurare l'enorme capacità militare in tutti i campi?
Semplicemente i tedeschi non hanno strumenti per contrastare la decisione americana né militari, né diplomatici.
Possono al massimo controbattere con dei contro-dazi che agli americani farebbero comunque il solletico visto che non hanno nulla da perdere, avendo una bilancia commerciale in forte passivo dall'ormai lontano 1971 (e non è una data a caso). Semmai sono i tedeschi ad avere tutto da perdere da una guerra commerciale considerato che il 50% del PIL tedesco è destinato all'esportazione.
Ecco, qui sta il punto ineludibile: la globalizzazione e l'apertura dei mercati ha arricchito qualcuno sfacciatamente e ha impoverito altri. Sfortunatamente tra gli impoveriti ci sono quelli che hanno il potere militare. Gli USA si ritrovano con 43 milioni di persone che mangiano con i buoni governativi perché in stato di grave deprivazione materiale, oltre 100 milioni di persone di persone inattive, ovvero che non risultano disoccupati perché le statistiche sono congegnate in modo che pure essere disoccupato è un traguardo. Non solo, hanno le infrastrutture civili che cadono a pezzi peggio che in Italia, dunque una situazione che non può continuare.
Trump ha vinto per questo: riportare il lavoro in patria a qualunque costo prima che esploda una guerra civile e ha l'appoggio di quel capitalismo old style che va dall'edilizia fino all'energia e che prospera solo se il popolo sta prosperando. L'apertura dei mercati invece conviene alla finanza che sposta capitali da una parte all'altra del mondo in una frazione di secondo e a quel capitalismo della new economy che non crea posti di lavoro ma semmai li distrugge.
Sfortunatamente per i tedeschi il candidato di questo new capitalism (Hillary Clinton) ha perso. E assieme a loro hanno perso i tedeschi. Ecco, la cancelliera Angela Merkel, per capire cosa sta succedendo, dovrebbe aprire qualche libro di storia e provare a imparare la lezione che quando cambiano le condizioni materiali cambiano anche gli accordi esistenti; con le buone o con le cattive.

venerdì 17 marzo 2017

Blair e Bush si, Assad no: il moralismo un tanto al chilo è la morte dell’informazione

Com’era previsto, l’intervista a Bashar al-Assad pubblicata da Il Fatto Quotidiano e, per quanto mi riguarda, da Avvenire, e trasmessa in parte anche dal Tg1 e dai canali Mediaset, ha attirato gli strali di alcuni maestrini di morale e giornalismo. Non si intervista un dittatore (criminale, macellaio, torturatore, eccetera, a piacere), non ci si presta alla sua propaganda, non si diventa suoi complici. Questo, per sommi capi, l’argomento più usato.
Vorrei chiarire subito la mia convinzione in merito: si incontra e si intervista chiunque. Se sapessi che interessa ai lettori, intervisterei anche il diavolo. L’idea che intervistare una persona o un personaggio significhi piegarsi ai suoi interessi e ai suoi scopi è patetica. Ho lavorato per tanti anni a Famiglia Cristiana e ricordo l’uscita di interviste, per citarne solo qualcuna, con Felice Maniero (il capo pluriomicida della cosiddetta “banda del Brenta”), Graziano Mesina, il generale Aidid (che tra centinaia di altre avrebbe avuto sulla coscienza anche la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin) e persino Pol Pot. Nessuno pensò mai, e tanto meno scrisse, che “parlare con loro” volesse dire “stare con loro”, sposare le loro tesi. Anche se ovviamente Maniero, Mesina, Aidid e Pol Pot sostenevano la loro “verità”.
Ma veniamo ad Assad. Presso il ministero dell’Informazione della Repubblica di Siria giace una lista lunga un metro di richieste di intervista al Presidente. Comprende tutte le maggiori testate del mondo. Dal punto di vista dei giornalisti, quindi, la questione è presto risolta. Chi non intervisterebbe il cattivo (criminale, macellaio eccetera) Assad forse ha sbagliato mestiere. Dovrebbe farne un altro, magari anche più nobile di quello del giornalista: l’attivista per i diritti umani, il funzionario Onu, il politico. Una delle attività che permettono di far sparire dalla faccia della terra tutti quelli come Assad. Ma non il giornalista.
E aggiungo: d’accordo, non intervistiamo Assad l’assassino. Ma il generale Al Sisi, quello dell’Egitto, del caso Regeni e di centinaia di altri desaparecidos, invece sì? E il re dell’Arabia Saudita e l’emiro del Qatar, oppressori dei loro popoli, finanziatori dell’Isis e assassini di civili nello Yemen? L’ayatollah Alì Khamanei, guida suprema dell’Iran? Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah in Libano? Erdogan mamma li turchi? Il generale Haftar, che fu sgherro di Gheddafi e collaboratore della Cia ma oggi ha in mano le carte decisive in Libia, lo lasciamo perdere e quindi stronchiamo il Corriere della Sera che lo ha fatto parlare?
Posso aggiungere? Perché Tony Blair, che insieme con George Bush mentì al mondo per scatenare l’invasione dell’Iraq e fu così causa di centinaia di migliaia di morti, ha parlato con tutti i giornali per anni, anche dopo che le sue responsabilità erano diventate evidenti? Voi neo-moralisti l’avete mai intervistato? Avreste rifiutato, rifiutereste di incontrarlo? Volete un altro esempio? Eccolo: Aung San Suu Kyi. Ebbe il Premio Nobel per la Pace nel 1991, oggi fa il primo ministro della Birmania e applica una politica di feroce discriminazione, ai limiti della pulizia etnica, nei confronti della minoranza musulmana dei rohynga, più di 800 mila persone. Già vi vediamo rifiutare, sdegnati, un’intervista con l’ex eroina.
Il moralismo un tanto al chilo è la morte dell’informazione. L’intervista con Bashar al-Assad ha avuto tutti i limiti che è possibile immaginare in una situazione come la Siria di oggi. Ma per essere onesti, ho avuto limiti peggiori, in passato, in certi incontri con politici italiani. Inoltre, noi quattro giornalisti italiani che l’abbiamo realizzata ci siamo accordati per fare domande diverse, ad ampio spettro, su temi scomodi per il regime, in modo da ottenere il materiale più ampio possibile. Ci avevano detto una domanda a testa, ovviamente ne abbiamo fatte di più. Non ci è stato chiesto di evitare questo o quell’argomento, né l’avremmo fatto. I lettori ce ne saranno grati. Quelli che si sono investiti del ruolo di agit prop del bene forse no, ma non importa.

giovedì 16 marzo 2017

A chi è servito il “bazooka” di Draghi

Il quantitative easing ha aiutato i capitalisti italiani a guadagnare redditi da capitale. Ma ha avuto effetti limitati sul credito nel nostro paese. E chi avrebbe avuto bisogno di credito a buon mercato è rimasto deluso
I mercati sono inquieti. Sebbene i sondaggi diano Marine Le Pen a oltre 20 punti di distanza dall’ex socialista Macron, a Parigi e Francoforte non si dormono sonni tranquilli, visti il precedente di Donald Trump, capace di scalare montagne simili e arrivare alla Casa Bianca. Ma i populismi di destra sono in crescita un po’ ovunque nei paesi “centrali” dell’eurozona e anche le elezioni olandesi tengono svegli gli investitori. Non si dorme tra due guanciali neppure a Milano, dove tra crisi bancarie e timori per i risultati d’Oltralpe la tensione è palpabile, anzi, quantificabile, in quei quasi 200 punti di spread che separano i nostri titoli di stato da quelli tedeschi. Niente di paragonabile alla crisi del 2011-2012, quando l’eurozona si trovò davvero sull’orlo della rottura, finché Mario Draghi non pronunciò la formula magica che oramai tutti conoscono “La BCE farà tutto quanto è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza”. Da quell’impegno solenne è nato poi il programma OMT e nel 2015 il Quantitative Easing.
Ma al di là del timore per la possibile vittoria della Le Pen che, oltre ad essere ancora improbabile, difficilmente porterebbe davvero all’uscita della Francia dall’euro (vincere le presidenziali non significa vincere le elezioni parlamentari e quindi controllare il governo), è più interessante capire come il Quantitative Easing ha indotto ad un rimescolamento delle carte nei movimenti di capitali in Europa. Per capire cosa sta accadendo conviene proprio riavvolgere il nastro Fino al luglio del 2012, vale a dire prima del “whatever it takes”, le banche estere hanno cercato di disfarsi dei titoli italiani, soprattutto pubblici, temendo la rottura dell’area euro e quindi il rischio della ridenominazione in lire del debito pubblico del nostro e di tutti i paesi periferici. A queste vendite si è poi accompagnato l’acquisto di attività “sicure”, principalmente titoli di stato tedeschi. Tutto ciò accadeva mentre il mercato interbancario era bloccato dalla sfiducia delle banche dei paesi centrali a concedere prestiti a quelle dei paesi periferici. Sicché la fuga dalle attività dei paesi periferici è stata mediata dal sistema Target 2 della BCE e i saldi T2 sono quindi diventati il termometro della frammentazione dell’eurozona e del timore di una sua rottura. All’apice della crisi il saldo positivo della Germania arrivò a 750 miliardi mentre quello negativo dell’Italia a 300. E’ stato proprio questo sistema a scongiurare la rottura prima del 2012, evitando quel che accade normalmente in questi casi quando si tratta di accordi di cambio fisso tra valute diverse, vale a dire la rottura dell’accordo di cambio e la svalutazione delle divise dei paesi da cui i capitali fuggono. Dopo luglio 2012 si assiste al movimento inverso. La fiducia torna grazie alla BCE, e quindi i titoli italiani sembrano di nuovo abbastanza sicuri. Inoltre rendono ben di più di quelli tedeschi e quindi attraggono investitori esteri. Le forbici del T2 e dello spread tornano a chiudersi e nei primi mesi del 2015 la fuga dai titoli pubblici italiani del 2011-2012 è stata pareggiata dall’afflusso in senso contrario.
Non tutti i problemi però sono stati risolti con il “whatever it takes”. Difatti la fuga dalle banche italiane è proseguita nei mesi successivi, riducendosi solo a partire dal primo trimestre 2013 e senza che i capitali rientrassero, anche se va detto che nel frattempo gli investitori si sono moderatamente interessati ai titoli privati del nostro paese.
Dopo luglio 2014 però i saldi Target 2 tornano nuovamente a crescere, in corrispondenza delle prime operazioni di espansione monetaria della BCE. Ma è con il Quantitative Easing, da maggio 2015, che i saldi debitori italiani tornano a schizzare in alto. Questo accade perché nell’ambito del QE la Banca d’Italia compra titoli di stato italiani (anche) da banche e altri investitori esteri, ad esempio tedeschi, i quali trasferiscono la liquidità così creata sui propri conti, nel nostro esempio in Germania. Così il saldo negativo T2 dell’Italia è schizzato a 360 miliardi, mentre il saldo attivo della Bundesbank sfiora gli 800 miliardi a gennaio 2017. Nel frattempo invece gli investitori italiani approfittano della liquidità creata dalla BCE per acquistare attività estere, come azioni e quote di fondi di investimento.
Come rileva Francesco Lenzi sul blog Econopoly del Sole 24 Ore, si tratta di un fenomeno molto diverso rispetto a quello del 2011-2012 che comporta diverse conseguenze tra cui una particolarmente sorprendente: l’Italia – i capitalisti italiani, si intende – sta guadagnando redditi da capitale, pur essendo un paese debitore, approfittando della liquidità a buon mercato della BCE per fare investimenti redditizi all’estero, cosicché i redditi da capitale in ingresso superano l’uscita dovuta al pagamento degli interessi, in discesa, sui nostri debiti.
Insomma, i saldi Target 2 non sono più un indicatore del pericolo di rottura dell’eurozona, ma un effetto del QE e delle decisioni di investimento dei nostri capitalisti. Al netto delle tensioni delle ultimissime settimane di cui accennavamo in apertura, che potrebbero rientrare o accentuarsi a seconda dei risultati del ciclo elettorale europeo di quest’anno, finora i capitali non stanno cercando di lucrare su una possibile rottura dell’eurozona, come accadeva fino al 2012. Se fosse così, vedremmo acquisti di massa di titoli di stato tedeschi (nel periodo 2008-2012 gli acquisti di Bund arrivarono a 330 miliardi di euro) o trasferimenti di denaro su conti bancari e depositi in Germania. Invece, spiega il blog del Sole, non si notano affatto questi afflussi. Semmai l’opposto, gli acquisti di titoli tedeschi dall’estero si sono ridotti e i depositi di non residenti in Germania hanno visto una ripresa molto modesta. Nel frattempo accade anche un altro fenomeno interessante: la Bundesbank ha aumentato significativamente l’emissione di banconote in eccesso rispetto alla quota assegnata dalla BCE, arrivando 327 miliardi a fine 2016 secondo i dati della stessa Buba. Il fenomeno è forse legato ai tassi di interesse negativi sulle riserve in eccesso e alla domanda di banconote cartacee come riserva di valore.
Riassumendo: da un lato gli stranieri disinvestono dai Btp italiani, vendendoli alla Banca d’Italia nell’ambito del QE e ottengono liquidità. Dall’altra gli investitori italiani non approfittano dell’alleggerimento quantitativo della BCE per comprare titoli o azioni italiane, ma investono per lo più in attività estere. In questo modo il QE ha limitati effetti sul credito nel nostro paese e chi avrebbe bisogno di credito a buon mercato rimane deluso, a parte quelle grandi imprese, come l’Eni, i cui titoli vengono acquistati dalla BCE nell’ambito del QE stesso.
Ciò non significa che il Quantitative Easing sia senza effetti positivi per noi. E’ un grosso vantaggio poter contare sulla banca centrale come acquirente dei titoli di stato per mantenere bassi i tassi e ridurre il costo del debito pubblico, precipitato negli ultimi anni proprio grazie all’espansione monetaria della BCE. Tuttavia occorre interrogarsi sul perché una non piccola parte dei soldi sparati in Italia dal bazooka di Draghi finisca altrove invece di venire reinvestita nel nostro paese.

mercoledì 15 marzo 2017

La cancellazione del principio di equità sociale

Attraverso il fisco lo Stato redistribuisce la ricchezza secondo un principio di giustizia e di solidarietà: chi ha più forza economica versa più soldi di chi ne ha meno. È quanto prevede la Costituzione italiana, stabilendo che "tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva", e soprattutto che "il sistema tributario è improntato a criteri di progressività" (art. 53). In tal modo più si è facoltosi, e più è elevata la percentuale di reddito che deve essere versata allo Stato, che la utilizzerà per fornire i beni necessari a soddisfare i diritti fondamentali di chi non può ottenerli a prezzi di mercato: dalla sanità all'istruzione, passando per le pensioni, la casa e la mobilità. Si attua così il principio di parità sostanziale richiamato anch'esso dalla Costituzione italiana, per cui lo Stato deve assicurare l'uguaglianza dei cittadini rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona (art. 3).
Opposto è lo schema voluto dalle destre, che rifiutano la progressività del sistema tributario e reclamano la flat tax: la tassa piatta, con aliquota fissa, che non cresce con l'aumentare del reddito. È lo schema utilizzato nella Russia di Putin, in alcuni Stati un tempo appartenuti al blocco sovietico e poi divenuti campioni di liberismo, e ovviamente nei paradisi fiscali. Lo schema che in Italia è stato sponsorizzato da Berlusconi negli anni Novanta, e più recentemente dalla Lega.
Per ora non se ne è fatto nulla, almeno per le imposte sui redditi delle famiglie (giacché l'Ires, l'imposta sul reddito delle società, ha un'aliquota fissa, ora al 24%). A meno che non si sia ricchi, stranieri (o italiani residenti all'estero da oltre nove anni) e intenzionati a fissare la propria residenza in Italia: in questo caso i redditi prodotti all'estero subiscono una tassazione forfettaria di 100mila euro. È quanto ha previsto l'ultima Legge di stabilità, e attuato un provvedimento dell'Agenzia delle entrate dell'8 marzo. Il tutto per attirare i Paperoni nel Belpaese, consentire loro di arricchirsi pagando da noi tasse irrisorie (rispetto alla loro forza economica), di eludere le leggi fiscali del Paese in cui detengono il loro patrimonio, e magari anche di ripulire somme di dubbia provenienza.
Ammettiamo anche che alcune centinaia di Paperoni si facciano convincere, e che dunque lo Stato incassi qualche decina di milioni di euro. Vale la pena incassare questi soldi, una misera mancia rispetto alle dimensioni del bilancio statale, se il prezzo da pagare è la cancellazione del principio di equità sociale che regge il nostro sistema tributario, e quindi di un elemento fondamentale del patto di cittadinanza? Possiamo invocare l'utilità di una misura (peraltro minima e tutta da dimostrare), trascurando che produce ingiustizie insopportabili, indicative delle gigantesche contraddizioni in cui viviamo?
L'Istat ci dice che in Italia quasi l'8% delle persone versano in condizioni di povertà assoluta, ovvero conoscono la fame: una cifra quasi raddoppiata rispetta a dici anni prima, spaventosa per l'ottavo Paese più ricco del mondo. Dove a essere colpiti sono soprattutto i giovani, disoccupati nel 40% dei casi: motivo per cui sono costretti a vivere in famiglia (accade a 7 milioni di loro), o a emigrare in cerca di lavoro (circa 100 mila l'anno scorso, oltre la metà dei cittadini iscritti all'Anagrafe degli italiani residenti all'estero). Il tutto mentre aumenta l'esercito dei working poor: persone che lavorano, retribuite però con salari talmente bassi da non consentire loro di vivere al di sopra della soglia di povertà. Persone per le quali non vale un altro elemento fondamentale del patto di cittadinanza: quello, richiamato dalla Costituzione, per cui tutti sono tenuti a svolgere "un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società" (art. 4), potendo però ricavare da essa i mezzi per condurre "un'esistenza libera e dignitosa" (art. 36).
Ciò nonostante nessuno mette in discussione le ricette che hanno condotto a alla macelleria sociale che ha oramai invaso le nostre esistenze: si continua a tagliare la spesa sociale, proprio mentre se ne ha più bisogno, e ad abbassare le tasse alle imprese, e ora ai ricchi, nella speranza che in questo modo si possano attirare investitori esteri. E nel contempo si precarizza il lavoro, cancellando diritti e aprendo così la strada verso ulteriori compressioni del salario.
È questa l'essenza del confitto, oramai sempre più drammatico, tra lavoratori inchiodati alla dimensione territoriale e imprese sempre più sradicate da quella dimensione: sempre più ridotte a impalpabili flussi dell'economia finanziaria. Un conflitto alimentato dagli Stati, capaci solo di assecondare il dilagare di questi flussi, di incoraggiarli attraverso una corsa al ribasso tra chi offre le migliori condizioni per le imprese, e di riflesso le peggiori per i lavoratori. Imprese oramai capaci di scrivere le regole del gioco, e lavoratori tutt'al più destinatari di elemosine elettorali.

martedì 14 marzo 2017

Il lavoro in Grecia, siamo alla mafia: datori di lavoro estorcono parte del salario ai dipendenti

Una prassi in stile mafioso nel mercato del lavoro in Grecia. Lo denuncia il blog KTG, scrivendo come i datori di lavoro tendono ad assumere persone con precedenti penali per estorcere loro una quota salariale da impiegati.
Si tratta, prosegue KTG, di una denuncia incredibile fatta dall'Associazione di categoria dei dipendenti privati. I lavoratori vanno al bancomat seguiti dallo scagnozzo dei datori di lavoro a cui devono lasciare parte dello stipendio.
Secondo l'Associazione, questa prassi è nuova e figlia della riforma del mercato del lavoro introdotta nel dicembre del 2016. Secondo la nuova legge, i datori di lavoro sono tenuti a depositare salari e stipendi sul conto corrente del dipendente. Attraverso questa pratica datori di lavoro e impiegati hanno una prova ufficiale della transazione. L'obiettivo di questo nuovo regolamento è quello di evitare l'evasione fiscale e l'elusione dei contributi previdenziali.
Tuttavia, sembra che molti datori di lavoro si siano affrettati a trovare il modo di aggirarlo, adottando pratiche in stile mafioso per chiedere il rimborso di parte dello stipendio dei loro impiegati. "Dobbiamo parlare di Medioevo nel mercato del lavoro greco dopo gli accordi di salvataggio con la Troika. Il livello di sfruttamento ha raggiunto livelli senza precedenti", afferma KTG.
In una trasmissione del canale ANT1 della settimana scorsa, un dipendente ha denunciato che il suo capo incassa dai 200 a 300 euro per ogni stipendio erogato. E ha dichiarato di essere stato costretto ad andare ad un bancomat seguito da una persona di fiducia del suo datore di lavoro per pagare la quota. Parlando in condizione di anonimato, l'impiegato ha detto che molti altri lavoratori in Grecia fanno lo stesso per mantenere il posto.
In Grecia gli accordi di "salvataggio" della Troika e l'austerità hanno portato la disoccupazione al 27% nel 2012 e 2013. E al 23-24 per cento attuale, con il 75% di lunga durata.

lunedì 13 marzo 2017

Vitalizi natural durante

«Quello dei vitalizi è uno dei più grandi scandali della Repubblica. Per gli sfacciati privilegi che i parlamentari si sono dati, per lo spreco di risorse che hanno comportato e comporteranno, per il peso che continueranno ad avere sui bilanci di Camera e Senato, dunque sulle finanze pubbliche»
Se questa è la perfetta sintesi del malcontento italiano, possiamo ben immaginare come una tematica del genere, qual è quella dei vitalizi parlamentari, risulti particolarmente ardua da analizzare. Per prestar fede al nostro compito, dunque, dobbiamo avanzare delle premesse tali da consentirci di comprendere la natura dei suddetti vitalizi e, ancor di più, delle indennità parlamentari, che da essi si distinguono. Partiremo, di conseguenza, analizzando tre ordini di questioni: l’origine dei vitalizi parlamentari e la loro odierna conformazione, la differenza tra i vitalizi parlamentari e il sistema pensionistico “comune” e, infine, tratteremo l’articolazione che compete le indennità parlamentari e, con esse, le altre modalità di “guadagno” di cui possono usufruire i parlamentari nostrani.
Parliamo, innanzi tutto, dei vitalizi in riferimento a quello che potrebbe definirsi un sistema “pensionistico” parlamentare. Grazie ad esso, difatti, i parlamentari, convogliando i propri interessi e le proprie forze nell’ambito politico, si garantiscono una rendita post lavorativa, che altrimenti gli sarebbe “impossibile” ottenere. Questa era l’idea che originariamente significava la nascita di tale forma di rendita. Invero, in questo modo veniva permesso anche agli esponenti dei ceti meno abbienti – garantendosi una forma di sostentamento – di partecipare all’attività politica, con lo scopo di non favorire la formazione di una “casta”. Purtroppo, così non è stato e, chi voleva eliminare una casta democratizzando la partecipazione politica, ha favorito ancor di più la formazione di una élite o “lobby”. Oggi, soprattutto grazie alla riforma del 2012, i vitalizi sono diventati sempre più affini al sistema pensionistico del Bel Paese, adottando il calcolo contributivo. Quest’ultimo, che ha “totalmente” soppiantato il metodo retributivo con la riforma Fornero, implica che la pensione dipenda in maniera diretta dai contributi che vengono versati dal lavoratore. Vi è, però, una distinzione: mentre il comune lavoratore dipende dall’ente INPS, i vitalizi parlamentari sottostanno a regolamentazioni differenti, pesando direttamente su Camera e Senato.
Ulteriori differenze – le più nette – tra pensioni e vitalizi riguardano le modalità che ne permettono l’acquisizione. In sintesi, nel nostro Paese, più o meno fino alla suddetta riforma del 2012, un deputato/senatore, anche dopo un singolo mandato e versando l’8,6% dell’indennità ricevuta, potevano usufruire già all’età di 65 anni (che poteva venire ridotta a 60) un elevato assegno di oltre 3.000 euro. Oggi, al netto delle età restate invariate, vi è stato un ridimensionamento che, però, non ha risolto – differentemente da come si potrebbe pensare – il peso con cui tali vitalizi e, in generale, i costi complessivi dei deputati/senatori gravino sullo Stato. Invero, dopo una carica effettiva di 5 anni, un deputato o senatore, a patto che abbia compiuto 65 anni, può usufruire dell’assegno preposto. Come avveniva precedentemente, in funzione all’aumentare degli anni di “servizio”, si riduce l’età utile ad ottenere il vitalizio, fino alla soglia minima dei 60 anni. Come evidenziato dal Fatto Quotidiano:
«Un bello sconto se si considera che, nel 2018, anno della scadenza naturale della legislatura in corso, la legge Fornero fissa a 66 anni e 7 mesi l’età pensionabile dei comuni mortali»
Ancora, la testata giornalistica citata, per avvalorare le sue ipotesi, ha chiamato in causa gli uffici della Camera per dar corpo a delle simulazioni tali da evidenziare la differenza che intercorre tra un deputato/senatore e un “comune mortale”:
«Un deputato eletto nel 2013, quando aveva 27 anni, che cesserà il suo mandato nel 2018 senza essere riconfermato per il secondo, percepirà nel 2051 (a 65 anni) una pensione compresa tra i 900 e i 970 euro al mese, quando il 64,7% delle pensioni erogate in Italia è inferiore ai 750 euro/mese. Se, invece, l’onorevole eletto sempre nel 2013 a 39 anni, sarà riconfermato fino al 2023, con due legislature alle spalle potrà andare in pensione nel 2034 (a 60 anni) incassando circa 1.500 euro al mese.»
Dimezzare gli stipendi? Le giustificazioni dei parlamentari
Credere, però, che queste siano le uniche problematiche inerenti i guadagli di deputati e senatori è ingenuo. Come abbiamo precedentemente evidenziato, è necessario analizzare i vitalizi in rapporto alle ulteriori e molteplici forme di “sostentamento” previste dalla legge. Alla luce dei cambiamenti – per lo più di ordine “denominativo” – i tagli previsti dalle ultime riforme non portano un reale ridimensionamento dei redditi. Invero, bisogna aggiungere a questi ultimi, prima di ogni cosa, l’indennità parlamentare. Come indicatoci dal portale web Camera.it:
«L’indennità parlamentare è prevista dall’articolo 69 della Costituzione, a garanzia del libero svolgimento del mandato elettivo. […] A decorrere dal 1° gennaio 2012, l’importo netto dell’indennità parlamentare, corrisposto per 12 mensilità, è pari a 5.246,54 euro, a cui devono poi essere sottratte le addizionali regionali e comunali, la cui misura varia in relazione al domicilio fiscale del deputato. Tenuto conto del valore medio di tali imposte addizionali, l’importo netto mensile dell’indennità parlamentare risulta pari a circa 5.000 euro.»
Tali valori sono stimati dalle detrazioni dei 10.435,00 euro previsti, concernenti, per l’appunto, pensioni, ma anche assistenza sanitaria ed altro. Difatti, i deputati usufruiscono di 3.323,70 euro trimestrali per le spese di viaggio e trasporto (che salgono a 3.995,10 euro se la distanza che il deputato deve percorrere supera i 100km). Ancora, i deputati dispongono anche di una somma annuale di oltre 3.000,00 euro per le spese telefoniche. Questa analisi non vuole essere esaustiva, ma potrebbe permettere uno sguardo generale sull’ingiustizia che apre un baratro tra i normali lavoratori e i deputati, i quali potrebbero essere definiti dei “lavoratori speciali”: ecco come si configura quella che da secoli viene definita come “differenza di classe”. Le problematiche non cessano qua e, riprendendo quanto affermato da Roberto Perotti per Repubblica, possiamo evidenziare che:
«I veri risparmi sono nei vitalizi in essere, uno scandalo che grida vendetta comunque li si voglia valutare. Nel 2014 Camera e Senato hanno speso quasi 230 milioni per vitalizi a ex parlamentari ed eredi, per un importo medio vicino ai 100 mila euro; le regioni hanno speso altri 175 milioni. Applicando il ricalcolo contributivo lo Stato risparmierebbe 80 milioni sui vitalizi dei parlamentari, e altri 60 sui vitalizi regionali.»
Quanto appena affermato ci interroga, per esempio, sullo scandalo dell’Ars, che – per citare un episodio su tanti – ha visto la “pensione” di Ignazio Adamo (1897-1973), deputato regionale fino all’anno 1955, passare dopo la sua morte alla moglie prima e alla figlia poi (che è arriva a percepire quasi 4.000,00 euro al mese).
Sicilia, il vitalizio dei politici non finisce
Sarebbe necessario riformulare le modalità di calcolo di tali “assegni previdenziali” facendo si, come indicato dalla petizione precedentemente citata, che venga aumentato il limite minimo di età e, al contempo, che il tetto massimo dei vitalizi venga ridimensionato (magari, come afferma il Fatto Quotidiano, a 5.000 euro lordi al mese) e, in presenza di altre pensioni che superano la soglia indicata, addirittura annullato. In fondo, lo scopo dovrebbe essere quello di parificare la pensione dei parlamentari a quella dei normali cittadini. Se l’applicazione del metodo contributivo è un primo passo, ancora molti altri se ne dovranno compiere. Resta, però, un interrogativo: davvero Camera e Senato, che gestiscono “autonomamente” il proprio guadagno, vorranno ridimensionarlo?

venerdì 10 marzo 2017

Il paradosso dell’irreversibile

Secondo diversi sondaggi, sempre più italiani sarebbero favorevoli all’uscita dall’euro, con una percentuale che si avvicina, se non tocca, la maggioranza. Cresce anche il numero di coloro che vorrebbero uscire dall’UE. Il malcontento nei confronti della moneta unica e delle istituzioni europee è sempre più grande. Ma i Capi di Governo dei paesi dell’area euro continuano a sbandierare lo slogan stantio del “ci vuole più Europa” e, riuniti a Versailles, hanno auspicato il proseguimento dell’integrazione, sotto l’apparente, quanto fittizio, cambiamento dell’“Europa a più velocità”. Mario Draghi, qualche giorno fa, ha tenuto a precisare che l’euro sarebbe, a suo dire, irreversibile, non contemplando i trattati la rinuncia alla moneta comune per i paesi aderenti. Ma cerchiamo di soffermarci su questa proposizione. Cosa vuol dire che l’euro è irreversibile? Che non può essere abbandonato, certo, ma in che senso, secondo Draghi e chi la pensa come lui, non è possibile cambiare una moneta? Perché è stato possibile rinunciare alla lira, ma non sarà possibile disfarsi dell’euro, che è una moneta come tutte le altre? I trattati, si dice, non contemplano questa eventualità. Ma il fatto che la contemplino non significa che non tale possibilità oggettivamente non esista. Nemmeno Luigi XVI contemplava l’eventualità di una rivoluzione e di essere ghigliottinato. Supponiamo che il governo italiano decida di ritornare alla Lira. Cosa potrebbe impedirlo? Un’invasione militare? Una guerre nucleare?
Forse, si vuole dire, più seriamente, che non esistono basi giuridiche che possano giustificare il ripristino di una moneta nazionale. Tale interpretazione, però, renderebbe la proposizione errata. Innanzitutto l’Italia è dotata di una Costituzione che, fino a prova contraria, è la legge suprema, prioritaria rispetto a qualsiasi trattato (semmai sono i trattati a dover tener conto delle linee costituzionali, non il contrario). La legge costituzionale stabilisce che la sovranità appartiene al popolo. Vuol dire che il popolo, o meglio l’organismo che la rappresenta, il Parlamento, e l’organo che rappresenta la maggioranza, il Governo, possono decidere di darsi la forma amministrativa che preferiscono in ogni ambito della vita pubblica, compreso, quindi, il corso legale della moneta. Del resto, per circa cinquant’anni è stato così, ed è evidente che se la massima legge permetteva prima l’esistenza di una moneta nazionale, lo permette tutt’ora. Ma l’affermazione di Draghi, secondo l’interpretazione giuridica, è in contraddizione con l’essenza stessa del diritto moderno. Questo infatti, concepisce la possibilità di cambiare la legge senza violare l’impianto legislativo, e predispone procedure legali atte a tale scopo. Pertanto l’impossibilità giuridica di uscire dall’euro è letteralmente un non-senso.
Ma c’è un altro modo di leggere l’asserzione della presunta irreversibilità. Si può dire, infatti, che, data l’attuale costellazione politico-economica, seppure l’uscita dall’euro sarebbe teoricamente possibile, non è di fatto praticabile. Tuttavia, anche in questo caso, sarebbe una forzatura concepire questo, al pari di qualsiasi altro contesto, come immodificabile. Ma se analizziamo la parola usata da Draghi si scopre che egli ha inteso affermare qualcosa di più. La parola usata è “irrevocabile”; essa sta a indicare non solo la semplice impossibilità, ma anche l’inappellabilità di una decisione già presa, paragonabile a una sentenza della Cassazione. Una simile decisione non può più essere rimessa in discussione. Si tratterebbe di una fase, quella della scelta, superata per sempre. Una volta presa una tale risoluzione, essa sarebbe definitiva e non reversibile. In verità quasi tutte le scelte umane – eccetto la distruzione propria o altrui – sono revocabili. Non lo sono in senso fisico, cioè, ovviamente, non si può tornare al momento in cui la scelta è stata compiuta, ma lo sono in senso psicologico e sociale, cioè se ci si accorge che la scelta è sbagliata, per quanti danni essa abbia causato (a meno che, unica eccezione, non abbia provocato il massimo danno, ovvero la morte) si può evitare di reiterare le azioni conseguenti a quella scelta. Invece, sostengono alcuni, esistono scelte irrevocabili e irreversibili. Il concetto di irreversibilità è stato diffuso soprattutto in riferimento all’economia ed è il risultato di uno strano miscuglio di neoliberismo e progressismo di matrice illuministica.
Whatever it takes
All’epoca del Primo Ministro conservatore Margaret Thatcher, ebbe grande successo un acronimo, TINA, che vuol dire “non c’è alternativa”. Con esso i liberisti sostenevano, e tutt’ora sostengono, che non ci sarebbe altra possibilità alle politiche di liberalizzazione dei mercati, per quanto queste possano essere dolorose. Più o meno la stessa cosa si diceva a proposito dell’euro – se si ricorderà il “monologo collettivo” dei media alla vigilia di Maastricht: l’Italia non poteva fare a meno di aderire alla moneta unica, altrimenti sarebbe diventata come il Mozambico, e comunque una simile eventualità era soltanto un’ipotesi per assurdo, non certo una realtà plausibile. Ebbene, una volta che quelle “scelte” obbligate sono state compiute non possono più essere messe in discussione. Ma, dato che messe in discussione non lo sono mai state e non potevano esserlo nemmeno prima, in realtà quello che si sta dicendo è che semplicemente non è data possibilità di decidere. “Non si può tornare indietro!” si sente ripetere. Recuperare la sovranità nazionale? Porre dei limiti al mercato? Imporre dazi doganali? Ripristinare tutele per il lavoro?
“Non si può tornare indietro!”
E’ la identica, corale e ossessiva risposta. Ma che succede se ci si accorge che la strada intrapresa non è quella giusta? Se si è “andati avanti”, ma imboccando l’uscita sbagliata? “Non si può tornare indietro!”. I sistemi umani funzionano in virtù delle azioni umane reiterate e le azioni umane si attuano grazie alla volontà umana. Per quale motivo, quindi, un’azione dannosa, una volta che ci si sia resi conto della sua nocività, dovrebbe essere ripetuta? Dietro il “progressismo” del “non si può tornare indietro, bisogna andare avanti” si nasconde, in verità, il più ottuso e superstizioso fatalismo. Questo fatalismo poggia su due dogmi: uno, secondo cui i sistemi non dipendono dalla volontà e dalle scelte umane, ma da una sorta di automatismo, da una qualche “mano invisibile”, da una qualche strana e oscura forza che fa sì che, per un’ineffabile ragione, gli esseri umani debbano ripetere le stesse azioni pur sapendo che sono sbagliate.
L’altro dogma asserisce che dopo è meglio di prima. Chi asserisce il contrario è marchiato come un eretico, un infedele, un miscredente della Religione del Progresso. C’è un’illogicità in tale assunto, originato da un evidente antropomorfismo che induce a credere che il tempo, che è una categoria fisica, contenga esso stesso un metro di giudizio assiologico, il quale invece può essere proprio solo di una categoria antropologica. Ma, oltre a questo, la combinazione dei due dogmi produce una sorta piano inclinato dell’assurdo: i sistemi sociali sono automatici, le azioni vengono reiterate dagli uomini, per qualche motivo imperscrutabile che agisce sulle loro menti, anche quando questi sono convinti della loro nocività; tuttavia, per qualche altra ragione imperscrutabile, queste azioni automatiche producono sempre il meglio per gli uomini costretti a compierle, perché se dopo è meglio di prima, i sistemi sociali procederanno sempre verso il meglio.
Tutto ciò ha una strana conseguenza: anche quando l’evidenza costringe a riconoscere che dopo è peggio di prima si continuerà lo stesso a sostenere che… “non si può tornare indietro!”.

giovedì 9 marzo 2017

Uno Stato islamico pure in Egitto

L’amministrazione Obama era ben al corrente fin dal 2011 del fatto che i Fratelli musulmani egiziani pianificavano l’instaurazione di un regime islamista nel Paese che avrebbe emulato il modello turco di Erdogan, con progressivo controllo degli apparati militari attraverso l’inserimento di propri uomini nell’establishment.
Non solo, ma il direttivo dei Fratelli musulmani ha anche intrattenuto rapporti con la “lobby” di Davos per degli accordi finanziari con il nuovo governo islamista egiziano.
È quanto emerge da alcune email scambiate tra Hillary Clinton e alcuni suoi collaboratori (tra cui Jacob Sullivan e Robert Russo) e pubblicate da Wikileaks.
In un primo documento viene infatti rivelato come alti membri della Fratellanza egiziana, in accordo con l’ex leader supremo Mohamed Badie e con i suoi più stretti collaboratori, fossero convinti che l’Egitto sarebbe diventato uno stato islamico in seguito all’elezione del governo guidato dal FJP. L’esecutivo e l’esercito avrebbero dunque collaborato a guidare il Paese in base a principi islamici. A tal fine i Fratelli musulmani avrebbero attentamente monitorato le opinioni dei militari egiziani, convinti del fatto che il 90% di loro avrebbe appoggiato l’instaurazione di un regime islamista.
Il direttivo dei Fratelli musulmani egiziani faceva affidamento, a loro dire, sul fatto che molti ufficiali egiziani rientravano dagli Usa, dove avevano preso parte a corsi di addestramento, con forte sentimento di ostilità nei confronti della società occidentale e delle organizzazioni cristiane ed ebraiche, percepite come nemiche dell’islam.
Badie puntualizzava inoltre che il processo doveva essere implementato con molta calma e cautela onde evitare di allarmare lo Scaf (Il Consiglio Supremo delle Forze Armate) ma l’obiettivo era quello di rimpiazzare ufficiali di stampo laico con islamisti fedeli al regime in modo da poter controllare l’esercito.
Un intento, quello dei Fratelli musulmani egiziani, altamente prevedibile e di fatto già ipotizzato e previsto quando Morsi era in procinto di andare al governo, tant’è che l’esito del “piano islamista” è ben noto.
L’aspetto più interessante però è legato al fatto che i Fratelli musulmani hanno da subito fatto sapere che sarebbero stati più che disponibili ad intrattenere rapporti con le grandi aziende occidentali nel momento in cui avessero riconosciuto l’autorità del nuovo governo islamista.
Fu Mohamed Badie stesso ad affermare di essere molto soddisfatto dell’attenzione data ai Fratelli musulmani egiziani all’annuale riunione del World Economic Forum di Davos, convinto del fatto che i capi di Stato occidentali avrebbero accettato la “nuova forza politica dominante” in Egitto, orientando così le proprie politiche estere ed economiche in modo tale da trovare un equilibrio tra le loro esigenze e quelle del nuovo governo islamista. A sua volta, anche quest’ultimo dovuto bilanciare la propria politica per intrattenere rapporti con l’ambito economico-finanziario occidentale e nel contempo implementare la transizione verso uno Stato fondato sull’islamismo, convinto del fatto che governi, aziende e banche occidentali avrebbero prosperato con il nuovo governo della Fratellanza.
Non solo, ma il direttivo dei Fratelli musulmani si era detto soddisfatto dell’esito degli incontri con l’amministrazione Obama e con il Fondo Monetario Internazionale, i quali avrebbero accettato l’idea di uno stato islamico instaurato in Egitto. Il direttivo aveva inoltre incoraggiato l’arrivo al Cairo di alcune delegazioni di leader di aziende statunitensi programmato per febbraio e marzo 2012.
Sempre secondo il direttivo della Fratellanza, i rapporti con l’amministrazione Obama e con altre istituzioni occidentali avrebbero reso più difficile per l’esercito e i laici l’opposizione al nuovo governo di stampo islamista.
Il rapporto tra amministrazione Obama e i Fratelli musulmani preoccupava diversi Paesi dell’area mediorientale, non soltanto il governo di Bashar al-Assad, ben consapevole delle manovre del ramo siriano della Fratellanza, per mettere in atto lo stesso piano in Siria (come del resto già tentato in Tunisia) ma anche gli Emirati Arabi che avevano chiaramente definito i Fratelli Musulmani uno strumento manipolatore di Washington, mettendoli così al bando come organizzazione terrorista, come già fatto da Russia e Siria.
Uno strumento, quello della Fratellanza, utilizzato per rovesciare le leadership di diversi Paesi mediorientali attraverso il meccanismo politico elettorale che avrebbe così garantito una parvenza di “legalità” ai governi-regime “democraticamente eletti”, anche se poi di “democratico” si è visto ben poco, come ha dimostrato il disastroso anno di governo Morsi e come ancora oggi è tristemente documentato nella Turchia di Erdogan. In Tunisia, con il governo Ennahda ha prosperato il salafismo militante ed è riemerso il problema Ansar al-Sharia, mentre oppositori come Choukri Belaid e Mohamed Brahmi venivano assassinati.
Vale inoltre la pena ricordare che il 3 giugno 2015 il il Washington Times aveva reso noto che le linee guida per il supporto ai Fratelli Musulmani erano state delineate in una direttiva segreta, la Presidential Study Directive-11 (PSD-11) del 2011, che esponeva le linee guida per la riforma politica pianificata in Medio Oriente e in Nord Africa in quel periodo. La portavoce del National Security Council della Casa Bianca aveva rifiutato di rilasciare dichiarazioni al riguardo al quotidiano di Washington…..”We have nothing for you on this”.
L’analista anti-terrorismo statunitense Patrick Poole aveva confermato tale strategia, aggiungendo in un’intervista che la “dottrina-Obama” di sostituire i vecchi regimi mediorientali con la democrazia dei cosiddetti “Islamisti moderati” era sostenuta anche dalla precedente amministrazione Bush.
Del resto i fatti parlano chiaro: in Egitto l’amministrazione Obama appoggiò fino alla fine il governo dei Fratelli musulmani, andando contro la volontà del popolo egiziano, sceso nelle piazze per chiedere elezioni anticipate dopo un anno di “regime” islamista. Si arrivò al punto che l’ex ambasciatrice americana, Anne Patterson, fu pesantemente contestata dal popolo egiziano e costretta a lasciare in gran fretta il Cairo, per aver appoggiato fino all’ultimo Morsi.
La Patterson venne del resto immortalata a suo tempo assieme all’ex guida dei Fratelli musulmani, Mohamed Badie e più avanti, durante un evento universitario negli Stati Uniti, mentre faceva il gesto delle quattro dita di Rabaa, simbolo della protesta pro-Morsi, assieme a una sostenitrice della Fratellanza.
Insomma, l’ex Amministrazione Obama non fece granchè per nascondere le proprie simpatie per l’islamismo della Fratellanza, magari nella speranza di poter promuovere in Medio Oriente una serie di governi “amici”, ma di fatto “amici” di chi?

mercoledì 8 marzo 2017

La grande vergogna della stampa Americana e dell’Occidente

"Secondo Stephen Kinzer la copertura dei giornalisti sulla guerra in Siria passerà alla storia come "uno degli episodi più vergognosi nella storia della stampa Americana, cito l’articolo “The media are misleading the public on Syria” nel giornale Boston Globe, del 18 febbraio 2017. No, questo uomo non fa parte di un movimento anti-americano e neanche è un rappresentante di una stampa alternativa, ma si tratta di un giornalista molto conosciuto del The New York Times. Stephen Kinzer insegna giornalismo e politica estera alla Northwestern University di Chicago. Egli è un esempio di un giornalista normale e buono, cioè un giornalista critico. Il modo selettivo in cui la stampa americano e occidentale scrive è molto inquietante, secondo Stephen Kinzer. "I media ingannano il pubblico sulla situazione in Siria". Egli è molto critico circa le notizie su Aleppo. "I ribelli moderati" che hanno “liberato” Aleppo sono in realtà degli assassini, che terrorizzavano la popolazione, in modo arrogante e senza scrupoli, con il risultato che la popolazione ha accolto l'esercito Siriano come i veri liberatori. La maggior parte della stampa americana (e occidentale) dà news esattamente opposte a ciò che sta realmente accadendo. Secondo essa, le persone dovrebbero sperare nella vittoria di una coalizione sincera di americani, sauditi, turchi, curdi e “dell'opposizione moderata”. Stephen Kinzer trova tutto questo assurdo. Egli comunque è mite verso il popolo americano, che non ha conoscenza. La colpa di queste bugie è la stampa. Gli articoli sono scritti negli edifici editoriali di Washington dove i giornalisti vanno a cercare l’informazione nel Pentagono, nei dipartimento degli affari esteri, nella Casa Bianca e dagli "esperti" del think-tanks. Es: di al-Nosra dicono che sono ribelli e "moderati" ma non dicono che loro appartengono ad al-Qaida. Arabia Saudita avrebbe sostenuto "combattenti per la libertà", quando in realtà è lo sponsor principale del IS. Nel frattempo si scrive solo in modo negativo sulla Russia, sull'Iran o sulla Siria. E di fatto sono esattamente queste notizie ufficiali mendaci che peggiorano la situazione in Medio Oriente. L'ignoranza del popolo americano non è superiore a quella di altre nazioni, ma è più pericolosa, perché ha conseguenze per un intervento militare. Quando un uomo con un tale autorità scrive in questo modo, possiamo supporre e sperare che il gap tra la verità e i reports dei giornalisti sulla Siria nella stampa mainstream sia diventato così grande che alla fine sarà insostenibile. Il riconoscimento della verità aiuterà la Siria nel suo cammino verso la pace".