venerdì 28 ottobre 2016

Berlino: servizi segreti liberi di spiare cittadini, giornalisti e paesi dell’UE

La Germania, che nel 2013 arrivò a scatenare una crisi diplomatica con gli Stati Uniti dopo la scoperta che le agenzie di spionaggio di Washington intercettavano le conversazioni dei membri del governo di Berlino e della stessa Angela Merkel, si è dotata ora di una legge che permetterà ai suoi servizi segreti di fare altrettanto con praticamente tutti i cittadini europei.
Non sembra che questa notizia abbia finora conquistato le prime pagine dei quotidiani, eppure qualche interesse dovrebbe averlo.
Il governo di Angela Merkel, formato dai democristiani e dai socialdemocratici, ha deciso di aumentare i poteri e le prerogative dei propri servizi di intelligence. A partire dal primo gennaio prossimo, il servizio federale di intelligence, il BND, avrà carta bianca per spiare non i cittadini tedeschi ma praticamente tutti quelli degli altri paesi dell’Unione Europea. Non che i servizi segreti tedeschi non si dedicassero già prima a questa attività, ovviamente. Ma hanno sempre dovuto farlo con discrezione, e in molti casi violando un lungo elenco di leggi e regolamenti. Da ora in poi una nuova legge varata ad hoc dalla ‘grande coalizione’ permetterà la creazione di un nuovo organismo interno al BND, costituito da due giudici e da un procuratore del Tribunale Supremo che si incaricherà di “vigilare” su uno spionaggio di massa ma perfettamente legale. Il testo legislativo prevede che il governo federale tedesco informi periodicamente la commissione di controllo del Bnd delle sue eventuali missioni segrete all’estero per avere il ‘permesso’ di spiare le istituzioni comunitarie o i paesi membri dell’Unione Europea, oltre ai cittadini stranieri presenti sul proprio territorio o aventi a che fare con gli "interessi tedeschi" anche fuori dai propri confini.
Grazie alla nuova legge – simile a quelle già esistenti negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia e Russia – votata venerdì scorso al Bundestag, la commissione potrà avere accesso ai data base zeppi di dati dei cittadini oppure al monitoraggio di internet (la privacy, questa sconosciuta…) per decidere chi investigare e chi perseguire. Finora ogni operazione di questo tipo doveva essere autorizzata dalla magistratura in modo specifico, in presenza di gravi sospetti di attività terroristiche, e solo per un ristretto periodo temporale, mentre di fatto la nuova legge concede un potere assoluto al BND.
La ‘riforma’ dei servizi segreti, sostenuta da Cdu e Spd, è invece oggetto di forti critiche da parte di tutti i partiti di opposizione. Secondo i Verdi la nuova legge “rende accessibili comunicazioni che dovrebbero rimanere segrete e viola la Costituzione. Il BND ha spiato per più di dieci anni in maniera illegale, ovviamente, non c’è proprio bisogno di legalizzare le sue pratiche. E questo nonostante le importanti rivelazioni di Edward Snowden” Secondo il portavoce degli ecologisti al Bundestag “la legge danneggerà l’idea di Europa e viola la legislazione comunitaria, perché viola il diritto alla privacy”; secondo l’esponente dei Verdi, alcune categorie sociali, come i medici e gli avvocati, saranno seriamente danneggiati dalla libertà di spionaggio concessa ai servizi di intelligence.
L’esponente della sinistra tedesca Martina Renner, deputata della Linke, ha da parte sua denunciato la legge come “deliberatamente illegale” e come “un pericolo per la democrazia”. Ovviamente contro il provvedimento si sono espresse organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e Reporter senza frontiere che ovviamente denunciano il grave effetto che la libertà di spionaggio avrà sull’applicazione del diritto alla libertà di stampa e di espressione. Ma finora a nulla sono servite le veementi proteste delle associazioni dei giornalisti tedeschi e stranieri.
"Rispetto alla disciplina previgente – spiega in un intervento su Huffington Post Antonello Soro, Garante per la protezione dei dati personali – si legittima ora il BND ad intercettare (…) per esigenze di contrasto non più soltanto del terrorismo e della criminalità organizzata ma anche per atti a ciò prodromici (dunque in presenza del rischio che possa realizzarsi un reato di pericolo astratto, con un'anticipazione esponenziale della soglia di intervento)".

giovedì 27 ottobre 2016

L’EUROZONA STA DIVENTANDO UNA MACCHINA PER L’IMPOVERIMENTO DEI POPOLI

Le corse agli sportelli sono all’ordine del giorno. I mercati obbligazionari vanno nel panico, e i governi del Sud-Europa necessitano di bail-out [salvataggi economici, NdT] ogni pochi anni. La disoccupazione è schizzata alle stelle e la crescita rimane asfittica, non importa quante centinaia di miliardi di denaro la Banca Centrale Europea stampi ed inietti nell’economia.
Ormai siamo tutti annoiatamente consapevoli di come l’eurozona sia stata un disastro finanziario. Ma ora inizia a diventare evidente che essa è anche un disastro sociale. Quello che spesso viene omesso dalle discussioni sui tassi di crescita, sui bail-out e sull’armonizzazione bancaria è che l’eurozona sta diventando una macchina di impoverimento.
Mentre la sua economia è in stagnazione, milioni di persone stanno cadendo in uno stato di vera e propria deprivazione. I tassi di povertà sono aumentati vertiginosamente in tutta Europa, sia che li si misuri in termini relativi che in termini assoluti, e gli aumenti peggiori si sono verificati all’interno dell’area che adotta la moneta unica.
Non potrebbe esserci un atto d’accusa più scioccante del fallimento dell’euro, o un promemoria più potente che gli standard di vita cominceranno a migliorare solo se la moneta unica verrà sottoposta a riforme radicali, o smantellata.
L’Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione Europea, ha pubblicato da poco le ultime analisi sul numero di persone “a rischio di povertà o esclusione sociale”, confrontando i dati del 2008 con quelli del 2015. Tra i 28 membri dell’Unione, cinque Paesi hanno sperimentato una significativa crescita di questo valore, paragonato con l’anno del crollo finanziario. In Grecia il 35,7% della popolazione rientra in questa categoria, rispetto al 28,1% del 2008. Un incremento di 7,6 punti percentuali. A Cipro l’incremento è stato di 5,6 punti percentuali: ora il 28,7% della popolazione è classificato come “povero”. In Spagna tale valore è aumentato di 4,6 punti percentuali, in Italia di 3,2 punti, e persino il Lussemburgo, difficilmente considerabile un Paese a rischio di deprivazione materiale, ha visto il tasso di povertà salire al 18,5% dal 2008, in aumento di tre punti.
Ma la situazione non è così tetra dappertutto. In Polonia, il tasso di povertà è sceso dal 30,5% al 23%. In Romania, Bulgaria e Lettonia, ci sono state considerevoli riduzioni della povertà rispetto ai valori del 2008 – in Romania, ad esempio, la percentuale e scesa di sette punti, raggiungendo il 37%.
Cosa c’è di diverso tra i Paesi nei quali la povertà è aumentata in modo drammatico, rispetto a quelli nei quali è diminuita? Avete indovinato. Gli aumenti più significativi del tasso di povertà si sono tutti verificati in Paesi all’interno della moneta unica. Ma le diminuzioni sono state tutte nei Paesi al di fuori di essa.
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E c’è di peggio. Sono definiti “a rischio di povertà” gli individui che vivono con meno del 60% del reddito nazionale medio. Ma quello stesso reddito medio è crollato negli ultimi sette anni, dato che la maggior parte dei Paesi all’interno dell’eurozona devono ancora riprendersi dalla crisi del 2008. In Grecia il reddito medio è sceso da 10.800 a 7.500 euro all’anno. In Spagna il calo non è stato altrettanto drammatico, ma il reddito medio è comunque sceso da 13.996 a 13.352 euro all’anno. Nella realtà, le persone stanno diventando più povere sia in termini relativi che in termini assoluti.
Ci sono altri tipi di misurazione che rendono lampante il fenomeno. In tutta l’UE, l’8% delle persone sono definite in stato di “grave deprivazione materiale”, il che significa che non hanno accesso a ciò che la maggior parte delle società civilizzate considerano beni di prima necessità – se si mette la spunta a quattro caselle su nove, caselle che includono “non essere in grado di pagare il riscaldamento per la propria abitazione” o “non poter mangiare un pasto a base di carne, pesce o proteine simili almeno a giorni alterni”, o “non avere soldi per un telefono”, allora si ricade in questa categoria.
Sorprendentemente, numerosi Paesi all’interno dell’eurozona stanno cominciando ad essere in testa alle classifiche per questo tipo di misurazioni. La Grecia sta inevitabilmente scalando la classifica, con il 22% della sua popolazione che ad oggi è in stato di “grave deprivazione materiale”, rispetto a al solo 11% del 2008. In Italia, un Paese che vent’anni fa era prospero come qualsiasi altro al Mondo, uno scioccante 11% della popolazione si trova oggi in stato di “deprivazione materiale”, paragonato col 7,5% di sette anni fa. In Spagna il tasso di deprivazione è raddoppiato, e a Cipro è aumentato di più del 50%.
Eppure, se si analizzano i Paesi al di fuori della moneta unica, si scopre che al loro interno quel tasso è sostanzialmente stabile (come nel Regno Unito, ad esempio) o sta diminuendo a velocità di tutto rispetto – nella Polonia attualmente in rapida crescita economica, ad esempio, il tasso di persone in stato di “deprivazione materiale” si è dimezzato negli ultimi sette anni e, al 7,5% odierno, è molto più basso di quello registrato in Italia.
Questo è importante. L’UE si è fissata l’obiettivo di ridurre in maniera significativa i principali indicatori di povertà entro il 2020. Sta fallendo miseramente. Anzi, ancora peggio: sta diventando lampante che una delle sue principali politiche, cioè la creazione dell’euro, assieme ai vari “programmi di salvataggio”, fiacchi e malriusciti che l’hanno tenuto insieme a malapena, è ampiamente responsabile di questo fallimento.
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È difficile pensare che esista un’altra spiegazione plausibile per la netta differenza tra il tasso di povertà dei Paesi all’esterno dell’eurozona e quello dei Paesi al suo interno. Perché la Grecia o la Spagna dovrebbero essere in uno stato così drasticamente peggiore di un qualsiasi Paese dell’Est Europa? E perché l’Italia dovrebbe passarsela peggio del Regno Unito, quando i due Paesi si trovavano a livelli di ricchezza sostanzialmente simili durante gli anni novanta? (Gli italiani per un certo periodo addirittura ci superarono come PIL pro capite). Anche in un’economia tradizionalmente di estremo successo come l’Olanda, che non è stata colpita da alcun tipo di crisi finanziaria, si sono registrati grossi incrementi sia della povertà relativa che di quella assoluta.
Infatti non è difficile capire che cosa sia successo. In primo luogo, un sistema valutario disfunzionale ha strangolato la crescita economica, facendo crescere la disoccupazione a livelli precedentemente impensabili. In seguito, dopo che alcuni Paesi sono andati in bancarotta e hanno avuto bisogno di aiuti finanziari, l’UE, assieme alla BCE e al FMI, ha imposto pacchetti di austerità che hanno drasticamente tagliato welfare e pensioni. Con queste premesse, non c’è da sorprendersi che la povertà sia aumentata.
Nei mercati finanziari ci si concentra all’infinito sullo stato dei sistemi bancari all’interno dell’eurozona, sulla crescita dei deficit di bilancio o sui rischi della deflazione e dei disastrosi effetti che essa potrebbe causare sui prezzi delle attività finanziarie. Ma, in ultima analisi, la crisi finanziaria non è così importante. Ad essa si può rimediare con i bail-out, o stampando più denaro. E anche se non fosse possibile, ciò significherebbe semplicemente che alcune banche o fondi d’investimento si troveranno in cattive acque.
Ma il fatto che i livelli di povertà stiano crescendo ad un ritmo così veloce in quelle che un tempo erano Nazioni floride è scioccante. E non c’è alcuna avvisaglia che questa crescita stia rallentando – in alcuni Paesi come la Grecia o l’Italia, la crescita della povertà sta addirittura accelerando. Quelli che una volta erano Paesi estremamente poveri (come la Bulgaria) o Paesi a reddito medio (come la Polonia), stanno rapidamente sorpassando quella che una volta era considerata l’Europa sviluppata.
Non potersi permettere un telefono o un pasto a base di carne per tre giorni alla settimana non è affatto divertente. Ma, grazie all’euro, è questo il destino di milioni di europei – ed esso non cambierà finché la moneta unica non verrà smantellata.

mercoledì 26 ottobre 2016

Clima: nell'era della CO2 senza ritorno

È l'inizio di una nuova era climatica e c'è chi dice che è l'inizio, atteso, della fine. Per la prima volta a livello globale, nel 2015 la concentrazione media di anidride carbonica in atmosfera ha raggiunto le 400 parti per milione e nel 2016 ha registrato nuovi record. L'Organizzazione meteorologica mondiale: «I livelli non scenderanno per molte generazioni a venire».
I livelli di CO2 avevano già raggiunto in precedenza la soglia delle 400 parti per milione (ppm), ma solo per alcuni mesi dell'anno e in certi luoghi; mai prima d'ora su una base media globale per l'intero anno, spiega l'Omm in un comunicato che segna realmente uno spartiacque nella necessità di prendere piena coscienza di quanto sta accadendo.
Stando alle previsioni della stazione di sorveglianza dei gas ad effetto serra, le concentrazioni di CO2 resteranno al di sopra di 400 ppm per l'intero 2016 e non scenderanno sotto tale livello per molte generazioni.
La crescita sostenuta di CO2 è stata alimentata dall'evento El Nino, sottolinea l'Omm. Ma mentre "l'evento di El Nino è scomparso, i cambiamenti climatici restano", ha affermato il segretario generale dell'Omm Petteri Taalas. Il 2015 - ha aggiunto - resterà nella storia nella misura in cui le concentrazioni record di gas a effetto serra "annunciano una nuova realtà climatica".
Taalas si è felicitato del recente accordo raggiunto a Kigali per modificare il Protocollo di Montreal ed eliminare gradualmente gli idrofluorocarburi, potenti gas serra, "ma il vero elefante nella stanza è l'anidride carbonica, che rimane nell'atmosfera per migliaia di anni e negli oceani ancora più a lungo. Se non si affrontano le emission di CO2, non saremo in grado di affrontare i cambiamenti climatici e di mantenere l'aumento della temperatura al di sotto dei 2 grandi centigradi rispetto al livello dell'era pre-industriale", ha aggiunto, esortando a un'accelerazione dell'applicazione dell'Accordo di Parigi sul clima del dicembre 2015.
Ma c'è dell'altro.
I livelli attuali di concentrazione di CO2 in atmosfera condannano il Pianeta a infrangere la soglia del +1,5°C di riscaldamento globale rispetto ai livelli pre-industriali sbandierata nell’accordo di Parigi. Lo afferma una nuova ricerca condotta dal Centre for Ecology & Hydrology inglese insieme all’università di Exeter, e appena pubblicata sulla rivista Scientific Reports.
È più che evidente che la svolta deve essere radicale e pressoché immediata, sempre che non ci si voglia abbandonare all'ineluttabilità... come chi dice, per disincentivare ogni cambiamento, che "tanto non c'è più niente da fare". Non cadiamo nella trappola!

martedì 25 ottobre 2016

Analfabeti da Jobs Act

Sono passati in secondo piano - oscurati dall'accesa discussione sui disastrosi risultati del Jobs Act - i clamorosi dati di una recente ricerca sociologica condotta dall'Università degli Studi di Milano-Bicocca su un campione di famiglie residenti nel Comune di Milano, pubblicata da Riccardo Bonato nel saggio "La famiglia flessibile - Gli effetti transgenerazionali della flessibilità lavorativa: il caso di Milano" [1].
Lo studio parte da un presupposto assodato nella sociologia e nel diritto del lavoro: l'effettivo esercizio dei diritti presuppone un effettivo sistema di tutele. Il che si traduce, nel nostro campo d'interesse, in una tanto semplice quanto nodale osservazione: il lavoratore o la lavoratrice assunti con contratto di lavoro atipico (ovverosia a tempo determinato, coordinato e continuativo od occasionale) tenderanno ad utilizzare meno dei colleghi garantiti da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato gli istituti universalmente previsti dalla legge a tutela della genitorialità (ovvero l'astensione obbligatoria, l'astensione facoltativa e il permesso per allattamento).
È ciò, con ogni evidenza, per il timore di non ottenere il rinnovo del contratto alla scadenza o per la paura di subire un inaspettato licenziamento da parte del datore di lavoro che vedesse, nell'esercizio dei doveri genitoriali, un ostacolo alla produttività aziendale; evenienza questa che, nel caso del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, soprattutto nell'area della cosiddetta "tutela reale" e prima della "riforma" renziana, era efficacemente arginata dal deterrente della reintegra o di un risarcimento di particolare rilievo previsto dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
In una parola, il lavoratore atipico è più "vulnerabile"; ed è proprio tale congenita vulnerabilità che, in ogni momento, ne condiziona il modo di vivere ed i comportamenti, con ricadute non solo individuali, ma anche e soprattutto familiari.
Quali sono i risultati della ricerca? Lasciamo la parola direttamente a Riccardo Bonato:
"...la flessibilità lavorativa influenza le tutele della genitorialità e la differente fruizione di queste ultime ha un impatto sulla famiglia, e sulla crescita del bambino. La ricerca quantitativa condotta in occasione di questo studio evidenzia un indicatore che rivela l'esistenza di un impatto transgenerazionale della flessibilità lavorativa: sembra esistere una relazione fra le differenti tipologie contrattuali con cui è assunta la figura di riferimento del bambino (tipicamente la madre) e lo sviluppo del linguaggio dell'infante... poco più del 25% delle lavoratrici flessibili, infatti, utilizzano i permessi di allattamento contro il 60% circa delle lavoratrici con un contratto stabile. Questo fattore ha un impatto evidente e drammatico sullo sviluppo del linguaggio del bambino: la mancata fruizione del permesso di allattamento da parte della figura di riferimento aumenta notevolmente (48% circa) la probabilità che il figlio appartenga al gruppo di bambini nei quali si rileva un rallentamento nello sviluppo linguistico"[2].
Dunque, il tipo di contratto di lavoro della madre sembrerebbe esercitare almeno un parziale effetto sullo sviluppo linguistico del figlio, nella stessa misura in cui il tipo di contratto di lavoro condizionerebbe la madre nell'utilizzo dei permessi di lavoro giornalieri per l'allattamento[3].
È il caso tuttavia di precisare come questa ricerca sia stata effettuata tra il 2012 e il 2013, allorché la differenza di tutela tra contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e contratti atipici era talmente netta, da essere marcata con il discrimine tra lavoratori insiders e lavoratori outsiders.
Nell'anno di grazia 2016, tuttavia, lo scenario appare radicalmente rivoluzionato dall'universale azzeramento delle tutele a favore dei lavoratori. Si tratta dell'appiattimento in un'unica informe categoria di lavoratori poveri sia di tutele sia di retribuzione, attuato dal Jobs Act attraverso l'integrale flessibilizzazione e testimoniato - al di là di ogni strumentalizzazione di parte - dagli eloquenti dati sull'aumento dei licenziamenti (+ 31%), dall'esplosione dei voucher (69,899 milioni venduti nell'intero territorio nazionale) e dal ritorno del lavoro a cottimo, sebbene "digitale" e mascherato sotto la veste dei bikers di Foodora, di Deliveroo e di altre analoghe iniziative imprenditoriali.
Quali sarebbero, oggi, i risultati della stessa ricerca applicata ad una madre assunta "a tutele crescenti", o cassiera in regime di voucher in un grande magazzino o addetta alle consegne di cibo a domicilio?
Il timore di un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo assistito nel migliore dei casi da un miserrimo indennizzo, la paura di essere "disconnessa" dall'oggi al domani e senza giustificazione alcuna dalla "app" che gestisce il sistema delle consegne, la prospettiva di non poter utilizzare i voucher nel periodo della maternità che effetto potranno esercitare sulla scelta della lavoratrice di accudire il proprio figlio e, conseguentemente, sullo sviluppo linguistico dello stesso?
Domande retoriche che svelano dinanzi a noi, in contrasto con la propaganda dei cortigiani del Principe, un paesaggio sconcertante.
È il deserto del totalitarismo neoliberista il cui homo novus (homo oeconomicus)[4], soggetto completamente individualizzato e totalmente chiuso nell'angusto recinto del proprio interesse economico (interesse ormai assurto a misura universale della razionalità moderna), appare incapace di dialogare, avendo quasi del tutto atrofizzata la funzione del linguaggio, ridotto a meri simboli (emoticon) e a monosillabiche espressioni: la frenesia del calcolo si sostituisce alla riflessiva lentezza del dialogo.
Del resto, se è vero che la parola è espressione del pensiero (tanto che i Greci ne esprimevano l'unione in un unico termine, il logos), l'atrofia del linguaggio reca con sé l'inevitabile impoverimento del pensiero.
Sono gli analfabeti del Jobs Act, inerme generazione alla mercé di una tanto cinica quanto spregiudicata "mano invisibile".

lunedì 24 ottobre 2016

La sconfitta degli Stati Uniti in Siria

Chiamiamola con il suo vero nome: sconfitta. E’ ciò che stanno subendo gli Stati Uniti non soltanto in Siria. Nonostante la determinazione del Presidente Obama di voler ricostruire buone relazioni con una buona parte del mondo musulmano, il fallimento è evidente. Ancora oggi la Casa Bianca descrive gli scenari geopolitici nella sponda sud del Mediterraneo, in Medio e Vicino Oriente più come un desiderio – ovvero come dovrebbero essere le cose – che per la realtà di una situazione che appare sempre più drammatica, proprio a causa delle pesanti responsabilità politiche di Barack Obama e del suo entourage.
In Siria, siamo passati ormai dalla cronaca alla storia, gli Stati Uniti hanno utilizzato i radicalismi – armati e non – in funzione anti Assad. Quando quei fenomeni si sono trasformati in organizzazioni terroristiche con ambizioni statutali e mire espansionistiche sovra nazionali era troppo tardi. E’ stato in quel momento, a guerra iniziata già da qualche anno, che l’ISIS ha occupato vaste porzioni di territorio siriano e iracheno e si è auto proclamarsi Stato Islamico. Era tardi non solo perché quel tipo di terrorismo è sbarcato in Europa e ha mostrato tutta la sua ferocia in una serie di attentati eclatanti in paesi che fino a quel momento erano ritenuti quasi sicuri, ma perché esso ha fatto proliferare una serie di sigle radicali che hanno devastato la Siria e hanno animato un’ideologia che si autoalimenta con l’odio e la violenza. Gli attentati fuori dall’Europa sono figli proprio di questa situazione.
Gli Stati Uniti hanno perso la loro guerra perché hanno avvallato gli ingenti finanziamenti che i suoi alleati – Turchia e Arabia Saudita su tutti – hanno riversato nelle casse dei veri nemici dell’Occidente, i terroristi dello Stato Islamico che una seria azione militare avrebbe potuto sconfiggere in pochi mesi. Invece, Obama ha preferito far combattere, da solo con l’aiuto soltanto dei suoi alleati sciiti, l’esercito siriano con la convinzione che prima o poi i militari di Damasco sarebbero capitolati. Il caso di Palmira è eclatante: nessuno ha mosso un dito per salvare il sito patrimonio dell’UNESCO, soltanto le truppe siriane aiutate dai russi hanno consentito che quel gioiello della storia e dell’archeologia non venisse definitivamente cancellato. Quel risultato è stato raggiunto al prezzo di molte vite umane. Siriani e russi combattevano a Palmira e tutto il mondo stava a guardare, salvo poi esultare il giorno della liberazione.
Caduto Assad, gli Stati Uniti sarebbero entrati in campo in prima persona, ridimensionando l’ISIS militarmente e trovando un presidente fantoccio sunnita appoggiato da Turchia e monarchie del Golfo. Per preparare la successione, la Casa Bianca, attraverso la CIA, ha finanziato e armato i cosiddetti ribelli moderati, quell’Esercito Siriano Libero che nelle intenzioni di Obama sarebbe dovuto essere il nuovo corpo militare della Siria liberata. Niente di tutto questo è accaduto. Anche perché la debolezza politica statunitense accompagnata da scelte scellerate che hanno rinvigorito i vari gruppi jihadisti – come i qaedisti del fronte Jabhat al Nusra, nel frattempo divenuti Jabhat Fatah al-Sham – hanno agevolato l’entrata in scena della Federazione Russa, scombussolando i piani di Washington e impedendo la capitolazione di Assad.
L’intervento militare russo – legittimo secondo il diritto internazionale in quanto richiesto dalla Siria, ovvero da uno stato sovrano – ha avuto due effetti: ha ribaltato le sorti della guerra, con il governo siriano che ha recuperato ampie porzioni di territorio, e ha indebolito in modo decisivo i terroristi, rivelando la finzione che il fenomeno si potesse limitare allo Stato Islamico. La stessa battaglia di Aleppo, con feroci combattimenti che colpiscono anche la popolazione civile, esiste perché quella parte della città è ostaggio proprio dei miliziani jihadisti che utilizzano donne e bambini come scudi umani e si rifiutano di lasciare le loro postazioni. Questo accade ad Aleppo come in altri luoghi della Siria dove la rivoluzione è soltanto una formuletta magica che dimentica come nel paese l’opposizione armata sia monopolizzata dal radicalismo salafita e dall’ideologia wahabita.
La sconfitta degli Stati Uniti è molto più ampia perché, come accennato, riguarda anche altri paesi. L’Iran dopo la chiusura del dossier nucleare respinge l’ambizione egemonica degli Stati Uniti. Baghdad ha rifiutato di accettare la politica di Washington, impedendo che in Iraq potesse commettere altri disastri. L’intervento militare in Afghanistan non ha portato il risultato desiderato. La Turchia non vuole essere un vassallo obbediente della NATO e in Siria fa ciò che vuole, bombardando persino i curdi protetti da Washington. Il partner più potente del mondo arabo, l’Arabia Saudita, non nasconde la sua delusione per la politica estera in Medio Oriente dell’amministrazione Obama. Per non parlare della Libia e dell’Egitto dove gli Stati Uniti hanno del tutto perso il controllo della situazione.
Il Presidente americano, che nel suo primo mandato è stato vittima delle azioni scriteriate del suo segretario di Stato, Hillary Clinton, si è sempre rifiutato di parlare di jihadismo e di guerre alimentate dalla rabbia dell’estremismo islamico nella regione. Lo ha fatto, forse, anche per non alimentare internamente un odio generalizzato nei confronti dell’Islam.
L’evidenza della sconfitta di Obama è data anche da un altro elemento, non giudicato con sufficiente attenzione. A settembre, nel corso dell’intervento nel Palazzo di vetro, ha dovuto pronunciare l’impronunciabile, riconoscendo che il realismo impone la necessità di raggiungere un compromesso sul fatto che la transizione politica in Siria sia gestita dal presidente Bashar al-Assad. Un appello alla moderazione giunto dopo oltre quattro anni la prima richiesta di dimissioni del leader siriano, rinnovata due anni dopo con l’attacco chimico nella periferia di Damasco, attribuito strumentalmente al governo di Damasco con il pretesto di avviare un’operazione militare in Siria. Quell’attacco chimico, in realtà, era stato portato avanti dai ribelli proprio allo scopo di scatenare un intervento armato americano e far cadere cosi Assad.
Contro la politica sconclusionata di Barack Obama, si è schierata anche la rivista bimestrale statunitense The American Interest, secondo la quale le scelte del presidente hanno consentito alla Russia di occupare nuovamente un posto importante nella politica mediorientale e di aggiustare le relazioni con la Turchia. Secondo la pubblicazione, la politica di Obama sulla Siria danneggia gli interessi nazionali. Mosca ha approfittato dell’indecisione di Washington e alla fine ha stabilito vantaggiosi legami commerciali con l’Iran e la Turchia. In questo modo, scrive la rivista, la Russia ha piantato un cuneo nella Nato allontanando Ankara dall’Occidente e dagli Usa in particolare.

venerdì 21 ottobre 2016

Voucher, oltre la precarietà assoluta verso la schiavitù moderna

I dati diffusi dall'Osservatorio Inps parlano della grande ascesa dei voucher Per tacere le critiche sempre piu' numerose , e articolate, verso l'utilizzo dello strumento voucher al posto di regolari contratti, il Governo ha deciso alcuni correttivi con il Dlgs 185/2016 prevedendo una procedura di comunicazione preventiva (non per tutte ma solo alcune categorie di committenti) ma nulla ha detto degli obblighi teoricamente già esistenti. Ci ha pensato l’Ispettorato nazionale con una comunicazione che a detta de Il sole 24 ore applicherebbe una lettura eccessivamente rigida delle normative da adempiere Vediamo allora i futuri scenari La prima comunicazione del datore di lavoro dovrebbe partire all'acquisto dei voucher , ovunque l'acquisto avvenga (Inps, poste, un semplice tabaccaio, una banca...) comunicando nome e cognome del prestatore d'opera, il suo codice fiscale e il luogo di utilizzo della prestazione
A ogni singola prestazione il committente deve comunicare con email all'Ispettorato del lavoro la prestazione e deve farlo almeno 60 minuti prima del suo effettivo inizio (un lasso di tempo ridicolo) con la effettiva durata della stessa teoricamente per ogni prestazione dovrebbe partire una autonoma comunicazione, per esempio se fai 3 ore di mattina e 3 nel pomeriggio deve partire una doppia email all'Ispettorato e con almeno una ora di anticipo rispetto all'inizio della prestazione ricordandosi sempre di specificare nome , cognome, codice fiscale e la durata dell'opera Per L'Ispettorato vale solo la email, per il Governo basterebbe invece un semplice sms per attivare il voucher.
Attenzione che se la denuncia Inps viene regolarmente effettuata ma non la comunicazione preventiva, non scatta l'accusa di lavoro nero ma una semplice multa per omessa comunicazione Alla luce di queste scarne considerazioni, siete dell'avviso che il Governo abbia introdotto dei reali paletti per impedire l'uso allegro dei voucher?
A nostro avviso decisamente no, senza dimenticare che gli ispettorati del lavoro da anni hanno carenze di organico cosi' macroscopiche da non effettuare neppure controlli programmati con largo anticipo, immaginiamoci allora una task force per scongiurare l'uso illecito e illegale dei voucher
La critica ai voucher non puo' certo limitarsi alla loro tracciabilità, trattasi di una nuova forma di schiavitu'. eliminati i co.co.co il precariato odierno si poggia su questi buoni da 7,50 euro all'ora
Solo nel 2015 sono ben 115 milioni di buoni-lavoro staccati da gennaio a dicembre, contro i 69 milioni del 2014 e i 36 milioni del 2013. Un aumento nazionale del 67,5 per cento in dodici mesi che nel 2016 assumerà dimensioni ancor maggiori. E non parliamo di lavori occasionali ma anche di attività ad elevato tasso intellettuale
 La regolarizzazione del Governo è la foglia di fico per nascondere una realtà, meglio per giustificarla e legalizzarla, la realtà dei posti di lavoro a tempo indeterminato e determinato in continua diminuzione al posto dei quali subentrano i buoni lavoro
Il trionfo della precarietà assoluta, una precarietà legalizzata che rende lecito quanto lecito non è: la schiavitu' moderna

giovedì 20 ottobre 2016

EX CAPO-ECONOMISTA DELLA BCE: “L’EURO È UN CASTELLO DI CARTE CHE CROLLERÀ”

La Banca Centrale Europea (BCE) sta estendendo pericolosamente le proprie funzioni e l’intero progetto euro è impraticabile nella sua forma attuale: così ha ammonito uno degli architetti e fondatori dell’unione monetaria.
“Un giorno tutto il castello di carte crollerà” ha detto il prof. Otmar Issing, il primo capo economista della BCE e figura fondamentale nella costruzione della moneta unica.
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Il prof. Issing ha detto che il progetto euro è stato tradito dai politici, e ha lamentato che l’esperimento è andato storto fin dal principio ed è ormai degenerato in un caos fiscale che ancora una volta nasconde le purulente patologie di fondo.
“Realisticamente si tratterà di tirare avanti in qualche maniera, dibattendosi tra una crisi e l’altra. È difficile prevedere per quanto tempo ancora continuerà, ma non potrà proseguire così per sempre“, ha affermato in un’intervista alla rivista Central Banking, in ciò che appare come una significativa demolizione dell’intero progetto.
Questi commenti ci ricordano che l’eurozona non ha affatto superato la sua incoerenza strutturale. Un’illusoria combinazione di basso costo del petrolio, euro debole, quantitative easing e riduzione dell’austerità fiscale ha dissimulato la realtà, ma si tratta di effetti di breve termine che stanno già svanendo.
L’intero impianto verrà messo quasi certamente alla prova dalla prossima crisi globale, ma questa volta ci sarà già in partenza un elevato livello di debito e di disoccupazione, nonché un maggiore logoramento politico.
Il prof. Issing ha poi sferzato la Commissione Europea, definendola una creatura delle forze politiche che ha ormai rinunciato a ogni tentativo di imporre delle regole in maniera sensata. “L’azzardo morale è schiacciante“, ha detto.
La BCE si trova su una “china scivolosa“, e secondo Issing avrebbe compromesso in modo fatale l’intero sistema salvando paesi in bancarotta, in evidente violazione dei trattati.
“Il patto di stabilità e crescita è più o meno fallito. La disciplina di mercato è stata abolita dagli interventi della BCE. Non c’è quindi nessun meccanismo di controllo fiscale da parte dei mercati o della politica. Ci sono tutti gli ingredienti per il disastro dell’unione monetaria.
“La clausola di non-salvataggio viene violata quotidianamente“, ha detto, rigettando come ottusa e ideologica l’approvazione della Corte Europea alle misure di salvataggio.
La BCE ha “varcato il Rubicone” e ora si trova in una situazione insostenibile, mentre cerca di riconciliare i ruoli contrastanti di autorità di vigilanza, supervisore della Troika nelle missioni di salvataggio e operatore di politica monetaria. La sua stessa integrità finanziaria è sempre più in pericolo.
La BCE detiene già oltre mille miliardi di euro di titoli comprati a tassi di interesse “artificialmente bassi” o negativi, il che implica enormi perdite di bilancio una volta che i tassi di interesse torneranno a salire. “Mettere termine alla politica del quantitative easing diventa sempre più difficile, perché le conseguenze sarebbero potenzialmente disastrose“, ha detto.
“Il declino della qualità delle garanzie [collaterali] ammissibili è un problema grave. La BCE sta comprando obbligazioni societarie quasi a livello spazzatura, e degli eventuali tagli del valore dei titoli [haircut] possono reggere a malapena un declassamento del credito di un punto. Il rischio per la reputazione di una banca centrale, nell’intraprendere azioni del genere, in passato sarebbe stato impensabile“, ha detto.
Nascondersi tutto questo è mistificazione, falsità politica, negazione endemica della realtà. I leader politici dei paesi più indebitati hanno ingannato i propri elettori con affermazioni rassicuranti, suggerendo falsamente che qualche genere di unione fiscale o mutualizzazione del debito potesse essere dietro l’angolo.
Ma non c’è nessuna possibilità di vedere una unione politica o la creazione di un ministero del tesoro europeo nel prossimo futuro, il che comunque richiederebbe una riforma drastica della costituzione tedesca – cosa impossibile nel clima politico attuale. Il progetto europeo deve quindi funzionare come una semplice unione di paesi sovrani, altrimenti fallirà.
Il prof. Issing denuncia il primo salvataggio greco del 2010 come poco più che un salvataggio delle banche tedesche e francesi, e insiste che sarebbe stato molto meglio far uscire la Grecia dall’euro, come lezione salutare per tutti gli altri. Ai greci si sarebbe dovuto offrire un aiuto generoso, certo, ma solo dopo che avessero ripristinato la variabilità del tasso di cambio tornando alla dracma.
La critica del prof. Issing esaspererà quelli che alla BCE e al Fondo Monetario Internazionale hanno ora ereditato la crisi e devono affrontare una situazione spaventosa e in rapida evoluzione.
La paura era quella di una reazione a catena che raggiungesse la Spagna e l’Italia, facendo esplodere una crisi finanziaria incontrollabile. In due occasioni è quasi successo, ed è rimasto un rischio fino a che Berlino non ha cambiato atteggiamento, permettendo alla BCE di sostenere i mercati del debito italiano e spagnolo nel 2012.
Molti diranno che la crisi si è diffusa proprio perché la BCE non poteva agire come prestatore di ultima istanza. Il prof. Issing e altri della Bundesbank sono stati i principali responsabili di questa falla nel progetto.
Jacques Delors, il padre fondatore “politico” dell’euro, lo scorso mese ha candidamente recitato il suo requiem sui fallimenti dell’unione monetaria, ma è in netto disaccordo col prof. Issing sulla natura del problema.
La sua fondazione propone un governo economico sovranazionale con una condivisione del debito e un ministero del tesoro europeo, nonché una politica fiscale espansiva che rompa il “circolo vizioso” e impedisca il verificarsi di un secondo decennio perduto.
“È essenziale ed è urgente: a un certo punto, nel futuro, l’Europa sarà colpita da una nuova crisi economica. Non sappiamo se fra sei settimane, sei mesi o sei anni. Ma nella sua forma attuale l’euro non può sopravvivere alla prossima crisi“, ha scritto Delors.
Il prof. Issing non è un nazionalista tedesco. È aperto all’idea di un genuino progetto di Stati Uniti d’Europa costruito su basi adeguate, ma ha più volte ammonito contro il tentativo di forzare il ritmo dell’integrazione, o di giungere al federalismo “dalla porta di servizio“.
Critica l’ultimo piano UE per creare una “unione fiscale“, descritto nel report dei Cinque Presidenti, poiché teme che una tale mossa possa portare a istituire un plenipotenziario maligno dotato di poteri sfrenati su aspetti sensibili della vita nazionale, al di là di ogni controllo democratico.
Questo sistema eroderebbe la sovranità di bilancio dei paesi membri e violerebbe il principio “nessuna tassazione senza rappresentanza“, dimenticando così la lezione della Guerra Civile Inglese e della Rivoluzione Americana.
Il prof. Issing afferma che l’avventura ha cominciato subito a uscire dai binari, sebbene il difetto strutturale sia rimasto nascosto a causa del boom finanziario. “Non c’è stata nessuna accelerazione della convergenza dopo il 1999 – anzi, c’è stato il contrario. Fin dal primo giorno un certo numero di paesi ha iniziato ad andare nella direzione sbagliata“.
Una serie di paesi ha lasciato che i salari crescessero, ignorando gli ammonimenti che questo si sarebbe dimostrato fatale in un’unione monetaria irreversibile. “Durante i primi otto anno il costo del lavoro in Portogallo è aumentato del 30 percento rispetto alla Germania. In passato l’escudo [l’ex moneta nazionale portoghese] si sarebbe svalutato del 30 percento e le cose sarebbero in qualche modo tornate a sistemarsi“.
“Alcuni paesi – tra cui l’Irlanda, l’Italia e la Grecia – si sono comportati come se avessero ancora potuto svalutare la propria moneta“, ha detto.
Il problema di fondo è che quando un paese molto indebitato ha perso il 30 percento di competitività in un sistema di cambi fissi, è quasi impossibile recuperare il terreno perduto in un mondo deflazionistico come quello attuale.
È diventata una trappola. L’intera struttura dell’eurozona ha preso una piega verso la contrazione. La deflazione ora è una condizione che si auto-avvera. L’ideologia tedesca purista del prof. Issing non ha alcuna risposta convincente a tutto questo.

mercoledì 19 ottobre 2016

I comuni nella trappola del debito

Quando si dice che gli enti locali sono uno dei luoghi di precipitazione della crisi, perché è soprattutto su di essi che si sono scaricate nel tempo le misure liberiste di austerità previste dai vincoli finanziari di Maastricht, non si sta facendo una considerazione astratta: secondo l’ultimo rapporto Ifel (Istituto per la Finanza e l’Economia Locale) dell’Anci, sono 84 i Comuni italiani in stato di dissesto e 146 gli enti locali (10 Province) che, in stato di pre-dissesto, hanno aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale. Si sta parlando di un trend in ascesa: se nel 2011 erano 3 i Comuni finiti in default, sono diventati 21 nel 2014.
Ma cosa significa per un Comune entrare in pre-dissesto o in default? «Sono da considerarsi in condizioni strutturalmente deficitarie gli enti locali che presentano gravi ed incontrovertibili condizioni di squilibrio», dice il Testo unico degli Enti locali (Tuel). Se il deficit è in qualche modo recuperabile con un piano di sacrifici che la Corte dei conti approva si può accedere alla «procedura di riequilibrio finanziario pluriennale», il pre dissesto. Ma se «l’ente non può garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili» o se i creditori vantano crediti cui non si può far fronte con mutui o entrate proprie, allora scatta il dissesto (art. 244 del Tuel).
Ma cosa significa per i cittadini? In questo caso è molto facile da capire: tagli drastici alla spesa corrente, dismissione dei servizi, tariffe alle stelle e aliquote massime sulle imposte. Di fatto gli abitanti di un territorio dismettono i panni di membri di una comunità con dei diritti garantiti per diventare singoli individui il cui accesso ai servizi è determinato dalle proprie capacità economiche nell’orizzonte della solitudine competitiva.
Ma chi ha provocato questa esplosione di dissesti finanziari? In parte la colpa è dei molti amministratori che, dentro la crisi della democrazia rappresentativa, hanno utilizzato la macchina pubblica per favorire interessi personali, di casta e di clan, con bilanci allegri basati su entrate presunte a cui corrispondevano uscite certe da scaricare sulle amministrazioni successive. Ma pochi affrontano il nodo strutturale delle politiche liberiste e di austerità che sono state scientificamente applicate agli enti locali, all’unico scopo di metterli in difficoltà e costringerli alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, alla vendita del patrimonio pubblico, alla messa a disposizione del territorio per grandi opere, grandi eventi e grandi speculazioni finanziarie. Anche su questo punto sono i dati a confermare: nonostante la quota parte del debito pubblico attribuibile ai Comuni corrisponda solo al 2,4%, il contributo richiesto agli stessi – tra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità – è passato dai 1.650 miliardi del 2009 ai 16.655 miliardi del 2015.
Quanto sopra scritto evidenzia come la delega della gestione del debito e della finanza locale ai tecnocrati e agli amministratori comporti la riproduzione di un ciclo che, dai vincoli dell’Unione Europea, a cascata viene scaricato sulle condizioni di vita delle persone e delle comunità locali.
La pratica dell’audit del debito, ovvero un’indagine indipendente e autonoma da parte degli abitanti di un territorio sul debito dell’ente locale, è il percorso da avviare per smascherare la trappola del debito e del patto di stabilità, per riprendere in mano il destino delle comunità territoriali, per riappropriarsi della democrazia. Che, ogni volta che antepone gli interessi delle lobby finanziarie e immobiliari all’incomprimibilità della spesa necessaria a garantire servizi adeguati e di qualità, smette di essere tale.

martedì 18 ottobre 2016

QUANDO NAPOLITANO DICEVA “NO” ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE!

Non è giusto modificare la costituzione a colpi di maggioranza“. “Vecchia la Costituzione? Per gli americani è giovane la loro dopo 200 anni…“. “Pericolosi troppi poteri al Premier“. No, non sono le dichiarazioni del M5S o della Lega o di Fratelli d’Italia, e neppure quelle di Zagreblevski o di altri costituzionalisti del fronte del NO: sono le frasi riportate di un’intervista a Rai 3 del 2006 dette da Giorgio NapolitanoLa riforma era quella del Senato e del procedimento legislativo voluta da Berlusconi, molto simile a quella attuale del Governo Renzi. Sentite poi cosa diceva l’ex Presidente della Repubblica il 15 novembre 2005 al Senato:
…”Il contrasto che ha preso corpo in Parlamento da due anni a questa parte e che si proporrà agli elettori chiamati a pronunciarsi prossimamente nel referendum confermativo non è tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione, come si vorrebbe far credere, ma tra due antitetiche versioni della riforma dell’ordinamento della Repubblica: la prima, dominata da una logica di estrema personalizzazione della politica e del potere e da un deteriore compromesso tra calcoli di parte, a prezzo di una disarticolazione del tessuto istituzionale; la seconda, rispondente a un’idea di coerente ed efficace riassetto dei poteri e degli equilibri istituzionali nel rispetto di fondamentali principi e valori democratici.”
E nel discorso di investitura come PdR affermava decisamente
“Un risoluto ancoraggio ai principi costituzionali non può essere scambiato per semplice conservatorismo. L’unità costituzionale è il sostrato dell’unità nazionale”
Ecco, cambiare opinione è lecito, per carità, ma fa un po’ specie che a dire queste assolutamente condivisibili parole sia lo stesso che adesso dichiara: “Mi offende chi dice di votare no per difesa Costituzione“

lunedì 17 ottobre 2016

Putin al vertice BRICS: «Non accettiamo la politica delle imposizioni»

Al vertice dei paesi BRICS hanno partecipato i leader dei cinque paesi membri: il presidente del Brasile, Michel Temer; il presidente della Russia, Vladimir Putin; il primo ministro dell’India, Narendra Modi; il presidente del Sudafrica, Jacob Zuma; il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping
«Siamo convinti che la normalizzazione dei conflitti internazionali deve essere effettuata esclusivamente attraverso mezzi politici e diplomatici», queste le parole del presidente russo, Vladimir Putin, rilasciate in occasione del vertice BRICS che si è tenuto in India.
Il leader russo ha sottolineato che il blocco BRICS «non accetta la politica delle imposizioni in nessuna area e nemmeno la violazione della sovranità degli altri stati».
I capi di stato dei paesi BRICS hanno inoltre esortato gli stati europei ad assegnare due posti nel Consiglio dei Direttori del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ai paesi meno sviluppati.
Al vertice dei paesi BRICS hanno partecipato i leader dei cinque paesi membri: il presidente del Brasile, Michel Temer; il presidente della Russia, Vladimir Putin; il primo ministro dell’India, Narendra Modi; il presidente del Sudafrica, Jacob Zuma; il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping.
La riunione ha visto anche la partecipazione degli alti rappresentanti di Bangladesh, Bhutan, Birmania, Nepal, Sri Lanka e Thailandia.
Anche i leader di Afghanistan e Maldive sono stati invitati all'evento.
Cinque sono stati gli aspetti su cui si sono concentrati i lavori del vertice:
La creazione di istituzioni per approfondire, sostenere e istituzionalizzare ancora di più la cooperazione all’interno dei BRICS;
Applicazione delle decisioni prese ai precedenti vertici;
Integrazione dei meccanismi di cooperazione già esistenti;
Istituzione di nuovi meccanismi di cooperazione;
Dare continuità ai meccanismi di cooperazione esistenti concordati mutuamente tra i BRICS.
Il primo ministro dell’India, Narendra Modi, ha dichiarato che i BRICS sono decisi a creare nel più breve tempo possibile una nuova agenzia di rating. Oltre a un Centro Ricerche Agricole e la rete ferroviaria dei paesi BRICS.
«L’avvio delle istituzioni è l’obiettivo principale dei nostri sforzi», ha spiegato Modi.

venerdì 14 ottobre 2016

Grazie al bonus assunzioni di Renzi l'apprendistato fa il tonfo

Sono crollati gli apprendisti presenti nel nostro mercato del lavoro. Tra il 1970 e il 2015 sono diminuiti del 43 per cento. Se in pieno boom economico superavano le 721.000 unita', l'anno scorso sono scesi a quasi 410.000 occupati". In questi ultimi 45 anni, segnala l'Ufficio studi della Cgia, "il trend e' stato altalenante e, in linea generale, condizionato dalle crisi economiche (quelle sopraggiunte verso la meta' degli anni 70 e all'inizio degli anni 80 e 90 e quella iniziata nel 2008) e dalle novita' legislative (in particolare la riforma Treu del 1997 - che ha elevato l'eta' per utilizzare questa tipologia contrattuale estendendola anche ad altri settori produttivi - e il bonus assunzioni introdotto da Renzi).
Tuttavia, l'andamento sul lungo periodo evidenzia il deciso calo di questa tipologia contrattuale".
Altrettanto pesante e' stata la contrazione del numero degli apprendisti occupati nel settore dell'artigianato "che, a partire dalla meta' degli anni 50, ha formato professionalmente intere generazioni di giovani operai; molti di questi, e' importante ricordare, sono diventati artigiani o piccoli imprenditori di successo".
Dall'inizio della crisi (2009) al 2015, ad esempio, gli apprendisti occupati nelle aziende artigiane sono diminuiti del 45%. La ripartizione geografica piu' colpita da questa moria e' stata il Mezzogiorno (-61%), seguono il Centro (-44%), il Nordovest (-43%) e il Nordest (-33%).
Per quanto concerne i settori produttivi, infine, la riduzione piu' importante degli apprendisti e' avvenuta nelle costruzioni.
Tra il 2009 e il 2015 la contrazione in questo settore e' stata del 65%. Pesante anche la riduzione registrata nelle attivita' finanziarie (-54%), nel commercio (-34%) e nei trasporti (-33%)". "Nell'ultima crisi che ha colpito il Paese- prosegue l'Ufficio studi della Cgia- il calo, seppur piu' contenuto, ha riguardato tutti i settori. Sempre tra il 2009 e il 2015, infatti, la contrazione media a livello nazionale e' stata del 31%".
La CGIA ricorda che il contratto di apprendistato e' un rapporto di lavoro speciale, in quanto alla prestazione lavorativa si accompagna l'obbligo del datore di lavoro di fornire, al giovane dipendente, la formazione necessaria per l'apprendimento di un mestiere e per il conseguimento della qualifica. Le tre diverse tipologie attualmente in vigore sono: apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale; apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere; apprendistato di alta formazione e di ricerca. "Questo sistema
tripartito presenta pero' un forte squilibrio: il 90% circa degli apprendisti e' ancora adesso assunto con un contratto professionalizzante", segnala la Cgia. Oltre a queste ragioni "va ricordato che la contrazione del numero degli apprendisti va ricercata anche nella crisi in cui vivono le imprese, soprattutto quelle di piccola dimensione e, in particolare, le aziende artigiane".

giovedì 13 ottobre 2016

LA TROIKA LA STA CHIAMANDO RENZI

Uno dei fantasmi mediatici più accreditati è quello del “grande comunicatore”, un titolo che per la prima volta fu elargito negli anni ‘80 al presidente USA Ronald Reagan. In realtà le pubbliche esibizioni di Reagan erano penose, tali da lasciare annichilito l’uditorio, subissato di barzellette demenziali e di tirate di retorica patriottica prive di riscontro in un’epoca che era già di disincanto. L’omertà giornalistica provvedeva però a far credere che la comunicazione reaganiana fosse superlativa, perciò ciascuno veniva a trovarsi nella condizione della favola dei vestiti dell’imperatore: io non li vedo ma gli altri sì. In Italia il titolo di “grande comunicatore” è stato altrettanto abusivamente affibbiato prima al Buffone di Arcore ed, oggi, a Matteo Renzi. Se poi si considera che il potere, quale che sia, ha una rendita di posizione che gli consente di riscuotere automaticamente consenso, tutti i personaggi citati non sono mai riusciti ad andare oltre il minimo garantito da quella rendita di posizione, perciò per loro, all’appellativo di “grandi comunicatori”, andrebbe preferito quello più consono di “squallidi imbonitori”.
L’omertà mediatica ha però appena stabilito che sia stato Renzi a vincere il confronto televisivo con il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, e ciò appunto per le sue presunte “doti di comunicatore” nei confronti di un avversario sprovveduto in quel campo. Uno dei più decisi a proclamare la vittoria di Renzi è stato l’editorialista Eugenio Scalfari, il quale però, con la sua consueta goffaggine, ha fatto scoprire quali siano gli aspetti reconditi di tutta la questione della revisione costituzionale voluta dal governo; aspetti che non riguardano i confusi contenuti della riforma, bensì il messaggio subliminale che li accompagna. Scalfari ha infatti contestato a Zagrebelsky di contrapporre democrazia ed oligarchia, mentre, secondo lo stesso Scalfari, i due concetti sarebbero complementari. Per dimostrare l’assunto, l’editorialista di “Repubblica” ha fatto ricorso a tutte le sue approssimative reminiscenze scolastiche, comprese le Repubbliche Marinare, un argomento a cui si attribuiva gran peso nell’istruzione elementare di una volta.
Sarebbe stato più serio dire che la democrazia non esiste e che ci sono solo oligarchie, ma la tirata scalfariana ha il senso del fumo del diversivo, dato che è noto che Scalfari pensa a ben precise oligarchie, cioè al commissariamento dell’Italia da parte della troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale), cioè un’oligarchia che si legittima come “salvatrice” nei confronti di “emergenze” che essa stessa ha creato. Scalfari si è reso conto che parlare esplicitamente di troika” era troppo “hard”, quindi ha camuffato il concetto con la proposta del ministero del Tesoro europeo, una misura che la Germania non accetterebbe mai, ma che può costituire un’insinuante pulce nell’orecchio dell’opinione pubblica italiana, da abituare all’idea di un governo estero. Del resto nel 2011 anche Mario Monti, dalle colonne del “Corriere della Sera, fece appello alla sua vacillante preparazione liceale sulla storia comunale per proporci l’idea di un “podestà straniero”.
Un’opinione pubblica distratta dalla scadenza referendaria non è che in minima parte consapevole del fatto che il commissariamento da parte della Troika rappresenta oggi una prospettiva concreta per l’incombere dell’emergenza della crisi bancaria. Lunedì scorso il ministro dell’Economia Padoan ha organizzato una riunione a porte chiuse dei vertici bancari per affrontare la questione della ricapitalizzazione degli istituti di credito, ma i margini sono strettissimi a causa del “bail in” e delle continue ingerenze della Banca Centrale Europea, pronta a inventarsi sempre nuove condizioni.
Un commentatore con i crismi dell’ufficialità come il giornalista Massimo Mucchetti, si è concesso di andare al cuore del problema ricordando che quando alla fine del 2015 il governo ha deciso arbitrariamente di anticipare di alcuni mesi l’entrata in vigore del “bail in”, quella che allora era semplicemente la crisi di quattro avventuristiche banche di provincia, ha assunto le dimensioni di una crisi di sistema. Per la precisione, Mucchetti non ha nominato il governo, ma ha parlato di “errore dell’Italia”. La personificazione di concetti astratti è un consolidato espediente per evitare di individuare le responsabilità, ma il dato di fatto non cambia: l’emergenza non c’era e “qualcuno” l’ha creata artificiosamente.
Se invece il governo avesse deciso semplicemente di salvare le quattro banche senza coinvolgere i risparmiatori, non si sarebbe compromessa la raccolta di risparmio degli altri istituti di credito. Il “bail in” sarebbe entrato in vigore tranquillamente dal 1° gennaio successivo senza che nessuno se ne accorgesse e gli investitori avrebbero continuato a comprare obbligazioni ed azioni bancarie, senza peraltro rischiare più di tanto. A parte Monte dei Paschi di Siena, nessuna banca italiana ha problemi di titoli derivati; inoltre le tanto enfatizzate “sofferenze” hanno anche fruttato parecchio alle stesse banche in termini di acquisizione di patrimoni immobiliari dei debitori.
Il governo ha quindi creato la crisi ed il panico senza che nessuna situazione oggettiva lo giustificasse e senza che nessuna regola lo obbligasse a farlo. Si può supporre che Renzi sia stato “consigliato” da qualcuno (il solito Mario Draghi?), ma queste sarebbero speculazioni. Il punto è che Renzi e Padoan hanno posto le basi per una crisi istituzionale, altro che “riforma costituzionale”.
Esistono leggi per sanzionare questi comportamenti criminali dei governi? In teoria sì, perché Renzi potrebbe essere imputato di vari reati, a cominciare da quelli di abuso di potere e di aggiotaggio; di fatto però la magistratura non riesce a concepire i reati della politica se non nella forma primitiva dell’intascare tangenti. Il reato di diffondere informazioni false o esagerate per determinare finte emergenze utili a certe lobby sovranazionali, non rientra nella forma mentis (o negli interessi personali) degli inquirenti. A proposito del lobbying occulto (ma mica tanto occulto) di Renzi, va registrata, una volta tanto, un’iniziativa più che pertinente dei parlamentari 5 Stelle, i quali hanno annunciato un esposto alla Procura di Roma per segnalare lo strano nesso consequenziale tra gli annunci di Renzi sulla ripresa del progetto del ponte sullo Stretto di Messina e gli incrementi del titolo in Borsa della multinazionale edile Impregilo, cioè l’azienda che da decenni tiene in ostaggio le casse dello Stato con quel finto progetto. Anche in questo caso infatti l’intento renziano di manipolare il mercato borsistico a favore di “qualcuno” è risultato palese. Non che gli esposti siano in grado di spostare le abitudini della magistratura, ma costituiscono comunque un mezzo per mettere in evidenza l’inerzia della stessa magistratura quando si tratti di reati legati al lobbying occulto.
L’impunità dei lobbisti occulti regna sovrana ovunque, persino quando vengono sbugiardati ufficialmente nelle loro mistificazioni, ciò persino nella “civilissima” Gran Bretagna. La commissione esteri del parlamento britannico ha accertato che l’intervento militare in Libia del 2011 è stato deciso dal governo Cameron con motivazioni infondate e addirittura false, paventando persino un inesistente pericolo per cittadini britannici residenti in Libia. Quindi tutto falso, così come era già stato per l’intervento militare di Blair nel 2003 in Iraq. Ma ciò ovviamente non comporterà l’imputazione di Cameron o di Blair per alto tradimento e neppure per lobbying occulto a favore della multinazionale BP.
Mai sottovalutare l’irresponsabilità dei privilegiati.
Non si diventa “fintosinistra” dalla sera al mattino perché è caduto il Muro di Berlino, c’erano da prima le premesse ideologiche per svuotare di senso i partiti “difensori del lavoro” e per soppiantare i loro gruppi dirigenti. Prima di soppiantare i gruppi dirigenti, si era già soppiantata l’ideologia. La sinistra è stata permeata da quell’untuoso umanesimo che considera il crimine come l’effetto di uno svantaggio sociale, di un disagio sociale o di una mancata educazione sociale. Insomma, si spreme una lacrimuccia sulla sorte dei poveri, ma poi i potenziali criminali vengono sempre individuati solo tra i poveri. Il problema è che invece il crimine è un rapporto sociale che si insedia nella stessa gestione della legge e del potere. La prassi del criminale dal colletto bianco non sta soltanto nel sottrarre una ricchezza non propria, ma nell’allestire lo spettacolo sociale della svalutazione e del deprezzamento di quella ricchezza per farla apparire come una miseria da “soccorrere”. Così è sempre stato fatto per il lavoro, ma oggi si va a coinvolgere persino istituti bancari.

mercoledì 12 ottobre 2016

Follow the money, troverai Hillary Clinton

“Segui i soldi e troverai la mafia”. La massima di Giovanni Falcone ha un valore universale, senza spazio e senza tempo, tanto da essere portata ad esempio persino dal direttore dell’FBI di New York. E proprio in America dobbiamo arrivare seguendo le orme del denaro. Tanto denaro. Il ricettacolo degli ingenti flussi monetari è una società (sedicente) di beneficenza, senza scopo di lucro, ma sulla quale vengono riversati miliardi di dollari da tutto il mondo. E’ la “Clinton Foundation”, o meglio la “Bill, Hillary and Chelsea Clinton Foundation”, l’associazione che fa capo alla famiglia della candidata americana alla Casa Bianca. Con buona pace del divieto del governo federale di ricevere denaro da fondi stranieri per le campagne elettorali americane, la fondazione riceve denaro da paesi arabi come il Kuwait, ma anche ingenti somme dall’Australia e donazioni dal Vecchio Continente. L’elenco dei donatori è una lista lunghissima, che può essere filtrata in base alla somma elargita: tra i più generosi ci sono l’associazione che fa capo a Bill Gates, i Rockfeller, la Coca Cola, l’Arabia Saudita, l’Olanda e l’Australia. A seguire, una lunga serie di imprese e banche d’affari come Lehman Brothers, American Express e JP Morgan, solo per citarne alcuni.
Ma non mancano gettiti di denaro neppure dalle dissestate casse del nostro Stato, notoriamente in deficit e sotto vigilanza europea: il Ministero dell’Ambiente versa ogni anno, già dal 2008, tra i 100.000 e i 250.000 dollari ai Clinton. Tra le altre realtà italiane c’è poi la banca Monte dei Paschi di Siena, anch’essa famosa alle cronache per il bilancio tutt’altro che florido. Niente male per una fondazione filantropica i cui obiettivi spaziano dalla difesa della salute a quella dei diritti delle donne nei Paesi in via di sviluppo, passando per la ricostruzione a seguito dei disastri naturali. Il modus operandi della Fondazione è semplice: totale privacy nella ricezione delle offerte – di cui non ha mai presentato un elenco dettagliato, né è stata mai sottoposta a controlli o revisioni di bilancio – e la massima discrezionalità nel gestire i fondi per le crisi umanitarie. Secondo Charles Ortel, un esperto americano in frodi finanziarie per opera proprio di fondazioni di beneficenza, si tratta di uno strumento di potere politico e finanziario in mano alla famiglia Clinton che, sotto la vesta filantropica, sposta immense somme di denaro a favore dei sostenitori, deviandole dal loro scopo caritatevole.
clinton
La famiglia Clinton, cui fa capo l’omonima fondazione “filantropica”.
Esemplare il caso della ricostruzione post terremoto di Haiti: ad aggiudicarsi un mega appalto milionario è stata una società che figura tra i contributori dei Clinton. Ad un esame dei lavori di ricostruzione la bocciatura è plateale: gli ispettori addetti hanno giudicato terribile l’operato dell’azienda incaricata, che ha privilegiato zone rocciose e instabili per la ricollocazione della popolazione. D’altronde, il segreto della Fondazione è quello di impegnarsi in zone con grossi problemi strutturali e di sviluppo originari; l’insuccesso delle opere di ricostruzione e miglioramento può facilmente passare inosservato o quantomeno giustificato da una sorte avversa insita nel territorio stesso. Ma episodi simili ad Haiti hanno coinvolto il Mozambico, Papua Nuova Guinea, e non hanno risparmiato nemmeno la New Orleans del post-Katrina. Quello che ci chiediamo, tornando ai fatti nostrani, è: cosa ci fanno i nostri contributi nelle enormi tasche di questa fondazione? E perché gli Usa sono scesi in campo a favore della referendum costituzionale, mentre i nostri media istituzionali ricambiano con un tifo sfegatato per Hillary? Per scoprirlo sarà sufficiente seguire le tracce del nostro denaro…

martedì 11 ottobre 2016

Il grande (?) ritorno degli italiani all’estero

“Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. Questo, teoricamente saremmo noi, italiani.
E’ giunta una nuova epoca, nella quale torniamo ad essere trasmigratori. Sebbene la stampa italiana faccia di tutto per presentare come positiva la “grande invasione” degli italiani all’estero, il nostro Paese sembra retrocesso di almeno cent’anni.
Precisamente, all’età giolittiana, quando lo statista Giovanni Giolitti, varie volte Presidente del Consiglio, sceglieva agli inizi del ‘900, per pareggiare il bilancio dello Stato un metodo del tutto originale. Incoraggiava gli italiani ad emigrare, pagava loro il passaporto, e tramite le loro rimesse, pareggiava il bilancio dello Stato. In pratica, l’Italia “grande proletaria” veniva incentivata a partire. Si legga il poemetto “Italy” di Giovanni Pascoli, per capire, seppur a grandi linee, le condizioni miserrime, povere, degradanti dei nostri antenati cent’anni fa.
Oggi come allora, lo Stato Italiano, incita, come soluzione ai problemi interni, i suoi cittadini alla fuga. Si può certamente obiettare che le condizioni siano totalmente cambiate: se prima i nostri avi scappavano per la povertà, ora il nostro Paese, dopo due guerre mondiali, si trova tra i più avanzati al mondo, e certamente non si fugge per espletare il bisogno primario della fame. E allora, cosa succede, per quale motivo siamo tornati ad essere un popolo di emigranti?
In primo luogo, lo dice l’ANSA stessa, gli emigranti attuali sono giovani. Ciò che dovrebbe essere il fiore all’occhiello, la nuova classe dirigente, non trova alcuno spazio, né per crearsi un futuro, né per avere prospettive solide per un’indipendenza. Abbiamo analizzato poco tempo fa quali cause abbiano generato il lavoro precario, da circa una ventina d’anni a questa parte. Le leggi liberiste hanno minato il tessuto sociale nel profondo. I contratti precari non garantiscono continuità lavorativa, e pertanto indipendenza dal nucleo famigliare, creazione di una famiglia, nascita di nuovi figli.
La crisi economica che ci attanaglia dal 2008 ha cancellato migliaia di posti di lavoro, in particolar modo nel nord post – industriale. L’ingresso nel mondo del lavoro di migliaia di giovani è stato talmente rapido, da esserne usciti con altrettanta celerità.
Come se non bastasse, il mondo baronale, ingrigito, gerontocratico delle Università e dei posti di ricerca (e comando) in Italia, non ha mai gradito l’accesso ai “non addetti” ai lavori. Per capirci, alcuni libri di indagini in tal senso (basti citare il Londra Italia di Enrico Franceschini, corrispondente di Repubblica) hanno rilevato la massiccia presenza di Professori e scienziati italiani all’estero, i quali sono stati costretti a fuggire da un Paese che non li ha accettati o li ha ridotti al precariato eterno.
In secundis, il cambiamento di mentalità. I media mainstream, hanno inculcato da tempo l’idea che emigrare sia una cosa di tendenza. La figura del cittadino globale, che può essere a casa propria a Roma come a Budapest, a Parigi come a Berlino, con mete imprescindibili come Barcellona e Londra sempre pronte, è stata narrata, propagandata fino allo spasmo. Il modello “Generazione Erasmus”, dello studente libero, bello e ribelle, è ciò che tuttora gli universitari italiani sognano dal primo giorno in facoltà. Poco importa se si tratta di una realtà falsa e ovattata, creata ad arte dai vari Beppe Severgnini i quali sono arrivati a scrivere addirittura che il progetto Erasmus è stata una benedizione perché l’incontro tra giovani europei aveva generato….. diversi bebé.
La grave colpa che si può attribuire ai giovani attuali è il non avere tentato di lottare in casa propria, cedendo alle lusinghe di questa falsa propaganda, secondo la quale, tentare di cambiare il proprio paese è impossibile, e allora, giocoforza, si deve emigrare. Il coraggio, le potenzialità, l’unione di determinate menti avrebbe sicuramente aiutato la nostra società, desiderosa di svecchiamento, ed invece, questi talenti sono stati assorbiti da Londra, Parigi, Berlino o qualunque altra città offrisse quelle certezze di cui i nostri giovani abbisognano(-vano).
In terzis, i Governi. Non si può, in nessun modo, ragionare in base ad un debito pubblico insaldabile, e rendere le generazioni future schiave dello stesso. I Governi hanno il dovere morale di pensare alle generazioni attuali e future. Hanno il compito di risolvere questa crisi, facendo in modo che i vari italiani fuggiti possano tornare, e mettere a disposizione il loro capitale e le loro conoscenze in questo nuovo contesto socio – economico. Non ottemperare a questo ruolo, evitare di affrontare la questione invocando la strada giolittiana di cent’anni fa, implica scenari catastrofici. Non solo per l’invecchiamento progressivo della società, composta sempre più da immigrati inseriti nel contesto in maniera forzosa e problematica. Si tratta di una auto – amputazione, rivolta però, a chi deve garantire il futuro. E fin quando i nostri giovani (e meno), saranno costretti a partire, le parole crescita, ripartenza, sviluppo, si svuotano di ogni significato. La crisi, è proprio questa.

lunedì 10 ottobre 2016

“Renzi lavora per noi”, assicura l’Unione Europea

C'è chi ancora crede che la sede del potere, qui in Italia, sia a Palazzo Chigi. C'è insomma chi non si è accorto. o non ha capito, quel che è avvenuto negli ultimi 25 anni. Il potere vero, ossia la possibilità di decidere e far rispettare le proprie decisioni, si è progressivamente trasferito dalle singole capitali dell'eurozona a Bruxelles. In specifico nella sede della Commissione Europea, guidata da Jean-Claude Juncker e condizionata fin qui soprattutto dalla Germania.
I governi nazionali, insomma, che beneficino o no del consenso popolare, non contano quasi un tubo. Per lo meno non nella materia principale di ogni scelta politica: economia e finanza. Senza soldi non si possono fare scelte, dunque chi determina gli indirizzi economici e finanziari (il bilanci dei singoli Stati) determina anche le scelte politiche nazionali. Quantomeno riguardo ai saldi finali e alle voci di spesa considerate "inutili" (quelle sociali, ovvio…).
La riprova si è avuta in queste ore, quando il commissario europeo agli affari economici (il "ministro dell'economia" europeo), Pierre Moscovici ha spiegato che l'attuale governo in carica otterrà tutta o quasi la "flessibilità sui conti pubblici" che va chidendo da tempo. Perché in Italia “c’è una minaccia populista. E’ per questo che sosteniamo gli sforzi di Renzi affinché sia un partner forte all’interno dell’Ue”.
Non ci sarebbe da aggiungere altro. E' "populismo" tutto ciò che fa riferimento – strumentale o meno – alle condizioni vita dei singoli popoli. E quindi il pensiero mainstream considera tali sia gli euroscettici un po' razzisti di destra, sia i movimenti politici e sociali della sinistra più o meno radicale che vanno consolidandosi in dversi paesi, soprattutto Piigs.
In specifico, Moscovici ha voluto rassicurare i mercati – gli investitori finanziari – sull'eventualità che la legge di bilancio presentata da Padoan e Renzi, con cifre previsionali chiaramente inventate, possa essere stracciato e riscritto dalla Commissione. In teoria meriterebbe questa sorte, ha fatto capire, ma siccome c'è "la minaccia populista" si concederà qualcosa in più di quanto è previsto dai trattati.
I capitoli che favoriscono questa interpretazione benevola dei trattati sono quelli già individuati dal governo italiano: terremoto e migranti. Spese impreviste in un caso (come se in Italia i terremoti fossero un evento eccezionale e inconsueto…) e spese per fare da "cuscinetto selettivo" dei flussi migratori dall'Africa verso l'Europa.
Naturalmente questa flessibilità non può essere infinita. “Abbiamo detto chiaramente cosa è la flessibilità nel gennaio 2015. Dobbiamo incoraggiare i Paesi che creano molti investimenti, lo abbiamo fatto con l’Italia. Aiutare i Paesi che portano avanti riforme strutturali affinché possano avere più tempo, lo abbiamo fatto con l’Italia. Abbiamo detto che saremmo pronti a considerare spese per la crisi di rifugiati o un terremoto o un Paese che soffre attacchi terroristici come il Belgio. Si tratta di flessibilità precise, limitate e chiaramente spiegate. In generale un Paese deve rispettare i criteri e ridurre il debito, è il principale problema di Italia e Belgio”.
Guinzaglio corto, insomma. Anche a bruxelles sano benissimo che questo contafrottole è capace di tutto. Persino di minacciare l'Unione Europea quando parla in casa e di chiedere la carità quando si presenta in alto loco…

venerdì 7 ottobre 2016

Analfabetismo funzionale e fine della democrazia

Per comprendere la portata di quanto accaduto con l’approvazione della cosiddetta “legge sul cyberbullismo”, meglio indicata come “Legge Ammazza Web” e la cui valenza è ben riassunta dal popolare blogger Cory Doctorow con “la più stupida legge censoria d’Europa”, dobbiamo rispolverare il grande filosofo e piscoanalisti Erich Fromm.
Secondo lo scienziato tedesco, la democrazia può resistere alla minaccia autoritaria sola se riesce a trasformarsi da “democrazia di spettatori passivi” a “democrazia di partecipanti attivi”, nella quale cioè i problemi della comunità siano familiari al singolo e per lui importanti quanto le sue faccende private.
Il particolarismo e l’individualismo della società moderna, sempre più frenetica e affannata nel lavoro e nel consumo, è un fatto già assodato. Quello che invece crea sconcerto, su cui dobbiamo soffermarci, è l’incapacità ormai consolidata di comprendere gli accadimenti della vita collettiva.
ignoranzaSecondo una recente ricerca dell’Ocse, un italiano su due non possiede le abilità di lettura, scrittura e calcolo richieste per lo svolgimento efficiente delle attività della vita quotidiana. Le sue competenze e conoscenze non sono quindi funzionali alla vita nella società moderna: è stato perciò coniato il termine “analfabetismo funzionale”, o di ritorno. Oltre la metà della popolazione (54%) non ha letto alcun libro nell’ultimo anno, e un italiano su 10 dichiara addirittura di non possedere neanche un libro.
Ma, sempre citando Fromm, il saper leggere e scrivere non è affatto una benedizione qualora la gente se ne serva soltanto per leggere scritti che ne impoveriscono la capacità di sperimentare e immaginare.
Il livello di partecipazione alla vita pubblica e l’utilizzo degli strumenti democratici per la metà degli italiani, affetti da analfabetismo funzionale, è pari a quello di un bambino della scuola elementare.
E proprio questa incapacità di comprendere gli avvenimenti e metterli in relazione deve essere alla base dell’approvazione alla Camera della legge sul cyberbullismo e del quasi unanime consenso – o silenzio assenso – del mainstream mediatico.
La proposta di legge era stata avviata già da tempo e a fine luglio, mentre tutti pensavamo alle vacanze o eravamo scossi da qualche tremendo attentato, ha riportato delle modifiche al testo originario davvero draconiane. Quella più clamorosa e sostanziale è che nella casistica di cyberbullismo non deve più rientrare necessariamente un minore. Chiunque può esserne vittima. E questo dovrebbe bastare per comprendere lo snaturamento e la sopravvenuta inappropriatezza della normativa.
Inoltre, la definizione di cyberbullismo è stata ampliata e rientrerà nella fattispecie “l’aggressione o la molestia reiterate, a danno di una o più vittime, anche al fine di provocare in esse sentimenti di ansia, di timore, di isolamento o di emarginazione ,ecc.”, sia essa attuata attraverso “atti o comportamenti vessatori, pressioni e violenze fisiche o psicologiche (…) offese o derisioni, anche aventi per oggetto la razza, la lingua, la religione, l’orientamento sessuale, l’opinione politica, l’aspetto fisico o le condizioni personali e sociali della vittima.” Insomma, il confine con l’informazione critica è talmente lieve da venir meno.
La pena, per chi si macchierà di questo crimine, sarà durissima: oltre al sequestro del computer e degli altri dispositivi mobili, il testo prevede la reclusione da uno a sei anni, anche per chi usa “la sostituzione della propria all’altrui persona”.
Chissà se la maggioranza che ha votato compatta in aula (contrari solo i Cinque Stelle e il gruppo di Civati) soffriva di analfabetismo di ritorno, come i cittadini che si mostrano tacitamente disinteressati, o di opportunismo, altro grande male della democrazia?

giovedì 6 ottobre 2016

In Italia 4,5 milioni di poveri, ma lo spreco di cibo vale 12,6 miliardi di euro

Come ridurre lo spreco di cibo in Italia? Secondo l’analisi diffusa oggi, durante giornata di studio organizzata a Roma dall’associazione Greenaccord e Arsial Lazio, ogni anno nel nostro Paese passando dal terreno alla tavola si sprecano oltre 5 milioni di tonnellate di cibo: falle che mandano in fumo «un controvalore economico pari a 12,6 miliardi di euro», come precisano dall’Agenzia laziale, e rappresentano uno schiaffo inaccettabile sia per i 4,5 milioni di poveri italiani sia per l’ecosistema.
Se non si indagano in profondità i tanti aspetti del fenomeno, difficilmente si può arrivare a risolvere i problemi che esso provoca. Francesco Maria Ciancaleoni, area ambiente e territorio della Coldiretti, sottolinea come in Italia «la maggiore responsabilità è nel consumo, visto che lì si contano il 54% delle perdite. Un modello efficace è quello di prossimità che prevede il riavvicinamento tra chi produce e chi consuma: si tratta di un modello che porta vantaggi sociali e ambientali concreti in termini di riduzione degli sprechi».
Ma per cambiare concretamente rotta è necessario l’apporto di tutti i componenti della filiera, dal produttore al consumatore passando per la distribuzione. A fornire numeri e scenari mondiali sul fenomeno dello spreco alimentare è stata Marcela Villareal, direttrice Divisione partenariati, attività promozionali e sviluppo della Fao, che ha ribadito la necessità di una rivoluzione culturale: «Il 44% della popolazione mondiale negli Anni ‘80 viveva in estrema povertà. Oggi è il 10%, nonostante questo ci sono ancora 800 milioni di persone che soffrono di fame cronica». Secondo uno studio dell’organizzazione Onu «un terzo del cibo prodotto al mondo viene perso durante il processo di produzione o sprecato durante la consumazione. Parliamo di 1,3 miliardi di tonnellate sprecate o perse ogni anno. Una quantità pari a quella che produce l’Africa in cibo». Per combattere queste realtà «serve realizzare gli impegni dell’Agenda 2030 – continua Villareal – che prevedono il dimezzamento degli sprechi e l’introduzione di sistemi di monitoraggio all’interno dei singoli Paesi».
Sprecare 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti, dalla materia prima ai prodotti trasformati, significa infatti perpetrare gravissimi danni economici e ambientali, che valgono ben il 7% delle emissioni di gas serra mondiale prodotte.
«È arrivato il momento di una seria riflessione sulla riconquista di valore, non solo economico ma anche etico e culturale del cibo – conclude il presidente di Greenaccord, Alfonso Cauteruccio – Non solo gli attori delle filiere produttive e le catene di distribuzione ma ogni famiglia, soprattutto noi privilegiati residenti nel mondo ricco, è chiamato a ripensare i propri stili di consumo».

mercoledì 5 ottobre 2016

L’anatocismo esce dalla porta e rientra dalla finestra

Dal 1° ottobre 2016, rientra dalla finestra l’anatocismo, ossia l’odiosa pratica di ricapitalizzare gli interessi bancari, oggetto di una ventennale battaglia giudiziaria di Adusbef, che aveva visto consolidare la giurisprudenza in Cassazione e Corte Costituzionale, con il suo divieto assoluto recepito dalla legge di stabilità del 2014.
Infatti la delibera del CICR – Comitato Interministeriale Credito e Risparmio del 3 agosto 2016, intitolata “Modalità e criteri per la produzione degli interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 212 del 10 settembre 2016) attua le nuove norme sull’anatocismo previste dal secondo comma dell’art. 120 del Testo unico bancario (Tub), come riformato dall’articolo 17-bis del decreto legge 14 febbraio 2016, ripristina l’anatocismo su base annua, offrendo al debitore (affidato) la scelta della corda con la quale impiccarsi, ossia di autorizzare l’addebito degli interessi sul conto corrente al momento in cui questi divengono esigibili, dando attuazione alla loro capitalizzazione, oppure estinguerli entro 60 giorni (1 marzo) dal momento in cui diventano esigibili con l’afflusso di nuovi capitali cash.
I correntisti devono quindi scegliere se autorizzare l’addebito degli interessi passivi maturati al 31 dicembre di ogni anno, che così diventano capitale e producono altri interessi, oppure se estinguerli con afflussi freschi di denaro: ad esempio, se un conto affidato matura – per ipotesi- 1.000 euro di interessi conteggiati al 31 dicembre di ogni anno, diventando esigibili entro il 1 marzo dell’anno successivo, o vanno estinti – quindi pagati con denaro cash del correntista- oppure si aggiungono alla sorte capitale del fido, mettiamo di 20.000 euro, che ricapitalizzano per l’anno successivo 21.000 euro di nuovi interessi.
Se il correntista paga gli interessi maturati, non vengono aggiunti al capitale; se autorizza l’ addebito in conto, diventano capitale che maturano altri interessi; se l’affidato non paga gli interessi e non autorizza l’addebito in conto, scatta l’inadempienza contrattuale con l’aggravante di ulteriori interessi di mora. Le banche potrebbero aggiungere alle clausole contrattuali che regolano i rapporti dei conti correnti, che i fondi accreditati nel conto del cliente sul quale è regolato il finanziamento, possano essere impiegati per estinguere il debito da interessi, mentre per i contratti in corso le banche sono state autorizzate – come sempre- ad effettuare variazioni unilaterali dalle nuove norme a partire da domani 1° ottobre 2016, con la descritta richiesta di autorizzazione dell’affidato per l’addebito in conto degli interessi maturati diventati esigibili.
Le banche, ringraziano il Pd (e la maggioranza di Governo) che con un emendamento della scorsa primavera aveva ripristinato e resuscitato l’anatocismo bancario, vietato dal 1° gennaio 2014, essendo grate due volte al CICR ed alla Banca d’Italia, che non ha messo bocca, sul periodo di vacatio legislativa, nel quale l’efficacia della delibera del 2000 è venuta meno a causa della novella dell’ art 120 TUB che ne giustificava la sussistenza, ed il momento in cui diviene operativa la nuova delibera, con la previsione dell’art. 1283 Codice Civile il quale prevede il divieto di anatocismo ad eccezione delle ipotesi in cui sia autorizzato dal cliente dopo la scadenza o derivi da una domanda giudiziale.
Adusbef e Federconsumatori stigmatizzano i comportamenti scorretti di Cicr e Banca d’Italia, che non hanno disposto alcuna previsione di restituzione automatica, con i relativi conteggi, dell’anatocismo illecito, praticato dalle banche dal 1 gennaio 2014 ad oggi. (Adusbef)

martedì 4 ottobre 2016

Pensioni, il bluff propagandistico di Renzi è palese"

Sono solo proposte avanzate verbalmente, neppure sulla carta di progetti legislativi, ma quanto è stato discusso tra Governo e Sindacati sul terreno delicatissimo delle pensioni è già oggetto da parte degli organi d’informazione di una vera e propria campagna di mistificazione.
La realtà viene nascosta da titoli devianti rispetto alla realtà che nascondono i diversi progetti di provvedimento.
Prendiamo ad esempio, ma soltanto come esempio, le due pagine che Repubblica dedica all’argomento.
Il titolo in alto recita : Pensioni a 63 anni e minime più alte. Governo e sindacati firmano l’accordo”. E il catenaccio: “Sei miliardi alla previdenza in un triennio. No tax area, tutele per i lavoratori precoci”.
Qual è la realtà di partenza, tanto per cominciare?
L'età media all'incasso del primo assegno Inps, in particolare, è aumentata di tre anni per le pensioni di vecchiaia (dai 62,5 del 2009 ai 65,6 del 2014) e di quasi un anno per quelle di anzianità (dai 59 anni ai 59,9 anni).
Il bilancio sociale 2014 presentato da Tito Boeri mostra la difficile situazione in cui si trovano molti pensionati. Quasi un pensionato su due, il 42,5%, pari a circa 6,5 milioni d’individui, percepisce un reddito pensionistico medio inferiore a mille euro mensili. Tra questi, il 12,1% non arriva a 500 euro al mese. E le sorprese non finiscono qui perché l’Inps ha comunque il bilancio ancora in rosso. Il saldo tra entrate e uscite evidenzia un disavanzo complessivo di 7 miliardi, benché nel 2014 abbia erogato 20.920.255 pensioni, tra cui 17.188.629 pensioni previdenziali, ossia invalidità, vecchiaia e superstiti, per circa 243,514 miliardi di euro e 3.731.626 pensioni assistenziali. Il reddito medio più basso è dei pensionati residenti al Sud: 1.151 euro; al Nord si sale a 1.396 euro, mentre al Centro si arriva a 1.418 euro.
Questa dunque sommariamente la situazione di partenza.
Entriamo ora nel dettaglio dell’attualità.
Sotto il titolo “L’anticipo pensionistico, via dal lavoro prima con il prestito” è presentata l’APE : punto d’intesa, del resto, che rimane ancora del tutto aperto.
A parte i lavoratori che le aziende mettono fuori per ristrutturazioni o riorganizzazioni (accollandosi però anche il costo dell'Ape) e quelli che rientrano nell'Ape sociale, tutti gli altri - la stragrande maggioranza dei 350 mila potenziali italiani interessati all'Anticipo pensionistico - dovranno pagare di tasca propria la possibilità di ritirarsi sino a tre anni prima. Quanto? Secondo alcune simulazioni, come quelle di Progetica, anche un quarto del futuro assegno previdenziale (quello che s’incassa dal compimento dei 66 anni e 7 mesi, il requisito di legge per andare in pensione). Con una postilla non da poco: la metà della futura rata andrà a ripagare banche e assicurazioni, dunque il sistema finanziario che di fatto rende fattibile l'intera operazione, altrimenti impossibile alla nostra finanza pubblica.
L’ipotesi più probabile è quella di una ridottissima funzione dell’APE in quanto pochissimi potranno usufruirne restando in possesso di un assegno degno di questo nome.
Così com’è accaduto per la previdenza complementare.
In Italia la partecipazione alla previdenza complementare appare ancora limitata. A fine 2015 gli iscritti ammontavano a circa 7,3 milioni e le risorse destinate alle prestazioni avevano raggiunto i 139 miliardi di euro; si tratta di un valore pari a circa l’8,1% del Pil e il 3,3% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. Il tasso di adesione risulta pari al 25,6% rispetto alla forza lavoro e al 29,5% rispetto agli occupati. Per i dipendenti del settore privato il tasso di adesione supera il 33%, con valori diversificati per dimensione aziendale. Si stima un valore prossimo al 50% nelle imprese con almeno 50 addetti che scende al 20% nelle imprese di minore dimensione.
Su questo elemento risiede un altro punto di mistificazione giornalistica: il titolo è “Sgravi fiscali sull’assegno integrativo”.
Ma, come abbiamo visto, questo riguarda soltanto una parte molto limitata della platea interessata all’universo pensionistico.
Addirittura si prevede che chi richiede l’APE potrà affiancare questa richiesta con l’anticipo dell’altra pensione, quella integrativa usufruendo di una “riduzione” non precisata sul piano fiscale. Tassazione che, nel frattempo, il governo Renzi ha innalzato dall’11,5 % al 20%.
Terzo passaggio: una mensilità in più per 3,3 milioni (sempre seguendo il titolo di Repubblica)
La famosa “quattordicesima”.
Per chi si colloca al di sotto dei 750 euro mensili non ci sarà il raddoppio dei 40 euro, bensì, come ha fatto intendere il sottosegretario Nannicini il 30% di aumento, quindi 12 euro in più, che per fare “sciato” saranno versati in unica soluzione.
Nella sostanza gli assegni in più, versati a luglio, corrisponderanno (su pensioni collocate tra i 750 e i 1000 euro al mese) a una fascia di 446 euro (15 anni di contributi), 546 (25 anni), 655 (più di 25 anni).
Infine,la questione della “no tax area” che salirà fino agli 8.125 euro annui (625 euro al mese) soltanto per gli “over 74”: una platea molto limitata, se andiamo a vedere le cifre complessive delle pensioni al di sotto della soglia.
Senza dimenticare la questione degli esodati: siamo ormai all’ottava salvaguardia che così si configura:
1) 1.542 esodati con una contribuzione insufficiente per il diritto alla pensione;
2) 1.779 sprovvisti di una delle condizioni accessorie previste dai singoli provvedimenti;
3) 14.010 non ammessi alle precedenti tutele per via del fatto che maturano tardivamente il diritto all’assegno previdenziale. Si tratta di: 3.099 con decorrenza fra il 7 gennaio 2017 e il 2018 e ulteriori 10mila che maturano l’assegno fra il 2018 e il 2045. Ammontano a circa una decina i lavoratori che hanno decorrenza oltre il 2030, la maggioranza infatti (si parla di 9mila esodati) l’ha entro il 2025.
Per quel che riguarda gli esodati il tema della decorrenza della pensione costituisce una questione centrale
Proprio su questo aspetto il nuovo intervento di ottava salvaguardia dovrebbe allungare la rete. Il disegno di legge presentato alla Camera, e come detto ora in attesa in commissione Lavoro, prevede di tutelare all’incirca 32mila esodati, quelli che maturano la pensione entro il 2019, nonostante la decorrenza dell’assegno sia successiva a questa stessa data.
Si ricorda inoltre che la liquidazione del trattamento pensionistico è stata completata nell’estate appena trascorsa per la seconda salvaguardia .
Questo quadro, fatto di piccole cifre per chi ci vive a stento e per di più presi in giro da chi calcola il proprio guiderdone nell’ordine delle migliaia di euro immessi nella cerchia del “sempre meglio che lavorare” si colloca in una situazione generale così composta:
Disoccupazione giovanile. 37,9% in Italia, in Europa la media è del 22%
In generale : a luglio il tasso di disoccupazione all’11,4%,
Nel 2015 il dato di povertà assoluta ha coinvolto il 6,1% delle famiglie.
Inoltre e davvero infine
Il rapporto realizzato dall'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha mostrato come nella maggior parte dei Paesi la disuguaglianza di reddito abbia raggiunto livelli record.
Secondo il rapporto, nei 34 Paesi membri dell'Ocse il dieci per cento più ricco della popolazione ha un reddito corrispondente a 9.6 volte quello del 10 per cento più povero.
In Italia il 21 per cento più ricco della popolazione detiene il 60 per cento della ricchezza del Paese, mentre il 40 per cento più povero ne controlla solamente il 4.9 per cento.
Una differenza, stando ai dati, accentuata soprattutto dalla crisi economica: tra il 2007 e il 2011, il 10 per cento più povero degli italiani ha perso il 4 per cento della ricchezza, contro l'1 per cento perso dal 10 per cento più ricco.
Le disuguaglianze del reddito non riflettono tanto il tasso di disoccupazione, quanto piuttosto la dispersione salariale, ovvero la differenza di salario tra persone che svolgono simili impieghi.
Dati che non richiedono commento di sorta.
Intanto ci si balocca con le favole del turismo, del cibo, del ponte sullo Stretto, delle Olimpiadi in un Paese privo di piano industriale, incapace di una seria politica di intervento pubblico.
Un paese dove l’evasione fiscale si situa a livello stratosferici: secondo il Rapporto sull’evasione fiscale 2014 pubblicato ministero dell’Economia basato su dati Istat, l’entità del sommerso nazionale nel 2008 oscillava tra i 255 e i 275 miliardi di euro, cifre che in percentuali rappresentano il 16,3% e il 17,5% del PIL.
Un paese dove Cantone proibisce di parlare di corruzione e invece: Nella ventunesima edizione del CPI, l’Italia si classifica al 61° posto nel mondo, così l’Italia rimane ancora in fondo alla classifica europea, seguita solamente dalla Bulgaria e dietro altri Paesi generalmente considerati molto corrotti come Romania e Grecia, entrambi in 58° posizione con un punteggio di 46.
Un Paese nel quale la presenza della criminalità organizzata appare evidente: mafia, n’drangheta, camorra, sacra corona unita così come l’allargamento delle attività economiche coperte da parte di queste organizzazioni ben al di fuori dei territori di riferimento tradizionale.
In realtà, tornando al tema pensionistico, ci sarà un trascinamento propagandistico che arriverà al 4 Dicembre, data del referendum, poi il tutto si dileguerà come neve al sole com’è stato nel caso del Job Act, senza dimenticare il fallimento dell’operazione anticipo del TFR in busta paga.

lunedì 3 ottobre 2016

Shimon Peres: l’uomo del nucleare di Israele

L’ex Primo Ministro e Presidente di Israele, Shimon Peres, è stato un marchio di successo. E’ stato presentato al mondo come signorile, saggio, sostenitore della pace, e voce razionale nel mezzo di un conflitto considerato insensato e senza fine.
Ora che è morto a 93 anni, i media internazionali sono pieni di omaggi toccanti e di elogi commoventi del vincitore del Premio Nobel per la Pace, uno dei più perspicaci ‘padri fondatori’ di Israele, che è stato anche considerato un ‘gigante tra gli uomini’.
Queste caratteristiche erano basate sul sentimento piuttosto che sui fatti, e tuttavia, una completa conoscenza dell’eredità dell’uomo dura ancora certamente tra molti palestinesi, libanesi e difensori della pace e della giustizia in Medio Oriente.
La verità è che Peres non è stato mai veramente un paciere, non ha mai lavorato tanto per raggiungere compromessi politici giusti ed equi che avrebbero preservato la dignità e i diritti dei palestinesi, unitamente alla salvaguardia del futuro del suo popolo. Di fatto Peres era un massimalista, un uomo che apertamente spingeva avanti le sue idee allo scopo di raggiungere i suoi obiettivi, indipendentemente da quale fosse il metodo o il prezzo.
Non era neanche un leader con qualità specifiche che gli permettevano di eccellere in particolari campi della politica. Era, invece, la ‘incarnazione della quintessenza del politico israeliano che scambiava i ruoli e che cambiava marchio quando l’occasione o il ruolo lo richiedevano.
“Per vari decenni Peres è stato primo ministro (due volte) e presidente, anche se non ha mai realmente vinto un’elezione nazionale completamente ,” ha scritto Ben White su Middle East Monitor. “E’ stato membro di 12 governi e ha avuto dei periodi come ministro della difesa, degli esteri e della finanza.”
Era anche definito “guerriero” in patria e ‘colomba’ della pace nei forum internazionali. Ha dato sempre l’impressione di essere gentile e formale, e i media occidentali spesso accettavano quella immagine sbagliata facendo poche domande.
Per molti, però, Shimon Peres era un falso profeta. Come Ehud Barak, Tzipi Livni, Ehud Olmert e altri era un ‘paciere’ soltanto di nome ed era definito così soltanto da coloro di cui soddisfaceva gli ideali.
Temendo che la sua reputazione di “troppo tenero ” per guidare Israele, che di solito è comandato da generali temprati dalla battaglie, avrebbe influenzato la sua posizione tra gli elettori, Peres spesso infliggeva punizioni al popolo palestinese e a quello libanese. La sua storia è stata piena di brutali crimini di guerra che restavano impuniti.
Anche se viene ricordato per aver ordinato il bombardamento di un rifugio dell’ONU nel villaggio libanese di Qana nel 1996, che uccise e ferì centinaia di persone innocenti, la lista dei suoi crimini di guerra collegati al suo nome è lunga quanto la sua carriera. E’ restato, proprio fino alla fine, un fedele sostenitore delle guerre del governo israeliano di destra contro Gaza e dell’assedio a quella regione impoverita e tradita.
Anche come ‘paciere’ ha fallito terribilmente. Ha perorato gli Accordi di Oslo come un trattato politico che avrebbe rafforzato l’occupazione israeliana e trasformato quel poco che restava della Palestina storica in Bantustan *scollegati, come era successo, forse anche in misura peggiore, nel Sudafrica dell’apartheid. Certamente, comunque, Peres si assunse la responsabilità oppure espresse alcun rimorso per la conseguente situazione critica dei palestinesi.
Cionondimeno, il marchio di Shimon Peres è vecchio. Attraversa tutto il corso della sua lunga carriera, cominciando da quando entrò nelle milizie sioniste clandestine, prima che Israele si stabilisse sulla terra palestinese espropriata. Al suo gruppo militante, Haganah, fu affidata l’attuazione del Piano Dalet che mirava, sostanzialmente, alla pulizia etnica della popolazione palestinese della sua patria storica.
Essendo uno dei ‘discepoli di David Ben Gurion’, il Primo Ministro di Israele’, Peres “trascorse la sua lunga carriera politica sotto i riflettori,” anche se “i suoi più grandi successi venivano preparati nell’ombra,” secondo Yaron Ezrahi, un professore di politica all’Università ebraica di Gerusalemme, come citato da Jonathan Cook.
Uno dei suoi successi è stata la bomba nucleare. Anche se vari paesi del Medio Oriente, soprattutto l’Iraq e l’Iran vengono spesso derisi per le armi nucleari che non hanno mai posseduto, Pers è stato il padre fondatore nella regione delle armi di distruzione di massa.
“Peres, come il suo mentore, credeva che la bomba israeliana fosse la chiave per garantire la posizione di Israele – sia a Washington, D.C. che tra gli stati arabi – come potenza incontestabile in Medio Oriente,” ha scritto Cook.
Eludendo le proteste americane, Peres ha “reclutato” l’appoggio clandestino di Gran Bretagna, Francia, Norvegia e di altri paesi per realizzare la sua ambizione.
Tuttavia, durante tutta la sua carriera, Peres non smise mai di parlare di ‘pace.’ La sue retorica e la faccia atteggiata a ‘sincerità’ soddisfaceva anche suoi rivali politici per la giustapposizione di Peres amante della pace rispetto, per esempio, al guerrafondaio Ariel Sharon, la quale mostrava Israele come paese con sane istituzioni democratiche.
Tuttavia, la vera presa in giro è che le differenze tra Peres e i suoi rivali che comprendevano anche l’ex Primo Ministro israeliano, Yitzhak Shamir, erano a malapena evidenti, e soltanto rilevanti all’interno del contesto politico e storico di Israele.
Per esempio, Shamir che guidò il governo dal 1983 al 1984, e, di nuovo dal 1986 al 1992, era membro del gruppo terrorista paramilitare sionista, Lehi, noto anche come Banda Stern, nell’epoca in cui Peres era membro dell’Haganah. Durante tutte le loro carriere di militanti e di politici, entrambi hanno collaborato sull’argomento della pulizia etnica, hanno dichiarato guerre, hanno esteso le colonie ebraiche illegali, e hanno rafforzato l’occupazione militare della terra Palestinese dopo il 1967.
Tuttavia, il ’signorile’ Peres sceglieva accuratamente le sue parole ed era effettivamente un diplomatico astuto, mentre Shamir era un personaggio brusco e sgradevole. Per quanto riguarda la differenze pratiche, tuttavia, gli esiti finali delle loro politiche erano praticamente identici.
Un esempio particolarmente deplorevole di questo è stato il governo di unità di Israele nel 1984 che aveva una composizione della leadership molto peculiare che comprendeva sia Shamir del partito di destra Likud e Peres del partito laburista che all’epoca era nella prima fase della sua “reinvenzione” come ‘colomba.’ Yitzhak Rabin fu destinato all’incarico di Ministro della Difesa).
Questi due individui che sono stati al timone della leadership israeliana costituivano la peggiore combinazione possibile dal punto di vista dei palestinesi che vivevano nei territori occupati. Mentre Shamir e Perez avevano il ruolo rispettivamente di intransigente e di ricercatore della pace, di fronte alla comunità internazionale, entrambi i personaggi e i loro governi erano a capo di un retaggio saturo di violenza, dell’annessione illegale della terra palestinese e dell’espansione degli insediamenti.
Il numero di coloni ebrei che si erano trasferiti nei territori occupati, tra il 1984 e il 1988, aumentò considerevolmente, contribuendo a una politica di lenta annessione della terra palestinese e, prevedibilmente, della pulizia etnica di molte altre persone.
Nell’ottobre 1994, a Peres, insieme a Yasser Arafat e a Yitzhak Rabin, fu assegnato il Premio Nobel per la Pace. Mentre Rabin venne assassinato da un estremista ebreo e Arafat morì a causa di un sospetto avvelenamento, Peres è vissuto fino a 93 anni, difendendo l’interesse di Israele a spese dei palestinesi, proprio fino alla fine, giustificando le guerre israeliane, l’assedio e l’occupazione militare.
Gli Israeliani e molti media occidentali tradizionali possono pur lodare Peres come un eroe, ma per i palestinesi, i libanesi e per moltissimi altri, è un altro criminale di guerra che è scampato a qualsiasi obbligo di rispondere dei suoi innumerevoli misfatti.