lunedì 27 febbraio 2017

Se obiettano sul testamento biologico

Non solo per le donne, ma per tutti i generi vogliono che prevalga la volontà del curatore su quella curato, dello specialista sul cittadino: come per l'interruzione di gravidanza così per il diritto a lasciare la vita secondo la natura e la volontà della persona. la Repubblica, 26 febbraio 2016Questa legislatura ha tolto l’Imu, forse aggiungerà le Dat. Un altro acronimo, figlio di una politica che ormai s’esprime soltanto a monosillabi. Significa “Disposizioni anticipate di trattamento”; significa perciò testamento biologico, per usare l’espressione che ci era divenuta familiare. Troppo semplice, meglio complicarne il suono. Ma in ultimo ci ronza in capo un dubbio: queste Dat saranno un diritto o un desiderio?
Dipende dalle attese, dalle pretese. Sta di fatto che il testamento biologico fu la promessa mancata della XVI legislatura; e meno male, perché il ddl Calabrò (approvato dal Senato il 26 marzo 2009) in realtà recava un elenco di divieti. Con le elezioni del 2013, ricomincia il tira e molla. Finché, nei giorni scorsi, la commissione Affari sociali della Camera molla: dopo 16 progetti di legge l’un contro l’altro armati, dopo 3200 emendamenti, approva un testo unificato. Con una maggioranza trasversale, che viaggia dal Pd ai Cinque Stelle.
Con l’ira funesta dei cattolici, che denunciano un voto frettoloso (in effetti, il Parlamento ne discute soltanto da 8 anni); ma infine con 5 articoli e con 28 commi che ci accordano il diritto di respingere le cure, incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali, oggetto del contendere nel caso di Eluana Englaro. E quindi, se adesso l’aula della Camera non ne stravolgerà il dettato, anche l’Italia potrà dotarsi d’uno strumento che in alcuni Stati americani funziona dagli anni Novanta, in Olanda dal 2001, in Spagna dal 2002, in Francia dal 2005, nel Regno Unito dal 2007, in Germania dal 2009.
Meglio tardi che mai, disse quello studente novantenne mettendosi una laurea in tasca. Sennonché in questa circostanza l’università parlamentare ha inventato una nuova fonte del diritto, superiore alla legge, alla Costituzione, alla Dichiarazione dei diritti siglata dall’Onu: il codice deontologico. Portentosa innovazione, scaturita da un emendamento congiunto di un forzista (Palmieri) e una piddina (Carnevali), per comprimere l’efficacia vincolante delle Dat; hai visto mai, qualcuno potrebbe disporne in modo indisponente. Di conseguenza il medico (articolo 1, comma 8) rispetterà «ove possibile» le direttive del paziente; potrà disattenderle (articolo 3, comma 4) quando sopraggiungano «terapie non prevedibili» nel momento in cui quest’ultimo le aveva sottoscritte (un nuovo tipo di aspirina?); ne verrà infine affrancato (articolo 1, comma 7) se le disposizioni anticipate di trattamento contrastino con la «deontologia professionale».
Durante l’Ottocento veniva celebrata l’onnipotenza delle assemblee legislative. Ora ci tocca invece registrarne l’impotenza, anche davanti a regole private, quelle stabilite dall’Ordine dei medici. Che in primo luogo dettano norme volubili come ballerine: difatti il loro codice deontologico fu varato nel 1954, poi riscritto interamente nel 1978, nel 1989, nel 1995, nel 1998, nel 2006, nel 2014, fino alle due modifiche parziali approvate a maggio e a novembre del 2016. E in secondo luogo quelle norme suonano spesso ermetiche come una Sibilla. Così, l’articolo 17 vieta al medico, «anche su richiesta del paziente», d’effettuare atti intesi a «provocarne la morte». L’articolo 38, proprio in relazione alle dichiarazioni anticipate di trattamento, precisa che il medico dovrà verificarne la «congruenza logica», come un professore che ha il potere di promuoverti o bocciarti. Un altro paio d’articoli (16 e 39, oltre allo stesso articolo 38) dichiarano che il medico «tiene conto» delle volontà del paziente (cioè le conta, dopo di che fa un po’ come gli pare). Infine l’articolo 22 sancisce espressamente il diritto dei medici all’obiezione di coscienza, ultimo baluardo contro la coscienza dei loro pazienti.
Ecco, è esattamente questo il tarlo che divora le buone intenzioni, lasciandole in balia dei malintenzionati. Perché il rinvio al codice deontologico trasformerà ogni nostra decisione in una supplica al sovrano, dove il sovrano è l’Ordine dei medici. E perché l’obiezione di coscienza permetterà la fuga dai diritti sanciti dalla legge, ammesso che questa legge veda mai la luce. Non a caso la Costituzione italiana non le dedica un rigo, a differenza della Carta tedesca o spagnola. Si riferisce invece, in molti luoghi, al primato della legge. Ma ormai la legge non è più una cosa seria

giovedì 23 febbraio 2017

Europa: tosatura a due velocità

Per renderci conto che ci si avvicina all'implosione delle istituzioni europee e della moneta unica, basta mettere in fila una serie di fatti.
1. Le regole che governano l'euro stanno provocando una crescente divaricazione fra le condizioni economiche delle diverse nazioni. Mentre i paesi forti, la Germania in primis, stanno registrando forti avanzi delle bilance commerciali con l'estero, cioè esportano più di quanto importano, e le loro esportazioni contribuiscono ad assicurare uno sbocco alla capacità produttiva, i paesi periferici, impossibilitati a compensare con il ricorso alla svalutazione monetaria la loro inferiore competitività, registrano forti disavanzi commerciali e pertanto soffrono molto di più l'impatto della crisi economica mondiale. Anche il rispetto dei parametri in fatto di bilancio pubblico – rapporto debito/Pil e deficit/Pil – è assai difficoltoso per i paesi più deboli. Non così invece per la Germania, anche perché tali parametri sono stati “cuciti addosso” all'economia tedesca.
Nonostante il massiccio intervento della Banca Centrale Europea con la riduzione dei tassi di interesse e il quantitative easing, tale divergenza non accenna a ridursi.
2. Le condizioni imposte alla Grecia per rimanere nell'Unione Europea e nell'Euro stanno determinando in quel paese il completo smantellamento di ogni garanzia sociale, nonostante che il popolo greco si sia espresso a larghissima maggioranza contro tali misure e nonostante che al governo ci sia una forza di sinistra che si proponeva di riformare le regole europee. I “creditori”, non contenti, proprio nei giorni scorsi hanno chiesto un supplemento di austerità, tanto che l'ipotesi di una Grexit in tempi ravvicinati sta tornado insistentemente in campo. Purtroppo rischia di essere un'uscita gestita dalla troika e non dalla Grecia, come invece sarebbe stato possibile a suo tempo.
3. Anche Italia e Portogallo sono nel mirino delle “istituzioni”. In particolare al nostro paese viene richiesta una manovra aggiuntiva di 3,4 miliardi (recentemente ridotta di poco), richiesta prontamente accolta, pur con i consueti mugugni di facciata di Renzi, dal nostro governo che promette nuovi tagli e nuove tasse. Naturalmente saranno balzelli che colpiscono indiscriminatamente e quindi impoveriranno i poveri.
4. La Gran Bretagna, con il recente referendum, ha detto no all'Ue da cui prepara la sua uscita. Del resto ogni volta che un popolo dell'Europa è stato chiamato ad esprimersi con un referendum sulla bontà delle istituzioni europee, la risposta è sempre stata negativa.
5. Il nuovo presidente degli Stati Uniti dichiara di voler inaugurare una nuova era nei rapporti internazionali, anche con l'Europa, e attacca la politica economica della Germania, che poi è l'indiscusso padrone dell'Europa. Un'Europa così disunita saprà resistere a questa offensiva?
6. L'associazione della sinistra riformista alle politiche liberiste europee e la debolezza delle forze di sinistra alternative, salvo alcune eccezioni caratterizzate peraltro da notevole incertezza strategica, stanno dando forza alle destre nazionaliste e xenofobe. La Le Pen, per esempio, sulla base di una netta indicazione di uscita dell'Ue, va verso un'affermazione importante nelle prossime elezioni francesi, tale da assegnarle probabilmente, anche in caso di mancata vittoria, il ruolo di principale forza d'opposizione. In Olanda l'omologa forza politica è al governo. In molti paesi dell'Est europeo, forze nazionaliste o addirittura neonaziste sono nella cabina di comando. Se il populismo di Trump e quello delle destre europee agiranno congiuntamente, come dobbiamo attenderci, il risultato sarà devastante.
7. L'Europa non ha stabilito neppure una politica comune di accoglienza dei migranti e dei profughi provenienti dalle zone ove imperversano le guerre da noi provocate. Al contrario si stanno innalzando muri sia metaforici che reali per impedire questo flusso umano, che non è altrettanto libero dei flussi di capitale.
8. Il Presidente dell'istituto di ricerca tedesco Ifo ha avvisato che il nostro paese è interessato da una fuga di capitali e che dovrebbe uscire dalla moneta unica se questa fosse “un ostacolo” al ritorno verso “livelli soddisfacenti di crescita”. Da parte sua Mario Draghi, rispondendo all'interrogazione di due parlamentari europei del Movimento 5 Stelle, ha precisato che in tal caso la Banca d'Italia dovrebbe saldare tutti i suoi debiti verso la Bce, che ha quantificato in 358,6 miliardi. Tale affermazione è apparsa come l'ammissione della possibilità di uscita, anche se lo stesso presidente della Bce in un successivo intervento al Parlamento Europeo, ha voluto confermare che la moneta unica “è irrevocabile” e quindi non è possibile uscirne. Sul motivo dell'uso del nuovo termine “irrevocabile” in luogo del consueto “irreversibile”, si sono esercitati alcuni commentatori ipotizzando che dietro ci stiano interessi elettorali di Merkel e Schäuble, preoccupati per l'ascesa degli anti-euro dell'Afd. Ma ormai anche alcuni premi Nobel dell'economia di impostazione keynesiana suggeriscono l'uscita dall'Euro dei paesi del Sud Europa. Che l'uscita dall'Ue non sia più un tabù, sta ormai diventando convincimento sempre più diffuso.
9. È noto che la Germania è sempre stato il più intransigente difensore della disciplina europea, ma di fronte a questo allarmante quadro è stata proprio la Merkel a prospettare, per ora solo evocandola, un'Europa a due velocità, con un nucleo centrale forte, guidato dalla Germania stessa, e una serie di nazioni satelliti, cui permettere – evidentemente in deroga al fiscal compact – tempi più lunghi per essere promossi in seria A.
Il ruolo di questi ultimi paesi, in sostanza, dovrebbe limitarsi a filtro delle immigrazioni, senza troppe pretese di incidere sull'ordinamento e sulle scelte economiche dell'Europa. Non pare di questa opinione Romano Prodi. Secondo lui, di fronte alle minacce di Trump e Le Pen, l'Europa a due velocità “può essere una risposta” per evitare la dissoluzione dell'Unione. “In mancanza di una condivisa politica europea – sostiene il nostro europeista – è l'unica strada percorribile. Tutti insieme non si riesce a portare avanti il progetto europeo”.
Ma proprio questa mancanza di uno sforzo comune per l'integrazione reciproca ci dice che l'Europa è morta; almeno è morta l'idea iniziale di Europa. Prodi non mostra di accorgersene. Vede prospettive positive a partire dalla reazione alla politica di Trump e vede la possibilità di un posto in serie A per l'Italia, senza dirci però a quali ulteriori costi sociali, a partire dalla manovra correttiva annunciata, che sarà l'ennesima tosatura dei lavoratori.
In tutto questo generoso slancio europeista, non stupisce che il fondatore dell'Ulivo non si ponga una minima domanda sui motivi per cui le infrazioni vengono sempre contestate ai paesi in difficoltà, mentre nessuno si preoccupa di contestarle alla Germania che con il suo spropositato avanzo commerciale viola anch'essa i parametri europei.
Ma questo è un problema della “sinistra” (?) riformista. Possibile invece che la sinistra di classe, o che almeno dovrebbe essere tale, giunga sempre buona ultima nel prendere atto che il progetto europeo è fallito? E che bisogna prepararci al dopo, iniziare a costruire un'Europa completamente diversa, in cui siano esattamente invertiti i valori: prima il benessere e la giustizia sociale, poi le esigenze del capitale, prima il controllo pubblico dell'economia e poi il mercato.
Dal momento che l'impianto liberal-democratico dell'Europa vacilla perché non è stato in grado di mantenere alcuni suoi presupposti sociali – la quasi piena occupazione e decorose condizioni di vita dei lavoratori – si aprono spazi di conquista dei ceti impauriti e scontenti, anche in competizione con le destre. Ma per fare questo ci vuole un progetto politico credibile (credibile per le masse lavoratrici, non per l'establishment) e un ruolo di direzione dei conflitti sociali, a partire dall'opposizione ferma al disastro europeo.
C'è tanto lavoro da fare per le forze anticapitaliste europee. Intanto bisognerebbe cominciare a mettere rapidamente in atto indispensabili forme di coordinamento sovranazionale permanente. In assenza del quale la peggiore destra sfonderà su tutti i fronti.

mercoledì 22 febbraio 2017

Europa: tosatura a due velocità

Per renderci conto che ci si avvicina all'implosione delle istituzioni europee e della moneta unica, basta mettere in fila una serie di fatti.
1. Le regole che governano l'euro stanno provocando una crescente divaricazione fra le condizioni economiche delle diverse nazioni. Mentre i paesi forti, la Germania in primis, stanno registrando forti avanzi delle bilance commerciali con l'estero, cioè esportano più di quanto importano, e le loro esportazioni contribuiscono ad assicurare uno sbocco alla capacità produttiva, i paesi periferici, impossibilitati a compensare con il ricorso alla svalutazione monetaria la loro inferiore competitività, registrano forti disavanzi commerciali e pertanto soffrono molto di più l'impatto della crisi economica mondiale. Anche il rispetto dei parametri in fatto di bilancio pubblico – rapporto debito/Pil e deficit/Pil – è assai difficoltoso per i paesi più deboli. Non così invece per la Germania, anche perché tali parametri sono stati “cuciti addosso” all'economia tedesca.
Nonostante il massiccio intervento della Banca Centrale Europea con la riduzione dei tassi di interesse e il quantitative easing, tale divergenza non accenna a ridursi.
2. Le condizioni imposte alla Grecia per rimanere nell'Unione Europea e nell'Euro stanno determinando in quel paese il completo smantellamento di ogni garanzia sociale, nonostante che il popolo greco si sia espresso a larghissima maggioranza contro tali misure e nonostante che al governo ci sia una forza di sinistra che si proponeva di riformare le regole europee. I “creditori”, non contenti, proprio nei giorni scorsi hanno chiesto un supplemento di austerità, tanto che l'ipotesi di una Grexit in tempi ravvicinati sta tornado insistentemente in campo. Purtroppo rischia di essere un'uscita gestita dalla troika e non dalla Grecia, come invece sarebbe stato possibile a suo tempo.
3. Anche Italia e Portogallo sono nel mirino delle “istituzioni”. In particolare al nostro paese viene richiesta una manovra aggiuntiva di 3,4 miliardi (recentemente ridotta di poco), richiesta prontamente accolta, pur con i consueti mugugni di facciata di Renzi, dal nostro governo che promette nuovi tagli e nuove tasse. Naturalmente saranno balzelli che colpiscono indiscriminatamente e quindi impoveriranno i poveri.
4. La Gran Bretagna, con il recente referendum, ha detto no all'Ue da cui prepara la sua uscita. Del resto ogni volta che un popolo dell'Europa è stato chiamato ad esprimersi con un referendum sulla bontà delle istituzioni europee, la risposta è sempre stata negativa.
5. Il nuovo presidente degli Stati Uniti dichiara di voler inaugurare una nuova era nei rapporti internazionali, anche con l'Europa, e attacca la politica economica della Germania, che poi è l'indiscusso padrone dell'Europa. Un'Europa così disunita saprà resistere a questa offensiva?
6. L'associazione della sinistra riformista alle politiche liberiste europee e la debolezza delle forze di sinistra alternative, salvo alcune eccezioni caratterizzate peraltro da notevole incertezza strategica, stanno dando forza alle destre nazionaliste e xenofobe. La Le Pen, per esempio, sulla base di una netta indicazione di uscita dell'Ue, va verso un'affermazione importante nelle prossime elezioni francesi, tale da assegnarle probabilmente, anche in caso di mancata vittoria, il ruolo di principale forza d'opposizione. In Olanda l'omologa forza politica è al governo. In molti paesi dell'Est europeo, forze nazionaliste o addirittura neonaziste sono nella cabina di comando. Se il populismo di Trump e quello delle destre europee agiranno congiuntamente, come dobbiamo attenderci, il risultato sarà devastante.
7. L'Europa non ha stabilito neppure una politica comune di accoglienza dei migranti e dei profughi provenienti dalle zone ove imperversano le guerre da noi provocate. Al contrario si stanno innalzando muri sia metaforici che reali per impedire questo flusso umano, che non è altrettanto libero dei flussi di capitale.
8. Il Presidente dell'istituto di ricerca tedesco Ifo ha avvisato che il nostro paese è interessato da una fuga di capitali e che dovrebbe uscire dalla moneta unica se questa fosse “un ostacolo” al ritorno verso “livelli soddisfacenti di crescita”. Da parte sua Mario Draghi, rispondendo all'interrogazione di due parlamentari europei del Movimento 5 Stelle, ha precisato che in tal caso la Banca d'Italia dovrebbe saldare tutti i suoi debiti verso la Bce, che ha quantificato in 358,6 miliardi. Tale affermazione è apparsa come l'ammissione della possibilità di uscita, anche se lo stesso presidente della Bce in un successivo intervento al Parlamento Europeo, ha voluto confermare che la moneta unica “è irrevocabile” e quindi non è possibile uscirne. Sul motivo dell'uso del nuovo termine “irrevocabile” in luogo del consueto “irreversibile”, si sono esercitati alcuni commentatori ipotizzando che dietro ci stiano interessi elettorali di Merkel e Schäuble, preoccupati per l'ascesa degli anti-euro dell'Afd. Ma ormai anche alcuni premi Nobel dell'economia di impostazione keynesiana suggeriscono l'uscita dall'Euro dei paesi del Sud Europa. Che l'uscita dall'Ue non sia più un tabù, sta ormai diventando convincimento sempre più diffuso.
9. È noto che la Germania è sempre stato il più intransigente difensore della disciplina europea, ma di fronte a questo allarmante quadro è stata proprio la Merkel a prospettare, per ora solo evocandola, un'Europa a due velocità, con un nucleo centrale forte, guidato dalla Germania stessa, e una serie di nazioni satelliti, cui permettere – evidentemente in deroga al fiscal compact – tempi più lunghi per essere promossi in seria A.
Il ruolo di questi ultimi paesi, in sostanza, dovrebbe limitarsi a filtro delle immigrazioni, senza troppe pretese di incidere sull'ordinamento e sulle scelte economiche dell'Europa. Non pare di questa opinione Romano Prodi. Secondo lui, di fronte alle minacce di Trump e Le Pen, l'Europa a due velocità “può essere una risposta” per evitare la dissoluzione dell'Unione. “In mancanza di una condivisa politica europea – sostiene il nostro europeista – è l'unica strada percorribile. Tutti insieme non si riesce a portare avanti il progetto europeo”.
Ma proprio questa mancanza di uno sforzo comune per l'integrazione reciproca ci dice che l'Europa è morta; almeno è morta l'idea iniziale di Europa. Prodi non mostra di accorgersene. Vede prospettive positive a partire dalla reazione alla politica di Trump e vede la possibilità di un posto in serie A per l'Italia, senza dirci però a quali ulteriori costi sociali, a partire dalla manovra correttiva annunciata, che sarà l'ennesima tosatura dei lavoratori.
In tutto questo generoso slancio europeista, non stupisce che il fondatore dell'Ulivo non si ponga una minima domanda sui motivi per cui le infrazioni vengono sempre contestate ai paesi in difficoltà, mentre nessuno si preoccupa di contestarle alla Germania che con il suo spropositato avanzo commerciale viola anch'essa i parametri europei.
Ma questo è un problema della “sinistra” (?) riformista. Possibile invece che la sinistra di classe, o che almeno dovrebbe essere tale, giunga sempre buona ultima nel prendere atto che il progetto europeo è fallito? E che bisogna prepararci al dopo, iniziare a costruire un'Europa completamente diversa, in cui siano esattamente invertiti i valori: prima il benessere e la giustizia sociale, poi le esigenze del capitale, prima il controllo pubblico dell'economia e poi il mercato.
Dal momento che l'impianto liberal-democratico dell'Europa vacilla perché non è stato in grado di mantenere alcuni suoi presupposti sociali – la quasi piena occupazione e decorose condizioni di vita dei lavoratori – si aprono spazi di conquista dei ceti impauriti e scontenti, anche in competizione con le destre. Ma per fare questo ci vuole un progetto politico credibile (credibile per le masse lavoratrici, non per l'establishment) e un ruolo di direzione dei conflitti sociali, a partire dall'opposizione ferma al disastro europeo.
C'è tanto lavoro da fare per le forze anticapitaliste europee. Intanto bisognerebbe cominciare a mettere rapidamente in atto indispensabili forme di coordinamento sovranazionale permanente. In assenza del quale la peggiore destra sfonderà su tutti i fronti.

martedì 21 febbraio 2017

Ammalarsi di precariato fa più male dell’alcol

Lo stress pisco-sociale, come lo definiscono alcuni scienziati, accorcia la vita. È la tensione a cui è sottoposto chi vive in condizione di costante svantaggio socio-economico che può determinare un calo dell’aspettativa di vita di circa 2 anni, come dimostrano i risultati di uno studio appena pubblicato.
In Italia, una disoccupazione giovanile che supera il 40 per cento, come riportano i dati Istat di fine gennaio, sta condannando intere generazioni a non poter sperimentare la serenità che deriva da un reddito sufficiente e sicuro, tale da lasciar spazio alla progettualità e alla capacità di sognare. Come ha denunciato nella sua ultima tragica lettera Michele, il trentenne che si è tolto la vita a causa di una costante situazione di precariato.
Quando i farmaci non bastano
Per la salute, sperimentare una condizione socio-economica di costante svantaggio rappresenta un fattore di rischio paragonabile a fumo, alcol o obesità. “Perché curare le persone per poi riportarle nelle stesse condizioni che hanno provocato la malattia?” è la provocazione di Sir Michael Marmot, professore di epidemiologia e salute pubblica all’University College of London, nel Regno Unito, che ha dedicato la sua vita a convincere medici e politici che la salute si migliora non solo prescrivendo farmaci, ma intervenendo sulla la qualità della vita delle fasce sociali più deboli.
Lo racconta nel suo libro “Salute diseguale”, edito in Italia da Il Pensiero Scientifico. Per primo ha parlato di stress psico-sociale, quel fattore di rischio per la salute determinato dalla mancanza di potere sulla propria vita quando si hanno pochi mezzi economici. Le pillole possono intervenire sull’incendio ormai scoppiato - la malattia - ma non sulle cause che lo hanno scatenato, sostiene, e che lo scateneranno di nuovo, se non migliorano. Se poi peggiorano, come quando si perde il lavoro, l’ipotesi è che l’aspettativa di vita si riduca ulteriormente. Dalle intuizioni di Marmot e dai tanti studi già condotti sull’argomento, è partito il progetto europeo Life-Path (www.lifepath.eu) finanziato nell’ambito di Horizon 2020, gestito da un consorzio di ricercatori internazionali (molti dei quali italiani: l’Italia ha una con solida tradizione scientifica in epidemiologia), di cui è coautore anche Marmot.
Ha misurato di quanto esattamente uno status socio-economico svantaggioso riduce l’aspettativa e la qualità della vita. “È noto da tempo che sia un indicatore del calo nella speranza di vita”, spiega Silvia Stringhini, epidemiologa alla Lausanne University Hospital di Losanna, Svizzera, co-autrice dello studio. “Ma il suo impatto non era mai stato confrontato quello dovuto a fattori di rischio noti”. Fumo, tabacco, obesità, scarsa attività fisica, eccessivo consumo di sale, pressione alta e diabete sono considerati i 7 maggiori fattori di rischio legati alle malattie non trasmissibili - come quelle cardiovascolari o il cancro - che possono condurre a morte prematura. Secondo la ricerca, il fumo accorcia la vita di 4,8 anni, la mancanza di attività fisica di 2,4, il diabete di 3,9 e quasi di 1 l’eccessivo consumo di alcol. Lo status socio-economico, mostra la ricerca, è responsabile di una riduzione di 2,1 anni di vita.
I parametri della ricerca
Lo studio è stato possibile grazie ai dati raccolti da precedenti ricerche su 48 popolazioni in Europa, Stati Uniti e Australia negli ultimi 13 anni, per un totale di 1,7 milioni di persone. “Disponevamo di informazioni su parametri legati alle malattie croniche, alle cause di morte e alla classe sociale”, spiega Paolo Vineis, epidemiologo ambientale all’Imperial College of London nel Regno Unito, e coordinatore di LifePath.
Per definire lo status socio-economico, i ricercatori hanno usato come parametro la professione dei partecipanti delle persone sopra i 40 anni. Nel caso di un operaio non specializzato, per fare un esempio, si attribuisce il punteggio più basso. Per un ingegnere, quello più alto. “È un parametro che ci ha permesso di confrontare popolazioni appartenenti a culture e paesi differenti, “spiega Vineis. E che rispecchia anche altri fattori che determinano lo status, come il grado di istruzione e reddito, difficili però da paragonare da nazione a nazione. La ricerca, spiega Vineis, “ha permesso di vedere che c’è un effetto importante sulla mortalità dovuto solo alla classe sociale e non ai 7 fattori di rischio tradizionalmente considerati”.
Cosa sia quel qualcosa in più che ha un impatto sulla mortalità, che Marmot imputa allo stress psico-sociale, e che lo studio LifePath ha ora quantificato, non è ancora compreso a fondo. “Lo studieremo nei prossimi due anni,” spiega Vineis. “Abbiamo informazioni di tipo molecolare su campioni di sangue di quelle popolazioni, su cui studieremo l’impatto che l’ambiente in cui viviamo esercita sul Dna. Una componente importante e innovativa del progetto, racconta Vineis, consiste infatti in indagini epigenetiche sulla modulazione del funzionamento dei geni in diverse migliaia di persone.
Un fattore di rischio “non modificabile”
Lo status economico di un individuo rappresenta dunque uno dei maggiori determinanti della salute umana e della longevità, ma resta un fattore di rischio abitualmente ignorato dalle politiche sanitarie internazionali. Nel 2011 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha lanciato un programma che mira a ridurre la mortalità causata da malattie non trasmissibili del 25% entro il 2025, puntando sulla riduzione dell’impatto che i 7 fattori di rischio noti hanno su queste patologie e dunque sulla mortalità. Ma che non considera quello costituito dall’appartenenza alle classi negli ultimi gradini della piramide sociale.
La stessa Oms considera lo status sociale un fattore di rischio non modificabile, a differenza degli altri 7. Sui quali si ritiene di poter intervenire con prescrizioni (smettere di fumare, consumare meno sale, fare esercizio fisico) e attraverso campagne di sensibilizzazione come quelle promosse anche dal Ministero della Salute italiano. “È percepito come più difficile attuare politiche che possano attenuare fattori socio-economici svantaggiosi, politiche che però aumenterebbero la resilienza dell’organismo umano alle malattie,” spiegano i ricercatori di LifePath. “Queste politiche richiedono molti più soldi”, perché prevedono di investire prima di tutto sull’istruzione di base, sul miglioramento dei quartieri disagiati, garantendo maggiori spazi di verde pubblico e una migliore rete di trasporti. “Dal punto di vista della politica, quando ci si limita a intervenire su una scelta individuale appare tutto molto più semplice,” spiegano.
Dal progetto Lifepath stanno emergendo molti articoli scientifici in pubblicazione, raccontano gli autori, ma la principale ambizione consiste nell’influenzare la politica. Per questo, il progetto prevede un gruppo di lavoro presieduto da Sir Marmot che si è riunito in questi giorni a Londra. Con l’esplicito compito di tradurre in politiche i risultati scientifici. “L’appartenenza a una bassa classe sociale nell’infanzia ha un influsso duraturo nel corso di tutta la vita,” spiega Vineis. “È un messaggio politico forte: bisogna investire nei giovani, le coppie in età fertile, contrariamente a quello che molti governi stanno facendo, e investire nell’istruzione per ottenere frutti anche nel settore della salute collettiva sul lungo periodo”.

lunedì 20 febbraio 2017

Inps in rosso, ma Boeri: “Nessun allarme”. Sale rabbia pensionati

Nessun rosso sui conti dell’Inps. Smorza così l’allarme lanciato dalla Corte dei conti, il numero uno dell’Istituto nazionale di previdenza sociale Tito Boeri.
Nella relazione sul controllo per l’anno 2015 la magistratura contabile ha messo in luce da una parte l’avanzo di quasi 1 miliardo e mezzo nella gestione finanziaria di competenza e dall’altra una situazione patrimoniale in peggioramento, tanto che per la prima volta dalla nascita della Previdenza sociale in Italia, l’Inps è in rosso di 1,73 miliardi.
“Il patrimonio netto è pari a 5,87 miliardi, con un decremento sul 2014 di 12,54 miliardi. A questo riguardo è da rilevare come, per effetto di un peggioramento dei risultati previsionali assestati del 2016 (con un risultato economico negativo che si attesta su 7,65 miliardi) il patrimonio netto passi, per la prima volta dall’istituzione dell’ente, in territorio negativo per 1,73 miliardi”.
Le rassicurazioni di Boeri
Ma Tito Boeri minimizza sostenendo che il disavanzo dell’Inps derivi unicamente da ritardi nei trasferimento dello Stato che vengono anticipati dall’Istituto e poi ripianati.
“Il rapporto con la Corte dei Conti è molto ricco e pieno di indicazioni e di stimoli. Lo stiamo leggendo con cura e recepiremo molti dei suggerimenti che vengono proposti. La Corte non lancia alcun allarme sui bilanci. Si tratta di una questione contabile. Bisogna sempre ricordare ai cittadini italiani che l’Inps opera per conto dello Stato. Le prestazioni che garantisce vengono infatti decise dal Parlamento italiano, dal Governo e noi, semplicemente, ci limitiamo ad attuarle. Le prestazioni sono garantite dallo Stato. Di conseguenza, ciò che conta non è il bilancio dell’Inps, ma dello Stato”.
Corre ai riparti anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti che ieri ha cercato di tranquillizzare tutti dicendo che il sistema è stabile e non sono previsti nuovi interventi. E i pensionati sono tranquilli?
La rabbia dei pensionati
Se i conti sono in rosso, a rischio sono alcuni provvedimenti tanto attesi, soprattutto per quel che riguarda i lavoratori precoci, coloro che hanno iniziato a lavorare prima della maggiore età, arrivando a maturare una contribuzione particolarmente elevata cioè pari o superiore a 40 anni di contributi ad un’età anagrafica relativamente bassa e che non sono stati salvati dalla riforma Fornero. Attendono ancora un provvedimento che li tuteli – in particolare la quota 41 vale a dire 41 anni di anzianità contributiva per andare in pensione da estendere a tutti – e che stenta ad arrivare. E l’allarme sui conti in rosso dell’Istituto di previdenza sociale a pochi giorni da un confronto molto importante tra ministero del lavoro e sindacati è visto come un campanello d’allarme.
I precoci hanno così lanciato una petizione on line che ad oggi ha superato le 23mila firme e che permette di accedere alla pensione a 62 anni e 35 di contributi con un taglio dell’8% sull’assegno mensile, 2% per ogni anno di anticipo. Ma i conti dell’Inps non sono in ordine. Cosa accadrà?

mercoledì 15 febbraio 2017

Vecchia Italia!

L’Italia è il paese con la popolazione più vecchia d’Europa – il 21,4 per cento è over sessantacinque – ma non è un paese per vecchi. Perché, per la prima volta nella sua storia, la copertura dei servizi e degli interventi per anziani presenta tutti segni negativi: la spesa di comuni e regioni per i servizi sociosanitari diretti ai meno giovani è diminuita così come le persone della terza età prese in carico.
Le casse vuote delle finanze pubbliche, che costringono le famiglie con un anziano caro (soprattutto non autosufficiente) a dare fondo alle risorse personali private, trascinano il Belpaese in un ritardo grave nel maturare un proprio sistema di assistenza a lungo termine. Sistema in cui domiciliarità e residenzialità, le due vie nostrane per sostenere gli anziani, presentano pesanti limiti ed enormi inadeguatezze, con una fisionomia, a livello nazionale, a macchia di leopardo.
L’assistenza domiciliare, a cui ricorrono due milioni e mezzo di anziani, infatti, scarseggia e diminuisce in tutte le aree geografiche del Paese, eccezion fatta per centro e isole, l’assegnazione di voucher, assegni di cura e buoni sociosanitari è stazionaria e calano, anche, i beneficiari delle indennità di accompagnamento. Per non parlare delle residenze, nelle quali diminuiscono - dal 2009 al 2013, si sono ridotti del 23,6 per cento - i posti letto, occupati da duecentosettantotto mila anziani, concentrati per lo più al Nord, e pure il personale impegnato.
Tempi di attesa lunghi, dai novanta ai centottanta giorni, e rette variabili e disomogenee (i dati al riguardo sono scarsi e poco aggiornati), con un range che va dagli ottanta ai centoquarantatre euro giornalieri, a seconda dell’intensità assistenziale.
“Lo scenario demografico che abbiamo di fronte non lascia spazio ai tentennamenti. L’Italia è già il paese più vecchio d’Europa con il 21,4% degli italiani over 65 e il progredire del livello di longevità, impone a tutti, soprattutto alle istituzioni ma anche a noi attori sociali, una risposta perché sta crescendo in modo esponenziale la domanda di assistenza”, fa sapere il presidente dell’Auser, Enzo Costa, che ha redatto il dossier “Domiciliarità e residenzialità per l’invecchiamento attivo”.
Anche perché, al già insufficiente numero di strutture sparse sul territorio nazionale - poco più di dodici mila - si aggiungono le centosettantasei sottoposte a sequestro o a chiusura e il malfunzionamento per comportamenti illeciti di quelle ancora attive.
Dal 2014 al 2016, i NAS hanno riscontrato più di mille e ottocento non conformità, circa tremila persone segnalate all’autorità giudiziaria o amministrativa, hanno effettuato sessantotto arresti, e attribuito oltre tremila sanzioni penali e più di duemila amministrative per oltre un milione e duecentomila euro.
Eppur qualcosa si muove, prova ne sia il disegno di legge approvato alla Camera ‘Misure per prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno ai minori negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia e delle persone ospitate nelle strutture sociosanitarie e socioassistenziali per anziani e persone con disabilità’. Per porre fine a una violenza senza età.

martedì 14 febbraio 2017

Attacco alle banche, per commissariare l’Italia entro il 2017

La Germania tenta il colpo grosso: commissariare l’Italia entro il 2017. Come? Imponendo alle banche di disporre di capitali aggiuntivi (che non possiedono) per poter garantire i titoli di Stato, cioè la linfa del bilancio. Dall’europarlamento di Bruxelles, Marco Zanni denuncia una grave minaccia di cui nessuno ha ancora parlato: il tentativo di commissariamento di Roma entro il 2017 da parte della Germania, nascosto in un emendamento all’articolo 507 del Regolamento sui requisiti patrimoniali delle banche. «È necessario diffondere il più possibile questa nuova minaccia, ancora una volta nascosta nelle pieghe di una incomprensibile burocrazia nata specificamente per mascherare ai cittadini le tecniche di controllo delle democrazie del sud Europa», afferma Claudio Messora su “ByoBlu”. «Di fatto è un tentativo che denunciammo già dal 2014 – dice Zanni – da quando ho iniziato ad occuparmi di regolazione bancaria a livello europeo e di tutto quel pacchetto regolamentare che noi in Italia – purtroppo a nostro discapito – abbiamo imparato a conoscere bene e che cade sotto il nome di “Unione Bancaria” o “Banking Union”». Unione Bancaria, ovvero quell’insieme di regole, per le banche dell’Eurozona, che si basa principalmente su tre pilastri: supervisione unica, “risoluzione del rischio” e assicurazione sui depositi.
La supervisione unica delle grandi banche all’interno dell’Eurozona è affidata al “Single Supervisory Mechanism”, cioè «quel braccio della Bce che deve supervisionare la corretta applicazione delle regole e la corretta patrimonializzazione delle banche». Angela MerkelFamigerato, poi il “Meccanismo di Risoluzione Unico”, «di cui fa parte la famosa regola del bail-in», di ci hanno fatto le spese i correntisti delle banche di Arezzo, Ferrara, Chieti. Manca ancora il “terzo pilastro”, cioè «un’assicurazione comune sui depositi di tutte le banche che cadono sotto questo cappello». Cosa sta accadendo dal 2014, da quando questo sistema sta entrando in vigore? «Queste regole sono state plasmate per distruggere il sistema bancario italiano e spingere il nostro paese a dover richiedere aiuto a istituzioni europee che – purtroppo – abbiamo imparato a conoscere bene», afferma Zanni. L’europarlamentare denuncia l’Omt della Bce: l’Outright Monetary Transactions è «la traduzione pratica di quel “whatever it takes” detto fin dal 2012 da Mario Draghi, cioè il fatto che la Bce farà di tutto per salvare l’euro». In più, incombe la richiesta di ricorrere all’“aiuto” del Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, già denunciato (anche da Messora) «per la sua struttura criminale», che oggi «diventa una possibilità concreta per “mettere in sicurezza” il sistema bancario».
«Quest’attacco all’Italia – continua Zanni – è partito attraverso questo insieme di regole che si chiama “Unione Bancaria”. E Marco Zannipoche settimane fa è stato fatto un passettino in avanti per affossare ancora di più il sistema bancario italiano, per attaccare i titoli del nostro debito pubblico e costringere inevitabilmente il governo italiano a intraprendere due strade, che portano entrambe inevitabilmente al commissariamento da parte della Troika». Secondo Zanni, ci aspettano «l’attacco, la speculazione sul debito pubblico e quindi la richiesta di Omt, con conseguente arrivo della Troika», o in alternativa «il collasso inevitabile del sistema bancario italiano, con la richiesta di ricapitalizzazione del sistema tramite il Mes, quindi le condizionalità annesse e infine l’arrivo della Troika». Allarme rosso, per l’europarlamentare ex grillino: «Questo è quello che sta succedendo oggi all’interno delle istituzioni europee, nel più totale silenzio dei nostri media». Stampa e televisione «di questo non parlano, preferiscono disquisire di una fasulla diatriba tra Roma e Bruxelles sullo 0,2% del Pil, su questa manovra correttiva da 3-4 miliardi di euro. Qui invece sono in gioco decine di miliardi di euro».

lunedì 13 febbraio 2017

Giornalista USA sulle guerre del suo Paese: "La fossa comune che chiamiamo danni collaterali"

Quando un giornalista di Fox News ha definito "assassino" il presidente russo, Valdimir Putin, Donald Trump ha replicato: "Cosa pensi che il nostro paese è così innocente?". "Abbiamo molti assassini [negli Stati Uniti] troppi", rispose il neo presidente degli Stati Uniti.
Lo scrittore e giornalista Robert Koehler ha ricordato in un articolo per 'The Huffington Post' che queste dichiarazioni hanno generato abbastanza indignazione nella società degli Stati Uniti. A molti non è piaciuto che Trump abbia messo il suo paese e la Russia sullo stesso livello morale.
"Peccato che non possiamo chiedere a Nawar al-Awlaki, 8 anni, la sua opinione su quali omicidi siano peggiori, quelli degli Stati Uniti o della Russia", ha detto a proposito l'editorialista. Ha ricordato, che la bimba morì "dissanguata per una ferita al collo una settimana prima del colloquio con Trump, durante il disastroso raid Usa in Yemen, che ha lasciato 23 civili morti."
Lo scrittore ha sottolineato che, anche se era un raid autorizzato da Trump, l'azione era stata pianificata molti mesi prima. Un neonato anche è stato ucciso anche durante l'operazione.
"Quanti bambini sono stati finora sepolti in quella fossa comune che chiamiamo danni collaterali?" Ha chiesto l'editorialista. Koehler ha ricordato, inoltre, che il fratello maggiore della ragazza, Abdulrahman Awlaki, è morto all&#
39;età di 16 anni a seguito di un attacco di un drone ordinaoa da Barack Obama in Yemen nel 2011. Questo è accaduto appena due settimane dopo che il padre dei bambini , un presunto leader di Al Qaeda e cittadino degli Stati Uniti, è stato ucciso in un altro attacco di un drone.
"Ma la politica dei nostri assassini con i droni, i nostri attacchi aerei, e le nostre guerre e ammorbidiscono e giustificano i crimini che commettiamo", ha scritto il giornalista. Ha ricordato, che ancora oggi "si rifiutano di assumersi la responsabilità ufficiale" per le conseguenze della guerra in Iraq. "Il paese è distrutto, i morti, i rifugiati, l'emergere del terrorismo: Andiano, siano un po' flessibili, con noi. Porteremo la democrazia in Iraq", ha ironizzato.
Per quanto riguarda le recenti parole del nuovo inquilino della Casa Bianca, Koehler ha afferma che "Trump imprevedibilmente ha sputato fuori un frammento di verità nell'intervista a Fox News, e la critica si contorce solo per l'indignazione." Inoltre, il giornalista ha sostienuto che Trump, il cui sostegno si basa su 'eccezionalismo' degli Stati Uniti, "sta giocando un gioco strano," e lo accusa di "razzismo ed ipocrisia".
"Nel suo il razzismo e l'ipocrisia, Trump sta esponendo l'ipocrisia dei media e del complesso militare-industriale? È il nuovo presidente in qualche modo coinvolto con i bambini la cui morte continuerà ad ordinare?" ha concluso Koehler.

venerdì 10 febbraio 2017

Droghe, il 7,5% degli sportivi fa uso di sostanze vietate

Il 7,5% degli atleti fa uso di anabolizzanti, stimolanti, diuretici, cortisonici, cannabinoidi ed altre sostanze vietate. E’ il frutto di una ricerca condotta dal Laboratorio di Tossicologia Clinica e Antidoping dell’Azienda USL Toscana centro su un campione di 2.787 sportivi. La maggior parte dei positivi (70%) è costituita da cannabinoidi (148 campioni); gli stimolanti rappresentano il 17% dei positivi (35 campioni) e gli anabolizzanti il 13% (27 campioni).
“Trattandosi di campioni di volontari – riferisce il dottor Roberto Baronti, responsabile del laboratorio - il risultato è comunque sorprendente e comunque è molto più alto dei risultati della Commissione vigilanza sul doping, che riporta una positività totale del 3,4%”.
Nel frattempo, ha ottenuto la nuova certificazione di validità triennale a seguito dalla visita ispettiva dell’Istituto Superiore di Sanità il Laboratorio di Tossicologia Clinica e Antidoping dell’Azienda USL Toscana centro. Il Laboratorio è a valenza regionale e la Toscana è stata la prima ad aprirlo a livello nazionale e sempre la prima ad accreditarlo nel 2007. Istituito con l’obiettivo di tutelare la salute di chi pratica l’attività sportiva il laboratorio effettua controlli antidoping finalizzati alla prevenzione del fenomeno

giovedì 9 febbraio 2017

La Grecia di nuovo sotto i riflettori: il FMI avverte che il debito greco è su una traiettoria "esplosiva"

Nella sua nuova valutazione dell'economia greca, diffusa ieri, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha avvertito che il debito pubblico del paese si trova su un percorso "esplosivo" e ancora una volta ha invitato il resto della zona euro ad offrire alla Grecia una "riduzione del debito significativa." Il FMI ha finora rifiutato di essere coinvolto nel terzo programma di salvataggio greco a meno che non vengano adottate misure per assicurare che il debito greco sia sostenibile.
Tuttavia, il ministro delle Finanze olandese e presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha commentato "E 'sorprendente, perché la Grecia sta già facendo meglio di quanto descrive il rapporto del FMI. Alla fine del corrente programma di [di salvataggio], a metà del 2018, cercheremo ancora una volta di vedere ciò che è possibile e ciò che è necessario. Ma non prima. "

mercoledì 8 febbraio 2017

Draghi non sa più che pesci prendere. Ora l’Euro torna “irrevocabile”

La questione è un po’ più complicata di come l’ha voluta rappresentare il numero uno della BCE: innanzitutto perché, come la lettera di Draghi ammette, e come un attento articolo di scenarieconomici.it fa subito notare, nel saldo Target 2 rientra anche l’Assets Purchasing Program (APP), ovvero il programma di acquisto degli assets finanziari rientranti nel Quantitative Easing.
In pratica, per acquistare i titoli di stato europei sul mercato secondario, la BCE si serve della liquidità proveniente dalle banche centrali nazionali. In questo caso, con la liquidità proveniente da Banca d’Italia, Mario Draghi compra titoli di stato che per la maggior parte non sono italiani e questi rappresentano un nostro credito, non un debito.
Perché allora il saldo Target 2 risulta negativo? Semplicemente perché il sistema Target 2 non indica esclusivamente un rapporto di debiti e crediti dei vari stati europei, ma si limita a registrare contabilmente i movimenti di capitale tra le banche centrali nazionali e la BCE, che fa da intermediaria.
Come rivela la stessa lettera di Draghi, l’allargamento del saldo negativo italiano registrato dal Target 2 non è dovuto ad operazioni di natura commerciale che determinano uno spostamento di capitali dall’Italia verso la Germania, ma al programma di acquisto di assets finanziari APP. Pertanto, a fronte di una parte consistente di quei 358 miliardi di saldo negativo, con tutta probabilità ci sarebbe un credito del nostro Paese verso altri Stati dell’Eurozona.
E per la parte di saldo proveniente da transazioni commerciali? Costituiscono un debito? Per rispondere a questa domanda dobbiamo cercare di capire innanzitutto come lavora il sistema Target 2. Per farlo ci aiuteremo con un articolo del giugno 2012 scritto da Felix Salmon, giornalista esperto di economia e finanza, tradotto in italiano da Voci dall’Estero.
Salmon spiega: “Ciascuna banca dell’Eurosistema è titolare di un conto presso la rispettiva banca centrale nazionale — e se si somma tutto il denaro presente in tutti questi conti, il totale è il saldo Target2 presso la banca centrale in questione. Vale la pena qui ricordare l’unica cosa su cui tutti sono d’accordo riguardo i Target2: finché la zona euro resta in piedi, non sono affatto un problema. La somma della totalità di saldi Target2 nelle varie banche centrali è sempre zero, ed il sistema funziona efficientemente e perfettamente.
Se una signora spagnola fa un assegno al suo terapista, il denaro esce dal suo conto ed entra nel conto del terapista. Finché entrambi i conti sono presso banche spagnole, si tratta solo di un trasferimento da una banca all’altra, ed il il saldo Target2 presso il Banco de España rimane invariato. Supponiamo però che la nostra correntista spagnola decida di trasferire €1.000 da Banco Santander su un conto della Deutsche Bank. In questo caso, il saldo nel suo conto Santander andrà a sotto di €1.000, ed il Banco de España dovrà anch’esso dedurre €1.000 dal conto di Santander presso la Banca centrale. In Germania, €1,000 si materializzano sul conto Deutsche Bank, ed alla prima occasione Deutsche Bank depositerà questa somma nel suo conto presso la Bundesbank, cosicché la Bundesbank aggiungerà €1.000 al saldo di Deutsche Bank.
In pratica, il Banco de España avrebbe appena distrutto €1.000, e la Bundesbank avrebbe appena creato €1.000. Non è un problema — si tratta di banche centrali, e la funzione delle banche centrali è quella di creare e distruggere denaro. Ma per semplici ragioni di contabilità, i conti nell’Eurosistema devono essere pareggiati. Teniamo presente che quelli che per noi normalmente sono degli attivi, per le banche sono passività. Quindi Deutsche Bank deve €1.000 alla nostra signora spagnola — che è un altro modo per dire che lei deposita €1.000 presso Deutsche Bank. A sua volta, Deutsche Bank deposita €1.000 presso la Bundesbank, il che significa che la Bundesbank deve €1.000 alla Deutsche Bank. E la catena continua: la BCE deve €1.000 alla Bundesbank, il Banco de España deve €1.000 alla BCE, e Santander deve €1.000 al Banco de España, dal momento che Santander ha di fatto dovuto prendere in prestito il denaro dal Banco de España per poterlo trasferire alla Deutsche Bank.
Trattandosi di alta finanza, gli obblighi verso le banche centrali nazionali sono qui garantiti, sicché il Banco de España detiene garanzie da parte di Santander che coprono abbondantemente i €1.000 dovuti. Da parte sua, il Banco de España invece non è tenuto a fornire garanzie alla BCE. Le banche centrali non hanno bisogno di fare nulla del genere: le garanzie non sono necessarie poiché esse possono sempre stampare denaro in caso di bisogno.
Non è comunque difficile capire che il saldo Target2 della Bundesbank è ultimamente in crescita, mentre i saldi delle periferie sono in diminuzione: è in atto una corsa verso investimenti più sicuri, e le banche tedesche sono (giustamente) percepite come più sicure delle banche spagnole, greche e di quelle degli altri paesi della periferia. Analogamente, le banche tedesche che hanno prestato denaro a debitori spagnoli — ed in particolar modo alle banche spagnole — non rinnovano questi prestiti. Quando i prestiti sono ripagati, le banche tedesche depositano semplicemente il denaro presso la Bundesbank, invece di prestarli nuovamente a qualche paese in seria difficoltà. Questo fa aumentare ulteriormente i saldi Target2 della Bundesbank, ed ogni qualvolta ciò accade c’è una riduzione uguale e contraria dei saldi Target2 altrove.
Si nota dunque subito ad occhio nudo come stanno davvero le cose: il denaro affluisce verso la Germania. I risparmiatori dei PIIGS o rimborsano direttamente i loro debiti con le banche tedesche, oppure trasferiscono i loro fondi presso conti in banche tedesche. In tal senso, è un po’ strano che personaggi come Sinn e Soros descrivano queste transazioni come denaro prestato dalla Germania alla periferia — in realtà, i flussi sono nella direzione esattamente opposta. Ma per ragioni contabili, questi flussi generano obblighi di contabilizzazione interna fra le varie banche dell’Eurosistema, e a quanto pare sono proprio questi obblighi di contabilità interna a preoccupare così tanto Soros e Sinn.”
Abbiamo compreso in larga sostanza come funzionano i trasferimenti di denaro da un Paese ad un altro e come purtroppo si evince, il trasferimento parte quasi sempre dai Paesi periferici per giungere in Germania.
Comunque, finché resta in piedi l’Eurozona, anche con questi squilibri, il sistema contabile registrato dal Target 2 da sempre somma zero. Ma se un Paese volesse uscire, cosa accadrebbe? Continuiamo la lettura dell’articolo di Felix Salmon:
“Un’eventuale uscita della Grecia sarebbe troppo poco significativa per destare preoccupazioni. La Grecia ha un saldo negativo Target2 di circa €100 miliardi. Questo significa che le banche greche devono €100 miliardi alla Bank of Greece, che sono coperti da garanzia; e che a sua volta la Bank of Greece deve €100 miliardi alla BCE in titoli non garantiti. Se la Grecia dovesse svalutare in modo caotico ed andare in default, sarebbe perfettamente ragionevole pensare che la Bank of Greece non adempirebbe ai suoi obblighi verso la BCE, e tratterrebbe per sé le garanzie delle banche greche, per aiutare a finanziare il più possibile la nascente dracma.
Se dovesse succedere, il fondo dell’Eurosistema — le altre 16 banche centrali, più la BCE — subirebbe una perdita contabile di €100 miliardi. Ma esse dispongono di un capitale di €86 miliardi, e possono creare altri 400 miliardi di capitale in qualsiasi momento, semplicemente rivalutando le loro riserve auree. Quindi trovare €100 miliardi non sarebbe difficile — soprattutto perché lo stesso concetto di banca centrale insolvente è un tantino assurdo. Anche nel caso in cui il capitale di una banca centrale cessasse di essere positivo e diventasse negativo, all’atto pratico nulla cambierebbe. Le banche centrali non possono fallire, perché possono sempre stampare moneta.”
Ma guarda un po’ che dice questo populista: “Le banche centrali non possono fallire, perché possono sempre stampare moneta”. Dovremmo chiudere il nostro discorso già qui, perché se è vero che le banche centrali non possono fallire, vorrebbe dire che le loro passività sono mera scrittura contabile. Non si capisce perché allora Draghi si faccia forte nell’esigere crediti, quasi come se la BCE avesse a bilancio sofferenze di non performing loans e rischiasse di saltare come Banca Etruria o Monte dei Paschi.
Qualcuno a questo punto potrebbe osservare che per la Germania il saldo Target 2 è in attivo di più di 700 miliardi e che la Bundesbank tiene depositato quel denaro alla BCE, la quale è debitrice della Banca Centrale tedesca per 700 e rotti miliardi di euro. Come avrete già compreso, però, quel denaro è già nel circolo dell’economia tedesca in mano a risparmiatori e famiglie tedesche.
Perciò quel “debito” è semplicemente un passaggio contabile tra banche centrali, le quali non possono fallire. Una volta che l’euro venisse smantellato, la Bundesbank non andrebbe di certo a bussare alla porta delle famiglie tedesche per farsi ridare i soldi. Semplicemente potrebbe ricreare riserve in nuova valuta stampando marchi. Sarebbe comunque un passaggio obbligato visto che la moneta nuova andrebbe per forza stampata.
Oltretutto, la fine dell’Euro significherebbe quasi certamente la fine della BCE, a meno che uno smantellamento controllato della moneta unica prevedesse il ritorno ad un sistema monetario fittizio tipo ECU che potrebbe necessitare, almeno temporaneamente, di una banca centrale europea ancora attiva. Nel primo caso verrebbe a mancare il soggetto determinante di tutte le transazioni finanziarie e commerciali, per cui non esisterebbero né più debiti e né più crediti, nel secondo caso la questione rimarrebbe probabilmente oggetto di negoziato e a quel punto, servirebbero semplicemente dei bravi negoziatori capaci di non farsi fregare. Giusto per dirne una, se di squilibri commerciali si tratta, presumibilmente una volta smantellato il cambio fisso tra Germania e PIIGS, ci sarà una inversione di rotta e quei “debiti” verranno pian piano ripagati.
Come abbiamo detto già diverse volte, il nuovo corso alla Casa Bianca è apparentemente anti-Euro. Non solo Donald Trump ha fatto precise dichiarazioni di non amare particolarmente la moneta unica europea e la svalutazione competitiva della Germania, ma gli hanno fatto eco alcuni suoi collaboratori: il primo, Ted Malloch, professore alla Henley Business School, consigliere del Presidente USA e papabile ambasciatore USA in UE, in una intervista rilasciata alla BBC ha detto testualmente che “l’Euro ha meno di 18 mesi di vita”.
Il secondo, Peter Navarro, capo del Consiglio per il Commercio di Donald Trump, ha attaccato la Germania, dichiarando: “Lo squilibrio strutturale degli scambi che la Germania ha con il resto dell’Ue e con gli Usa riflette l’eterogeneità economica dell’Ue. Quindi, questo è un accordo multilaterale mascherato da bilaterale. Un grande ostacolo rispetto al considerare il Ttip come multilaterale è la Germania, che continua a sfruttare altri Paesi con quello che è un marco tedesco implicito fortemente sottovalutato”.
A dar ragione a Peter Navarro non è il populista di turno, bensì Wolfgang Schäuble che attaccando Draghi ha detto che l’Euro “è troppo debole per la Germania” e che “la BCE deve attuare politiche che lavorano per l’Europa nel suo complesso”, aggiungendo: “Il tasso di cambio dell’Euro è troppo basso per la competitività della Germania. Quando il capo della BCE ha intrapreso la politica monetaria espansiva, gli dissi che avrebbe fatto salire il surplus di esportazione della Germania”.
In realtà, quel che interessa di più a Schäuble non è tanto il tasso di cambio che probabilmente continuerebbe volentieri a tenerlo basso, piuttosto è preoccupato, per la nota fobia che i tedeschi si portano dietro dall’esperienza di Weimar, dall’aumento dell’inflazione in Germania che a gennaio a segnato un +1,9%, cifra molto vicina a quel 2% considerato dalla BCE obiettivo fondamentale del suo Quantitative Easing.
In pratica Schäuble intima velatamente a Draghi di alzare i tassi e di ridurre, o magari interrompere, il programma di Quantitative Easing, perché l’obiettivo del 2% di inflazione, con la complicità della risalita del prezzo del petrolio, è prossimo a realizzarsi. Cosa importa a Schäuble se mentre in Germania l’inflazione risale, nel sud Europa invece l’Italia e gli altri arrancano tra deflazione e zero virgola? Assolutamente nulla.
Dopo Draghi, Trumpiani e Schäuble, è la volta di Angela Merkel: a Malta, la Cancelliera tedesca ha fatto delle dichiarazioni shock: “Abbiamo imparato dalla storia degli ultimi anni che ci potrebbe essere un’Europa a differenti velocità e che non tutti parteciperanno ai vari passi dell’integrazione europea. Ritengo che questo potrebbe essere incluso nella dichiarazione di Roma”, il prossimo 25 marzo quando i 27 Paesi UE decideranno come affrontare il post-Brexit.
Fate bene attenzione, però, Angela Merkel non ha parlato espressamente di “Euro a due velocità”, che potrebbe essere il passo iniziale di uno smantellamento controllato della moneta unica, ma ha parlato di “Europa a differenti velocità”, che potrebbe sottintendere un processo di maggior integrazione per i Paesi aderenti alla moneta unica.
Cosa che per noi potrebbe non essere molto positiva, perché l’integrazione si farebbe alle regole della Germania: quindi scordatevi trasferimenti nord-sud e politiche di bilancio espansive. E se anche Prodi commenta contento che “questa è la risposta che aspettavo. Finalmente la Germania sembra cominciare ad assumere quel ruolo di leadership che non aveva mai voluto esercitare”, allora è quasi certo che si tratti di fregatura.
Tuttavia, gli sviluppi degli ultimi giorni hanno dato il via a vari riposizionamenti. L’Uscita dall’Euro non è più un tabù, tanto che i media nazionali hanno dato particolarmente risalto alla conferenza “Oltre l’Euro” con Alberto Bagnai, Claudio Borghi, Marco Zanni e moderata da Mario Giordano (potete vedere il video integrale qui mentre potete scaricare il manuale “Oltre l’Euro” qui). Per La7, ad esempio, “l’uscita dall’euro ora non è più suggestione” tanto che “i benefici potrebbero arrivare a 56 miliardi di Euro”.
Ma è dal fronte banche, alle prese con ricapitalizzazioni e crediti deteriorati, che i malumori per la moneta unica si fanno sentire con più forza. Ancora abbastanza catastrofista, tuttavia possibilista, Unicredit, che ieri ha dato il via ad un massiccio aumento di capitale da 13 miliardi di Euro che si chiuderà il 10 marzo, inserisce tra i “fattori di rischio” del maxi aumento elencati dalla nota di sintesi approvata dalla Consob, vengono citate l’ipotesi di “uscita di uno stato membro dall’Euro”, le incognite su come potrebbero essere gestite in questo caso “le attività e passività correnti denominate in euro” del Paese, ma soprattutto la “disgregazione dell’area euro”.
Uno studio di Mediobanca riservato ai clienti più facoltosi rivela che se l’Italia uscisse ora dall’Euro “si risparmierebbero 8 miliardi”. Questo perché la ridenominazione del debito pubblico in lire (tramite lex monetae) e il conseguente deprezzamento della lira “possono supportare una sostanziale decurtazione del debito e, insieme a una politica monetaria ritornata sovrana, possono creare le condizioni per un genuino rilancio dell’economia italiana”.
Lo studio appare molto equilibrato (lo trovate completo in pdf qui) perché considera il debito pubblico anche a fronte dell’applicazione delle CACs, clause di azione collettiva, approvate dal governo Monti nel 2012 (ad ogni guaio c’è sempre lui di mezzo), le quali a partire dal 1 gennaio 2013, vincolano l’emissione dei titoli di Stato alla legislazione europea e pertanto una volta usciti dall’Euro, il debito pubblico di recente emissione rimarrà espresso in Euro e non verrà convertito. Appare evidente quindi che più si rimanderà l’uscita e più si ridurranno i benefici della conversione del debito pubblico.
Intanto continua il tira e molla tra Italia e Commissione UE sui conti pubblici. La lettera inviata dall’Eurogruppo all’Italia il 5 dicembre scorso parlava di un buco di 16 miliardi nel deficit strutturale, mentre la Commissione UE ne chiede per ora soltanto 3,4. Alle minacce di commissariamento, il governo italiano si è messo in ginocchio ed è pronto a mettere a posto i conti e a trovare i soldi per il terremoto, aumentando le accise sulla benzina. Siamo uno Stato fallito, questo è ormai evidente.
Torniamo ora a Mario Draghi. Accortosi del polverone e delle reazioni che le sue parole sull’Euro hanno provocato, ieri è tornato sui suoi passi. “L’Euro è irrevocabile” – ha detto, parlando prima in italiano, poi in inglese. Secondo lui i trattati non lo prevedono, ma forse dovrebbe lasciare che di questo se ne occupino i giuristi.
È notizia di queste ore, invece, che per paura di Marine Le Pen, lo spread è risalito sopra i 200 punti base.
Ma noi sappiamo che lo spread sale e costituisce un problema solo se la Banca Centrale lo permette, perciò sarebbe meglio per Draghi pensare esclusivamente al suo lavoro.

martedì 7 febbraio 2017

Ministro greco invita Schaeuble a lasciare la zona euro

"Se Schaeuble continuerà con questa politica, allora vedremo una serie di accordi bilaterali tra i paesi del sud [Europa], non c'è alternativa. Le discussioni tra la diplomazia francese, spagnola, portoghese e greca sono già iniziati. Noi non cediamo l'euro a nessuno, se la Germania vuole questo, allora è la Germania che dovrebbe lasciare [la zona euro] ".
A dichiararlo è il Vice Ministro delle Infrastrutture, Nikos Mavraganis, che ha commentato in questo modo l'atteggiamento del governo tedesco e soprattutto del ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble. Lo riporta il blog KTG.
In un'intervista con la radio Salonicco NORD 98 FM, Mavraganis ha invitato la Germania a riconsiderare la sua politica, "altrimenti vedremo accordi bilaterali tra i paesi del sud europeo entro un anno." E ancora: "Se Schaeuble ritiene di poter spremere il Sud, poi il Sud non avrà altra soluzione".
Riferendosi alle forze congiunte dei paesi del sud, il ministro ha detto che tali "accordi bilaterali erano maturi", aggiungendo che i leader che hanno firmato la dichiarazione del Sud erano d'accordo sul fatto che "ci devono essere diverse politiche rispetto all'umana dignità."
Alla domanda della differenza delle "due Europe con una moneta unica," Mavraganis ha dichiarato: "Noi non cederemo il diritto sull'euro a nessuno. Se qualcuno vuole lasciare l'euro, che lo faccia, se i tedeschi vogliono, è un loro diritto."

lunedì 6 febbraio 2017

Poletti “sperimenta”, ma il part time agevolato è un flop annunciato

Per un governo e un'ideologia che ha fatto del “merito” una bandiera da sventolare non ci dovrebbe essere nulla di peggio che ospitare ben tre ministri senza laurea (Poletti, Lorenzin e addirittura il ministrao dell'istruzione, Fedeli). Si può benissimo dire che per anche senza un titolo di studio elevato si possa comunque esser molto competenti nel compito assegnato, ossia individuare i problemi del paese e dar loro soluzione efficace. L'esperienza può fare miracoli, in un cervello creativo.
Guardando però ai risultati del part time agevolato per avvicinare gli ultrasessantenni alla pensione c'è da dubitare che il ministro del lavoro – Giuliano Poletti, ex presidente della Coop, grande beneficiaria delle leggi che hanno legalizzato precarietà e lavoretti sottopagati – sia in grado di trovare soluzioni minimamente efficaci.
La pensata del part time sembrava una genialata all'italiana: i lavoratori anziani che avrebbero maturato il requisito di vecchiaia (66 anni e 7 mesi) entro il 31 dicembre 2018 potevano scegliere (dal 2 giugno 2016) di ridurre l'orario di lavoro, perdendo poco in termini salariali perché lo Stato avrebbe garantito i contributi previdenziali risparmiati dall'azienda e anche una parte della differenza salariale.
Perché la riduzione d'orario potesse avvenire serviva solo l'accordo tra lavoratore e impresa, senza tanta burocrazia. E Poletti aveva stimato il 30.000 le domande che sarebbero arrivate.
Sono state solo 200. Lo zero virgola sei per mille. Praticamente nulla. Chiunque si fosse esercitato nel banale calcolo costi benefici (sia dal lato aziendale che da quello del lavoratore) poteva vedere che il gioco non valeva la candela; mentre dal lato dei conti pubblici – avvertiva Tito Boeri, liberistissimo presidente dell'Inps – ci sarebbe stato un aggravio dei costi amministrativi.
E dire che la campagna di comunicazione istituzionale era stata potente, con spot pubblicitari ben recitati e ben girati (anche questo è un costo, ovviamente che non viene compreso tra quelli per l'attuazione della misura snobbata).
Lo stesso insuccesso, forse ancora più clamoroso, è stato registrato da un'altra "pensata" del prolifico Poletti con l'entusiastico appoggio di Renzi: mettere – a richiesta – il tfr in busta paga, per avere l'imrpessione di guadagnare di più subito, al prezzo ovviamente di andare in pensione con un assegno miserabile.
Mancano ancora i dati, ma probabilmente anche l'ultimissima invenzione Poletti-Renzi (andare in pensione fino a tre anni prima, ma chiedendo un mutuo in banca) darà gli stessi miserabili risultati.
Il ministro si è difeso parlando della necessità di “sperimentare”. Ma proprio per poter immaginare e realizzare degli esperimenti, in genere, occorre aver studiato…
Sembra eccessivo chiedere a un ministro che non ne ha mai imbroccata una di dimettersi e andare felicemente in pensione subito?

venerdì 3 febbraio 2017

L’euro è un’agonia

Il Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, in una lettera di risposta a due parlamentari europei del Movimento Cinque Stelle, ha messo in chiaro come l’Italia qualora uscisse unilateralmente dall’Euro-zona dovrebbe rimborsare in toto le sue passività accumulate nei confronti della BCE. L’Italia infatti nel mercato interbancario regolato dai saldi Target 2 ha un debito pari attualmente a circa 350 miliardi. In caso di fuoriuscita dall’euro, tale debito dovrebbe essere rimborsato. Nell’affermazione del Presidente della BCE vi sono un paio di implicazioni meritevoli di particolare attenzione.
I saldi del sistema Target 2 aggiornati all’ottobre 2016, in miliardi di euro. Il sistema Target 2 registra tutti i pagamenti interbancari all’interno dell’eurozona. L’Italia ha un deficit nei confronti dell’euro-sistema di circa 350 miliardi di euro. Mario Draghi ha affermato che in caso di uscita unilaterale dalla moneta unica, l’Italia sarebbe tenuta a saldare interamente la sua posizione debitoria.
La prima è che ai massimi vertici in realtà si sta già prendendo in considerazione l’ipotesi di ammainare la bandiera della moneta unica. Questo potrebbe significare un ripiegamento da parte di alcuni Paesi verso un nazionalismo monetario e, per l’Italia in particolare, si tratterebbe di tornare alla lira. In alternativa, si è parlato di un “doppione” dell’euro, con una valuta diversa per i paesi del Nord Europa e per quelli del Sud in modo da tenere insieme i Paesi che hanno fra loro un progresso economico maggiormente livellato e omogeneo. E’ chiaro che questa seconda ipotesi dipenderà molto da come andranno le presidenziali francesi che si terranno tra fine aprile e inizio maggio e che attualmente vedrebbero profilarsi un secondo turno in cui la leader del Front National, Marine Le Pen, si troverà a fronteggiare il gollista François Fillon, in grossa difficoltà a causa di uno scandalo finanziario che occupa tutte le prime pagine parigine da una settimana, o Emmanuel Macron, l’ex-ministro dell’Economia che si presenta come candidato indipendente.
La seconda implicazione è che finalmente anche chi guida la BCE, come lo stesso Draghi, ha ammesso che non esiste un unico mercato monetario dell’euro. O meglio: esiste, si chiama per l’appunto Target 2, ma è incompleto perché non prevede meccanismi di compensazione tra paesi persistentemente in deficit, come l’Italia e paesi persistentemente in surplus, come la Germania, con un reinvestimento da parte di questi ultimi in modo da compensare le passività dei primi. E si sa che i tedeschi non hanno alcuna intenzione di utilizzare le proprie disponibilità finanziarie a tale fine scaricando così gli squilibri sulla sfera finanziaria, violando le impossibili norme del Trattato Europeo riguardo gli sforamenti del surplus commerciale. Impossibili, perché scritte dallo stesso governo Merkel nel 2009 che se le dovrebbe anche auto-applicare.
Con il Front National in testa ai sondaggi e il candidato del centro destra, François Fillon, in grave difficoltà, le elezioni francesi si annunciano fondamentali per il futuro della moneta unica.
Quando l’economista britannico J.M. Keynes, durante le trattative di Bretton Woods quale rappresentante del governo di Sua Maestà ammonì il suo omonimo americano, Harry Dexter White, in merito alle debolezze connaturate ad un sistema monetario incentrato su un’unica moneta, il dollaro, non lo fece solo per difendere l’interesse britannico durante gli accordi con gli Stati Uniti. Lo fece anche, e soprattutto, per preservare un sistema monetario che non ricadesse negli errori del precedente sistema aureo e che a differenza di quest’ultimo avesse come obiettivo la stabilità fra paesi, sottolineando come la condizione di un paese persistentemente in surplus non sia affatto simile a quella di un paese strutturalmente in deficit. E per preservare un meccanismo che non crei asimmetrie e sbilanciamenti nelle rispettive bilance dei pagamenti di ogni stato – anche se il Target 2 vale solo per il sistema dei pagamenti tra i rispettivi paesi dell’Eurozona – è necessaria una “camera di compensazione” (clearing house) che non sia dettata dai soli rapporti di forza, cioè da un aggiustamento dei soli paesi in deficit verso “il basso”, con misure di austerità e di taglio delle importazioni, ma anche da aggiustamenti dei paesi in surplus, in modo tale che quest’ultimi non siano incentivati a sviluppare un approccio neo-mercantilista, ma abbiano invece una situazione di commercio bilanciato che è il presupposto da cui partire per avere sani rapporti di libero scambio.
Il Prof. Massimo Amato dell’Università Bocconi di Milano ripercorre la genesi dell’unione monetaria europea e le ragioni strutturali della sua fragilità, legate all’assenza di un meccanismo per correggere gli squilibri interni.
Il fatto che la baraonda europea non sia ancora implosa su se stessa non può essere un indice del suo livello di sanità o del suo elevato grado di resistenza. Il fatto che sull’Eurozona non si sia ancora abbattuto un effetto domino – anche se a livello di Unione Europea la Brexit segnala che ci si sta muovendo in tale direzione – lo si deve non alla struttura mal congegnata dell’Euro, ma alla bravura tattica dell’attuale Presidente della BCE che a partire dal 2012, tra l’altro con un bluff, ha assopito la crisi di liquidità dei paesi strutturalmente in difficoltà. Al tempo stesso però, si è acuita l’impasse strategica dei governi. E saranno loro a decidere politicamente cosa fare della moneta unica. Con la speranza che la triste fine dell’euro non avvenga unilateralmente, non sia l’ennesimo indicatore della frammentazione dei sistemi economici nazionali, ma rappresenti invece una nuova fase per l’Europa. Stavolta, possibilmente, non a guida tedesca.

giovedì 2 febbraio 2017

Trump: “L’euro è un marco travestito con cui la Germania sfrutta USA e UE.

L’amministrazione Trump lancia un’offensiva contro l’euro. E in particolare attacca la Germania, colpevole di sfruttare un moneta unica “ampiamente svalutata per sfruttare gli Stati Uniti e gli altri Paesi europei.”
A dirlo, in un’intervista al Financial Times, Peter Navarro, che guida il Consiglio nazionale sul Commercio.
Secondo il consigliere di Trump, l’euro è come una sorta di marco svalutato che dà a Berlino un vantaggio sui suoi principali partner commerciali. L’euro è “un marco tedesco camuffato”, il cui valore troppo basso dà a Berlino un vantaggio sui principali partner. L’attacco di Trump alla politica commerciale della Germania è stato sferrato da Peter Navarro, capo del Consiglio nazionale sul commercio, organismo creato dal presidente americano per stabilire le linee della sua nuova politica economica.
La Germania sta quindi usando una “grossolana sottovalutazione dell’euro” per sfruttare USA e UE.
La cancelliera Merkel ha ribattuto: “la Germania è un paese che ha sempre ha chiesto alla Banca centrale europea di portare avanti una politica indipendente, come faceva la Bundesbank prima che l’euro esistesse”. In altre parole, la Merkel nega ogni addebito.
Intanto però l’euro si è rivalutato sul dollaro. La polemica fra Washington e Berlino non accenna a placarsi e anzi gli eurofili – o eurofolli – reagiscono contrattaccando.
Per il Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, dichiara che Cina, Russia e la nuova America di Trump rappresentano i rischi principali per la UE.
Ecco cosa ha dichiarato a Tallin, Estonia:
“Per la prima vola nella nostra storia, in un mondo che è sempre più multipolare, sono molti coloro che diventano apertamente anti-europei, o euroscettici. In particolare, il cambio a Washington mette l’Unione europea in una situazione difficile. Con la nuova amministrazione sembrano messe in discussione gli ultimi 70 anni della politica estera statunitense”.
La brama di potere della Germania e la voglia di rivalsa dei “paesetti” dell’est Europa ci stanno portando sempre più in un vicolo cieco, in fondo al quale si ode un sinistro tintinnio di sciabole.
Non si capisce bene la ratio di questa volontà di scontrarsi contro il resto del mondo. Forse la Germania ha scritto nel DNA qualcosa riguardo allo scatenare guerre contro avversari più forti e numerosi, in particolare la Russia, come noi abbiamo forse qualche istruzione genetica che ci impone di seguire ciecamente i tedeschi nelle loro follie.
Altrimenti non si spiegherebbe il perché di questa cieca corsa verso il baratro. Ovviamente non bisogna essere ingenui: quest’ennesima bordata americana contro la Merkel non è dovuta a chissà quale spirito umanitario, ma semplicemente alla volontà di Trump di difendere l’occupazione americana e la sua produzione.
Ma la cosa potrebbe essere volta a nostro vantaggio, ad esempio per strappare concessioni dalla Germania, se solo i nostri politici fossero capaci di scelte coraggiose e di rottura. Al momento, però, non c’è nulla di simile all’orizzonte: la Germania comanda, noi si borbotta un po’, ma poi si esegue, magari trascinando i piedi come dei bambini mandati in punizione dal padre.
Ancora non sappiamo quando e come l’euro e la UE falliranno, ma purtroppo sembra certo che noi, come capita da tempo, il cambiamento lo subiremo senza essere in grado di dirigerlo neppure un po’.
L’unica consolazione sarà quella di vedere gli eurofili di oggi affannarsi a smentire di essere mai stati proeuro. Un po’ come quando Craxi fu costretto alla fuga: non si sarebbe potuto trovare un socialista neanche a pagarlo a peso d’oro.

mercoledì 1 febbraio 2017

Una famiglia greca su 2 campa della pensione di un parente

Tagli a sangue la spesa pubblica, imponi tasse folli, elimini la moneta sovrana. E ottieni, esattamente, la Grecia: dove, si apprende, un cittadino su due sopravvive, lottando contro la fame, solo grazie alla piccola pensione percepita da un membro della famiglia. E’ la fotografia perfetta del rigore “germanico” imposto all’Europa con la moneta unica, che impedisce allo Stato di proteggere la comunità nazionale e promuovere investimenti vitali per il lavoro. Gli ultimi dati su Atene sono spaventatosi. Li pubblica “Keep Talking Greece”, in un aggiornamento sulla situazione finanziaria dei nuclei familiari in Grecia. «Quasi la metà delle famiglie vive della sola pensione di un familiare, i tre quarti hanno subìto un peggioramento delle proprie condizioni economiche, e quasi altrettanti si aspettano ulteriori peggioramenti nell’anno in corso, a testimonianza di un paese che ha perso ogni speranza nel futuro», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto il report statistico, secondo cui, appunto, «la metà dei nuclei familiari in Grecia dichiara che l’unica fonte di reddito di cui dispone è la pensione di un membro della famiglia».
Secondo il sondaggio, condotto a novembre 2016 dall’associazione piccole imprese (Ime Gsevee) su un campione di mille nuclei familiari distribuiti in tutto il paese, il 49,2% delle famiglie non ha alcuna altra fonte di reddito, a parte la (piccola) Atene, anzianipensione di un familiare. I greci sono letteralmente allo stremo: tre su quattro hanno «subìto un declino significativo del proprio reddito nel corso dell’anno 2016». Dati impietosi: il 37,1 % dei nuclei familiari dice di vivere con meno 10.000 euro all’anno; il 37,9 % campa del proprio magro salario, e il 9 % dipende principalmente dai redditi provenienti da attività commerciali. Attenzione: un nucleo familiare su tre ha almeno un componente della famiglia disoccupato, ciò significa una stima di 1,1 milioni di famiglie. E i disoccupati di lungo periodo contano per il il 73,3 % di tutti i senza lavoro. Se il lavoro c’è, è poca cosa: il 22,4 % dei nuclei familiari ha un componente occupato della famiglia che guadagna meno del salario mensile minimo, pari a 586 euro lordi. Intanto, in una famiglia ogni dieci, un parente ha già lasciato il paese. E il futuro è nero: il 73,5 % degli intervistati si aspetta un peggioramento ulteriore della propria situazione finanziaria, fra tasse arretrate che non potrà pagare e mutui bancari troppo salati.
Il report suggerisce che «La crisi finanziaria di lungo periodo, la cui vittima principale è la classe media, non sta portando solo a un ulteriore declino dei redditi e a un ampliamento delle disuguaglianze, ma minaccia apertamente la coesione sociale». In compenso i conti pubblici sarebbero in via di risanamento? Certo, come nel vecchio adagio “l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto”. «La cosiddetta terapia, che consiste nel continuo aumento delle tasse, dirette e indirette, può anche portare a un avanzo fiscale primario, ma questo – sintetizzano gli autori del report – non si riflette in alcun beneficio per i contribuenti in termini di qualche forma di servizio pubblico, e anzi al tempo stesso viene ridotta la spesa per la sanità e l’istruzione». Questo è l’orrore su cui si specchia, in Grecia, l’Europa delle élite oggi affidata all’ordoliberismo della Merkel: strangolato lo Stato, a sua volta costretto a strangolare i cittadini (più tasse, meno servizi vitali), l’imposizione dell’euro si manifesta per quello che è: un’operazione senza anestesia, inflitta a un’Europa senza futuro. Pagano tutti, a cominciare dai più deboli.