venerdì 29 aprile 2016

Ttip, il pacco Europa

Sarebbe perfino buffo vedere quanto Obama tenga alla tenuta della Ue, quanto si dia da fare per auspicare in chiaro, ordinare sottotraccia, minacciare con sorprendenti inchieste giornalistiche tra Panama e Washington i piccoli oligarchi europei,perché non gli venga in mente di non battersi fino all’ultimo respiro per la magnifica costrizione. Dico buffo a favore di certa sinistra che non sapendo dove sbattere ideologicamente la testa, ha venduto l’idea che l’Unione fosse un baluardo contro lo strapotere statunitense: mai come oggi ci accorgiamo invece che essa è un prodotto americano, costruito intorno alla ideologia ultra liberista di oltre atlantico, una facility geopolitica per non star dietro a troppi stati e allo sviluppo dei loro interessi dopo la guerra fredda. E che oggi è uno strumento indispensabile per far passare il Ttip e dare un po’ di respiro e territorio di conquista a un’economia Usa che cresce solo sulla carta. Anzi di più per rendere esplicito il dominio e l’egemonia statunitensi tramite multinazionali, trascinare il continente nel conflitto euroasiatico che Washington sta preparando, condizionare e dominare tramite piccole elites subalterne che niente hanno a che vedere con la democrazia vera e men che meno i popoli che anzi vengono irrisi e bastonati.
Certo i problemi non mancano sulla via di questa europa a stelle e strisce, c’è la possibilità di un Brexit britannico e ci sono state le tentazioni di Cameron di non opporsi poi troppo a questo esito, subito “avvisato” tramite la famosa “inchiesta” panamense che lo ha sfiorato in merito ai paradisi fiscali, Poi c’è stato lo strappo della Merkel sul nord stream russo, prontamente punito con lo scandalo Volkswagen, creato sulla base di un test artigianale pubblicato già un anno prima dei clamori sulle emissioni e subito dopo si è evidenziato il declino della cancelliera sul problema dei migranti che gli stessi Usa hanno caoticamente creato tanto che ormai essa è diventata volente o nolente Ttip addict, nonostante le gigantesche manifestazioni contro il trattato. Più recentemente c’è stato il referendum olandese con il no all’Ucraina di cui a Bruxelles si dono fatti beffe, ma che son o un campanello da allarme rosso. E dunque Obama si è precipitato a riannodare le fila. Purtroppo per lui il carattere principale del Ttip. quello cioè di concedere alle multinazionali una funzione legislativa di fatto e attraverso questa una capacità effettiva di dominio extra democratico, è venuta fuori sempre più chiaramente, nonostante le litanie degli esperti, i salmi degli oligarchi i responsori dei media volti a farne solo uno strumento di razionalizzazione e crescita commerciale.
Una sordida presa in giro che persino i chierici del liberismo non hanno potuto sostenere fino in fondo: alla fine del 2013 Cameron aveva affidato al London School of economics – fino a trent’anni fa una scuola per le classi dirigenti del cosiddetto mondo libero, oggi divenuto lucroso masterificio per ingenui e furbacchioni, comunque una porta santa distaccata della scuola di Chicago – uno studio per far scoprire ai sudditi di sua maestà tutti i vantaggi del Ttip. Purtroppo però ne uscito un durissimo atto di accusa nel quale il Trattato transatlantico viene definito privo di vantaggi per il Regno unito, ma pieno di rischi, ovvero “lots of risks and no benefit”. con tanto di esempi inquietanti che vanno dall’Argentina, al Canada, all’Australia (il testo integrale è qui) . Accidenti mica Cameron poteva darlo in pasto al pubblico, sarebbe stato esplosivo, così lo ha secretato e solo dopo la causa intentata da una organizzazione di cittadinanza attiva il Global Justice Now è stato costretto a renderlo pubblico. Un disastro per Cameron come se non fosse bastato l’antipatia che il fare impositivo di Obama ha suscitato a Londra:è venuto spontaneo vedere come opzione europea e Ttip, siano ormai strettamente collegati. Come siano in realtà un solo e unico pacchetto.
Certo l’idea di Europa come ancora vive nella testa di molte persone è l’esatto opposto di tutto questo, ma con un gioco di prestigio informativo essa è utilizzata per esaltare e far passare il suo contrario. Non serve nemmeno il bastone, basta coltivare in serra le illusioni di chi ad esempio, considera un eventuale Brexit come un dramma e non si rende conto che non ci sarà nessuna Europa con questa Europa.

giovedì 28 aprile 2016

La ‘ndragheta sbarca in Veneto

Le voci giravano ormai da qualche anno ma ieri è arrivata la legittimazione della verità giudiziaria a supportarle. La mafia calabrese è presente anche in Veneto. Forte, ramificata ed incredibilmente efficiente. Sono state inflitte condanne per un totale di 24 anni di reclusione a tre calabresi stabilmente trapiantati a Verona. Le sentenze arrivano nel contesto del più vasto processo Aemilia portato avanti dalla Corte di Assise di Bologna. Le indagini del Dipartimento Investigativo Antimafia hanno appurato che vi era un intricato sistema di riciclaggio fondato sulla collaborazione, più o meno spontanea, di numerose aziende Veronesi. Alcune di esse erano anche state abbastanza recentemente cancellate dai registri della Camera di Commercio, probabilmente al fine di eludere i controlli. Il giro di riciclaggio vedeva le aziende coinvolte utilizzate come “recipienti” per gli enormi flussi di liquidità, proventi di numerose attività illecite portate avanti dai clan.
Il fatto che la mafia fosse arrivata al nord non è ormai più una novità per nessuno. Già ai tempi dei soggiorni obbligati di boss del calibro di Pippo Calò si era creato un efficiente meccanismo che vedeva le ricche ed efficienti imprese del nord quali collaboratrici indirette delle cosche mafiose, dedite al riciclaggio e, talvolta al diretto controllo dei boss. Una risorsa indispensabile per potersi inserire con un aura di rispettabilità nel cosiddetto “giro” degli appalti, un termine quanto mai icastico dal momento che ad aggiudicarseli sono sempre gli stessi. Alcuni mesi fa è stato portato alla luce dalla Procura di Milano una vasta rete di riciclaggio avente per proprio epicentro la Lombardia. L’indagine vide coinvolti anche alcuni professionisti “insospettabili” dediti a facilitare la posta in essere di queste attività.
Ciò che emerge dal processo di Bologna tuttavia è sintomo di unno sviluppo purtroppo conosciuto, prevedibile ma comunque estremamente dannoso. Il silenzio dei riflettori sulla ‘ndrangheta è stato pressoché completo in seguito alle condanne relative alla strage di Duisburg, culmine della pluriennale faida di San Luca che vide contrapporsi i clan Strangio- Nirta ai clan Pelle-Vottari in una carneficina che lasciò sull’asfalto 14 morti delle rispettive famiglie, fra i quali Maria Strangio, moglie di Giovanni Nirta, la donna venne uccisa per sbaglio, il reale obiettivo dei killer era il marito che invece fu in grado di sopravvivere all’agguato. Le indagini della Polizia Criminale Federale tedesca, coordinate con la Squadra Mobile di Reggio Calabria furono in grado di individuare e avvicinarsi a comprendere lo sviluppo e l’incredibile ed intricata ramificazione di quello che lo scrittore Roberto Saviano definì “albero”.
Una quercia enorme e silenziosa che cresce in maniera estremamente lenta, anche quando si avventura fuori dai propri territori natali, l’Aspromonte, la Piana di Gioia Tauro e la Provincia di Reggio Calabria, per arrivare fino alle spiagge di Miami, rimane attaccata alle proprie radici contadine e rurali. Rimarranno negli annali le intercettazioni telefoniche del capobastone calabrese che chiedeva al proprio emissario in Florida di smettere di comprare case a Miami dal momento che la ndrina in questione stava arrivando a controllare quasi un terzo degli immobili della città. “L’Onorata Società” è arrivata a colpire anche in Australia uccidendo il capo della Polizia Federale Colin Winchester nel 1989 e l’attivista Donald Mackay nel 1977. L’Hounored Society è ormai divenuta a tutti gli effetti una multinazionale del malaffare in grado di superare i propri confini ma ricordando sempre le proprie radici. Divenire moderne senza disperdere e scordare la propria natura, il proprio “codice d’onore” e la propria profonda vocazione associativa e familiare.
Nonostante la diffusione nei più lontani angoli del globo e la sua presenza stabile e massiccia in qualunque nevralgico punto di interesse economico- finanziario l’Italia, il suo nord prospero, la legislazione nostrana carente e la Calabria rimangono tuttora la combinazione di fattori ideale per la crescita del“albero”. L’Italia del Nord, soprattutto all’età della crisi economica che porta le medie imprese a ritrovarsi alla disperata ricerca di liquidità offre i presupposti ideali per l’inserimento silenzioso, progressivo e determinato della realtà ndranghetista all’interno del tessuto imprenditoriale. Il crescente malessere che vive la borghesia del nord-est, caratterizzato dalla crisi dei consumi e dall’eccessiva pressione fiscale, la situazione risulta altamente prodromico allo sviluppo di un legame indissolubile con un organizzazione che offre denaro liquido e protezione in cambio di favori e copertura per i capitali apportati dai boss.
Un fenomeno prima di tutto sociologico ed economico che criminale. In un Paese dove la Mafia e l’associazione mafiosa hanno rappresentato per anni un fattore purtroppo troppo spesso “culturale” non ci si può che mostrare preoccupati di fronte alla contaminazione progressiva dell’imprenditorialità settentrionale da parte di forme di malaffare considerate per anni marginali e rilegate alle regioni del sud. Già ai tempi di Felice Maniero ci si cominciò ad accorgere che anche il Veneto, per anni considerato il “Sud del Nord” non era assolutamente impermeabile a fenomeni omertosi tipici di altre realtà, caratterizzate dal persistere del malessere economico. Archiviati gli anni del benessere e del miracolo economico le difficoltà economiche stanno progressivamente trasformando il volto del nord-est facendo emergere uno scenario allarmante caratterizzato l’affermarsi di nuove istanze nazionaliste e indipendentiste. Chiaramente la soluzione a questo problema non può essere esclusivamente giudiziaria e del resto nemmeno una redenzione morale sarà sufficiente a dare sufficiente evidenza alla strada da percorrere per invertire questa pericolosa tendenza. Sarà un deciso intervento di politica sociale. Da sempre auspicato per un sud sempre più ghettizzato nella povertà e la miseria. Ad evitare il sorgere del contesto che porta all’infiltrazione mafiosa. Del resto la mafia ha ormai definitivamente dimostrato di non conoscere confini e barriere, cosa rara visti i tempi che corrono. Molto recente è infatti la notizia del comune emiliano di Brescello, sciolto per infiltrazioni di ‘ndrangheta e commissariato. Come al solito sarà la società civile e un popolo sempre più tartassato a pagare le conseguenze della recrudescenza del fenomeno ‘ndranghetista. La pianta è ormai cresciuta, fa ombra alla penisola. Anche alle pianure del nord-est.

mercoledì 27 aprile 2016

Libia, la guerra dei media italiani

Lunedì 25 aprile, nelle stesse ore in cui si svolgeva ad Hannover il vertice del G5, organizzato da Angela Merkel in un formato che riunisce i leader di Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, i media italiani hanno diffuso la notizia che il primo ministro del governo libico Fayez al Sarraj aveva telefonato al premier italiano Matteo Renzi per chiedere l’aiuto dell’ONU per proteggere i pozzi di petrolio nel paese dallo Stato Islamico.
La notizia non trovava però riscontro su qualsiasi altro organo di stampa internazionale e l’interpretazione della telefonata come di una richiesta libica di intervento militare è stata smentita sia da Palazzo Chigi che dallo Stato Maggiore della Difesa, che ha definito “priva di qualsiasi fondamento" la notizia dell’invio di 900 soldati italiani in Libia.
Se la richiesta c'è stata, almeno in via informale, va inquadrata nel contesto dell’attuale situazione delle forze in campo nel paese libico, dove il principale ostacolo al consolidamento del premier Sarraj è il generale Khalifa Haftar e solo il seconda battuta lo Stato islamico.
Come ormai notO, Mohammad Fayez al-Sarraj, l’uomo che la “comunità internazionale” ha scelto come nuovo capo del “governo nazionale libico”, è giunto a Tripoli il 30 marzo per insediarsi al potere. Il nuovo premier è approdato a Tripoli in gommone e governa chiuso in un bunker nella base navale di Abu Sittah. Un premier in ostaggio, questo è il piano “perfetto” studiato e supportato da mesi di preparazione logistica dalla “comunità internazionale”.
Serraj, un uomo d'affari con poca esperienza politica, sta cercando di consolidare il proprio potere nella capitale libica e ha ricevuto promesse di sostegno da diverse milizie (importante quelladi Misurata), di buona parte della Fratellanza Musulmana, di Abdelhakim Beljadj, di diversi consigli comunali e di Ibrahim al-Jathran, leader della Petroleum Facilities Guard (PFG), nonché del supporto internazionale di Italia e Stati Uniti.
Il primo ministro al momento controlla le uniche istituzioni funzionanti dello Stato: l'azienda petrolifera nazionale, il fondo sovrano della Libia e la banca centrale.
La situazione, però, non è affatto risolta, anche nella parte occidentale del paese. C'è confusione sul se le autorità di Tripoli del governo di salvezza nazionale di Khalifa al Ghwell abbiano effettivamente ceduto i poteri al governo di unità nazionale.
A Tobruk, nell’est del paese, è invece ancora operativo il parlamento eletto nel 2014: la Camera dei Rappresentanti che da febbraio dovrebbe votare la fiducia al governo Serraj, ma che non ha mai raggiunto il quorum richiesto per votare la fiducia, prevista dall'accordo firmato a dicembre dai rappresentanti dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk con la mediazione dell'Onu.
A tenere in ostaggio il parlamento di Tobruk è il nostro ex-alleato, prima della vicenda Regeni, il generale Khalifa Haftar, che con le sue milizie controlla gran parte dell’est del paese - a Bengasi la milizia del Generale Haftar ha riconquistato quasi l'intera città - ed è ostile al nuovo governo.
Haftar è appoggiato da Egitto, che attraverso il Generale mira ad espandere la sua influenza sulla Cirenaica, dalla Francia, che rifornisce di armi il regime del presidente egiziano al-Sisi, dal Regno Unito e dagli Emirati Arabi Uniti, che recentemente, in palese violazione dell'embargo sulle armi alla Libia, hanno rifornito di armi e mezzi le forze di Haftar. Che sia questo rafforzamento militare di Haftar ad aver indotto il premier Sarraj a rivolgersi alla comunità internazionale per proteggere i pozzi petroliferi, non dall’IS, ma dal Generale stesso che ha annunciato un’offensiva su Sirte e quindi sui pozzi della Mezzaluna di Sirte?

martedì 26 aprile 2016

Attacco alla Costituzione, una lunga storia

La "deforma" della Costituzione di Matteo Renzi e dei suoi complici altolocati corona il sogno della peggiore destra democristiana della nostra storia. Twittare Avanti e marciare all'indietro, questo è il passo del renzismo. Il manifesto, 24 aprile 2016
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).
Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo.
Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati».
L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.
La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.
Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere della sera pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.
Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.
La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ’45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta

lunedì 25 aprile 2016

Lo schavismo dell'immaginario e la colonizzazione delle coscienze

Ci si chiede infatti cosa possa essere successo di così efficace da decerebrare le coscienze degli italiani, che pure hanno reagito in tanti momenti della storia (siamo in prossimità del 25 aprile, retroscena capitalistici americani esclusi). Che cosa impedisce oggi agli italiani di organizzarsi in movimenti extrasistemici ? Che cosa impedisce agli strumenti della controinformazione di resistere al buco nero che la sta fatalmente attraendo ? Ma soprattutto perché non riusciamo a tener vivo un pensiero critico determinante per il cambiamento ? Credo che l'analisi debba essere necessariamente complessa e toccare molti punti nevralgici del sistema geopolitico attuale, sia sul piano sociale, politico, finanziario, economico, culturale ...
La colonizzazione è una storia atroce di prepotenze e di atti di forza, di guerre, di tentativi di subordinazione di altri Paesi. Ma in che cosa consiste la colonozzazione del pensiero critico? Il colonizzatore non ambisce solo ad appropriarsi delle risorse del territorio, vuole anche cambiare il modo di pensare delle popolazioni, vuole cambiare l'immaginario collettivo. Naturalmente per arrivare al proprio scopo deve attrarre la condiscendenza, deve scongiurare una possibile resistenza, e provocare l’accettazione di un fatale destino. Lo schavismo moderno, a differenza di quello storico, viene indotto nella consueta pratica di vita, dopo aver sedotto lo schiavo con una promessa di riscatto mai soddisfatta.
Da diversi anni ormai il sistema capitalistico si è finanziarizzato, anche grazie all'uso delle nuove tecnologie digitali, giungendo così alla sua attuale versione di finanzcapitalismo, in cui la produzione di denaro dal denaro stesso, non ha più bisogno dell'intelligenza dell'uomo, della sua autonomia di giudizio, della sua libertà di pensiero … ma ha bisogno invece di numerosi schiavi consumatori e spettatori, che siano disposti ad orgasmare per l'acquisto di uno smartphone, restando assolutamente indifferenti all'esproprio da parte del capitale privato del welfare pubblico, alla distruzione dell'ecosistema da parte dei potentati del petrolio e allo sfruttamento del lavoro, sottopagato e precario, da parte delle lobby di potere.
Quindi le nuove tecnologie rappresentano uno strumento potentissimo nelle mani del potere costituito, capace di sedurre gli schiavi consumatori, senza bisogno di guerre, e di indurli ad una sorta di appagamento apparente, che sana le loro possibile ansie di rivolta, addomestica le loro coscienze e riproduce in versione postmoderna, apparentemente priva di violenza, una nuova colonizzazione dell'immaginario e delle coscienze. E dunque siamo indotti a usare l'ultimo iphone, comeuno strumento attraente, divertente ed utile per tantissime operazioni.
Google, per esempio, e Facebook sono due imprese che forniscono delle piattaforme utilizzate ormai a livello globale, e allo stesso tempo straordinariamente anomale, proprio perché pur essendo gratuite, fanno i più alti fatturati del mondo. Come fa Facebook a fare il suo altissimo fatturato con appena 25.000 lavoratori? Come fa Google, che ne ha 50.000 ma nell’intero gruppo, quindi circa 200 aziende?
Il popolo degli utilizzatori è molto vasto, e all’interno di Google si producono miliardi di documenti. I miliardi di dati catturati quindi dal motore di ricerca sono preziosi … perché possono rappresentare i desideri e le necessità delle persone di questo pianeta, quindi il sistema può estrarre, tutti i dati di coloro che chiedono per esempio farmaci, o musica, o vestiti o libri, per mezzo di un semplice algoritmo, è capace di estrarre dei dati, che vanno a formare dei profili della tendenza di consumo: gusti musicali, sessuali, della moda ecc. A questo punto Google può andare da chi produce farmaci, musica, vestiti, libri, qualsiasi cosa… e venderglieli.
Quindi noi offriamo gratuitamente la nostra domanda/ricerca a Google, ma in realtà le attribuiamo un potere enorme, quello di disporre del nostro profilo e di poter mercificare i nostri desidei e le nostre ansie. Lo schiavismo appunto dell'immaginario e la colonozzazione delle coscienze.
C’è un problema però, per la prima volta siamo di fronte ad un’oligarchia globalizzata, cioè non è italiana, tedesca, francese … ma è americana, ed è anche un po’ araba e cinese , comunque è un’oligarchia che ragiona in termini di mondo. Ad Amazon non interessa molto vendere i suoi prodotti in Spagna piuttosto che in Grecia, interessa vendere in tutte le parti del globo, difendere un sistema dentro il quale le persone diventano insieme utilizzatori dei servizi e riproduttori del sistema stesso … è il principio delle manette americane di nuova invenzione, se muovi i polsi, le manette si stringono di più.

domenica 24 aprile 2016

Obama non mantiene la sua promessa elettorale di riconoscere il genocidio armeno

Il presidente degli Stati Uniti ha perso la sua occasione per riconoscere il genocidio armeno prima del termine del suo mandato.
Nel suo ultimo anno in carica, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è tornato a mancare la sua promessa elettorale di riconoscere il genocidio degli armeni da parte dei turchi nel 1915. Nella sua dichiarazione in occasione della Giornata della Memoria armena Obama si è riferito al problema come "la primo atrocità di massa nella storia del ventesimo secolo", ma non lo ha chiamato genocidio.
Oggi, 24 aprile, ricorrono i 101 anni di quella tragedia.
In ognuno dei suoi anni di mandato i leader della diaspora armena negli Stati Uniti hanno chiesto invano ad Obama di riconoscere il genocidio, qualcosa che ha promesso di fare quando era candidato alla presidenza nel 2008, riferisce AP. La pressione della Turchia, un alleato di Washington in Medio Oriente, che si oppone al riconoscimento di tale crimine come il genocidio, è la chiave per definire la posizione di Washington, ha ricorda l'agenzia.
"È un veto da parte del governo turco sulla politica degli Stati Uniti circa il genocidio degli armeni", ha riferito il quotidiano Aram Hamparian diretto Comitato Nazionale armeno negli Stati Uniti.
La riluttanza di Washington a disturbare la Turchia ha ulteriormente accentuato dalla guerra scatenata dallo Stato islamico in Medio Oriente, che ha provocato la crisi dei rifugiati.
Secondo varie stime, 1,5 milioni di armeni hanno perso la vita a causa degli attacchi ottomani, tra cui la deportazione forzata e lo sterminio, innescando una migrazione di massa. Si tratta di una parte della storia dolorosa per gli armeni come l'Olocausto per gli ebrei.
Questa settimana il quotidiano The Wall Street Journal ha scatenato una feroce polemica e un'ondata di critiche durante la pubblicazione di una pubblicità a pagamento che rifiuta il genocidio e invita a "fermare le accuse". Nella pubblicità, che occupa un'intera pagina appaiono tre pugni: uno al centro, a forma di croce con il segno di 'V' di 'vittoria', con i colori della bandiera turca dita. Su entrambi i lati, due pugni con i colori nazionali della Russia e l'Armenia rappresentano la menzogna.

sabato 23 aprile 2016

TELEGRAPH: L’EURO-DEPRESSIONE È UNA SCELTA “INTENZIONALE”

Il profondo malessere economico dell’Europa è il risultato di scelte politiche “deliberate” fatte dalle élite europee, secondo l’ex governatore della Banca d’Inghilterra.
Lord Mervyn King ha continuato il suo caustico attacco all’Unione economica e monetaria dell’Europa, dopo aver predetto che l’eurozona afflitta dai problemi dovrà essere smantellata per liberare i suoi membri più deboli da austerità incessante e livelli record di disoccupazione.
Parlando in occasione del lancio del suo nuovo libro, Lord King ha detto che non avrebbe mai potuto immaginare che un collasso economico dell’intensità degli anni ’30 sarebbe ritornato sui lidi europei in età moderna.
Ma il destino della Grecia – che ha subito una contrazione che eclissa la depressione degli Stati Uniti negli anni tra le due guerre – dal 2009 è stato un esempio “spaventoso” del fallimento della politica economica, ha detto al pubblico presso la London School of Economics.
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Confronto delle recessioni (PIL reale, indice anno della crisi =100) – in blu gli Stati Uniti della grande depressione, in rosso la Grecia dal 2008. Il confronto è su una scala di 10 anni dall’inizio della crisi.
“Nell’area dell’euro, i paesi della periferia non possono fare assolutamente nulla per compensare l’austerità. E’ stato semplicemente chiesto loro di tagliare la spesa totale, senza alcuna forma di compensazione per la domanda. Credo che sia un problema serio.
“Non avrei mai immaginato che avremmo di nuovo avuto una depressione più profonda di quella che gli Stati Uniti hanno sperimentato negli anni ’30 in un paese industrializzato e questo è quello che è successo in Grecia.
“E ‘spaventoso ed è successo quasi come fosse un atto deliberato di politica, cosa che lo rende ancora peggiore”.
Lord King – che ha trascorso un decennio nella Banca d’Inghilterra a combattere la peggiore crisi finanziaria della storia – ha detto che i membri più deboli della zona euro non hanno altra scelta che tornare alle loro monete nazionali come “l’unico modo per tracciare un percorso di ritorno alla crescita economica e alla piena occupazione”.
“I benefici a lungo termine contano più dei costi a breve termine”, scrive in The End of Alchemy [“La fine dell’Alchimia”, il suo ultimo libro, NdVdE].
L’ex governatore della banca ha detto che è probabile che la disillusione popolare sulle politiche economiche dell’UE porti alla disintegrazione della moneta unica, piuttosto che ad un altro passo per “completare” l’unione monetaria.
Due delle nazioni debitrici della zona euro – Irlanda e Spagna – sono attualmente bloccate in una fase di stallo elettorale dopo che i loro governi pro-salvataggi non sono riusciti ad ottenere l’appoggio degli elettori.
Ma la Commissione Europea si è difesa dalle accuse secondo le quali le punitive misure di austerità hanno reso ineleggibili i governi europei in carica, sostenendo che la politica economica di Bruxelles rappresenta un “triangolo virtuoso” di austerità, riforme strutturali e investimenti.
Al di fuori della zona euro, Lord King ha messo in guardia contro l’eccessivo pessimismo sulle prospettive a lungo termine per l’economia mondiale, respingendo la tesi della “stagnazione secolare” resa popolare negli ultimi anni da economisti del calibro del segretario al Tesoro degli USA Larry Summers.
Ha detto che era un “grave errore” credere che la produttività – che è rimasta piatta in tutto il mondo sviluppato dall’inizio della crisi – non tornerà a crescere perché lo sviluppo tecnologico si è esaurito.
Invece, l’attuale ondata di nuove ricerche e di innovazione significa che il 21 ° secolo sarà il “secolo d’oro della scoperta scientifica”.
“Non vedo assolutamente alcuna ragione per supporre che poiché abbiamo avuto una crisi bancaria e una recessione [le idee, l’innovazione e l’imprenditorialità] sono definitivamente scomparse. Non lo sono e sono in attesa di riprendersi.
“Il pensiero che tutte queste idee non riusciranno ad avere influssi pratici nel migliorare i nostri standard di vita sembra straordinariamente pessimista, qualcosa che non ha di fatto alcun fondamento nel corso degli ultimi 250 anni di crescita economica.”
Il libro di Lord King delinea una critica degli squilibri endemici che hanno afflitto l’economia globale negli ultimi decenni. Il fallimento nell’affrontare le disparità tra alti tassi di risparmio e alti tassi di spesa in parti diverse del mondo potrebbe portare i decisori politici a camminare come sonnambuli verso un’altra crisi, ha avvertito.
Nel frattempo, le politiche delle banche centrali tese ad aumentare i livelli di domanda e ad incoraggiare la spesa sono state risposte necessarie ma non sufficienti al malessere della crescita del mondo, “guadagnando soltanto tempo” per i decisori politici.
“Dobbiamo usare questo tempo per muovere le economie dal loro attuale disequilibrio in un nuovo equilibrio in cui vi è un giusto bilanciamento tra spesa e risparmio, esportazioni e consumo”, ha detto.
“Solo allora potremo raggiungere una rapida crescita, e l’inflazione stabile. Questo è il premio. Credo che ce la possiamo fare.”

venerdì 22 aprile 2016

Pensioni, l'allarme dell'Inps fotografa la realtà della "Generazione 80"

Il presidente dell’Inps Tito Boeri ha detto che la “generazione 1980″ rischia di dover lavorare fino a 75 anni e prendere un assegno del 25% più basso rispetto ai pensionati di oggi. Questo perché, dalle analisi dell’istituto sulla storia contributiva di un universo di lavoratori dipendenti ma anche artigiani nati in quell’anno, è emerso che ognuno di loro in media ha una discontinuità contributiva, legata probabilmente a episodi di disoccupazione, di circa due anni.
La questione sollevata da Tito Boeri non ha nulla di sorprendente: le parole del presidente dell’Inps hanno messo solo una lente di ingrandimento sulla questione pensioni, quantificando il reddito e l’età pensionabile della generazione ’80. Tuttavia questo tipo di calcolo è sotto gli occhi di tutti, o meglio di chi oggi ha mediamente 35 anni. Quella generazione che tutto sommato ha potuto accedere al mondo del lavoro con un contratto a tempo indeterminato, quello che se anche ti sparavi 10 ore di lavoro, avevi ancora delle tutele legate ad un contratto nazionale. Gli anni ‘80 sono poi diventati i ‘90, 2000, 2010 ecc. ecc. La precarizzazione del mondo del lavoro e il fattore delega sindacato-politica ha fatto il resto, fino ad arrivare al Jobs Act di oggi, quello che ha introdotto il contratto a tempo “indeterminato” a tutele crescenti, voucher e contratti precari che hanno solo modernizzato il proprio norme salvo garantire la forma.
Boeri non dice una novità quando sostiene che si andrà in pensione a 75 anni e con un reddito da meno di 750 euro. Quest’ipotesi riguarderebbe chi ha versato i contributi in maniera discontinua, una realtà per milioni di lavoratori e lavoratrici, destino della generazione ’80, ’90 e cosi via.
Con l’uso strumentale della questione dell’innalzamento della vita media (tralasciando le svariate possibilità per cui quest’aumento dell’aspettativa di vita possa molto spesso precipitare rovinosamente, dato che l’impoverimento dell’individuo che arriva a tagliare la propria spesa sulle cure sanitarie è una variabile considerevole) il futuro delle generazioni che sono nate dagli anni ’80 in poi pare essere già scritto.
Il condizionale è sempre d’obbligo, perché non sarà il presidente dell’Inps a innescare quello che la segretaria nazionale della CGIL Camusso teme, dichiarando che “le frasi dell’economista rischiano di passare come un messaggio pericoloso disfiduciaai giovani, con molti che reagiscono dicendo allora non pago più i contributi, proporre in questo modo la previsione di pensione a 75 anni è irragionevole”.
Il problema non sarà una parte della società che farebbe, non a torto, discorsi di questo tipo, né che un economista dica come stanno realmente le cose, bensì chi come la Camusso sostiene che“È proprio per evitare questa situazione di sfiducia che abbiamo aperto la vertenza sulle pensioni . Questo è un sistema ingiusto che scarica la disoccupazione sulle spalle dei singoli e si basa solo sull’aspettativa di vita. Vedere ogni singolo aspetto come un costo impedisce una riforma complessiva del sistema che preveda investimenti che non sono costi: bisogna ricostruire il sistema per i giovani bisogna superare la differenza tra tutelati e non”.
Il problema sono proprio le vertenze aperte dai vari sindacati confederali, CGIL in primis, che attraverso tavoli concertativi hanno molto spesso illuso, ieri come oggi, milioni di lavoratori e lavoratrici. La sfiducia nel sistema pensionistico è da tempo nella testa della generazione ’80, imputare al presidente dell’Inps di turno l’aumento di questo dato è pura demagogia. A chiedere dov’era la CGIL venti o dieci anni fa, quando le riforme Amato, Dini e quella lacrime e sangue della Fornero, davano il senso sul dove saremmo arrivati non risolve la questione anche se sarebbe bello ricordarglielo. L’introduzione dei fondi pensioni integrative, tanto osannati dai sindacati (fondo: cometa, prevedi, ecc. ecc.), non erano altro che il cavallo di Troia di una situazione improntata su un cantiere sempre aperto con un minimo comune denominatore: tagliare la spesa pensionistica. Processo che ha avuto il suo culmine proprio dal 1 gennaio del 2015, quando è entrata in vigore la norma per cui l’età pensionabile è legata all’aumento della speranza di vita. Dati alla mano emerge che nel 2050 l’Italia avrà un “record” europeo di uscita dal lavoro: 69 anni e 9 mesi.
In conclusione non saranno certo gli annunci o le vertenze a dare fiducia o sfiducia alla generazione ’80, ma la consapevolezza , già presente in alcune realtà, della fine della delega.

giovedì 21 aprile 2016

Pensioni e sostenibilità, che fine ha fatto l’equità intergenerazionale?

A margine dell’audizione parlamentare davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è tornato ad aprire uno spiraglio per una ritocco al moloch delle pensioni italiane: un capitolo fondamentale di un welfare state sempre più sfilacciato, ma anche fonte di grandi squilibri nell’impegno di risorse pubbliche.
Le pensioni rappresentano oggi la prima voce di spesa pubblica (circa un terzo) nel nostro Paese, il 14% del Pil, nonostante la riforma Fornero sia stata varata nel 2011 con la promessa di tagliare gli emolumenti di 80 miliardi di euro in 8 anni. Il prezzo più alto però lo pagano come di prassi le categorie più svantaggiate, che in questo caso spesso coincidono con le fasce d’età più giovani, come già 5 anni fa – appena prima che la riforma Fornero diventasse legge – sottolineava sulle nostre pagine il sociologo De Masi. «Dato il livello di disoccupazione giovanile – è tornato ieri a spiegare il presidente dell’Inps, Tito Boeri – rischiamo di avere intere generazioni perdute, invece abbiamo bisogno di quel capitale umano», a sua volta formatosi nella scuola pubblica (con risorse pubbliche). Boeri avvisa: chi è nato nel 1980 rischia concretamente di andare in pensione a 75 anni a causa dei ritardi cumulatisi in anni di disoccupazione.
Non è questo che un cittadino, di qualsiasi età, dovrebbe attendersi. La legge individua oggi in 66 anni e 7 mesi il target per raggiungere la pensione di vecchiaia, e in 42 anni e 10 mesi di contributi quello per la pensione anticipata; termini che a partire dal 2019 verranno rivalutati ogni due anni in base alla speranza di vita (che in Italia l’anno scorso ha invertito la rotta, calando) fino ad arrivare – si stima – a 70 anni (o 46 anni e 3 mesi di contributi) nel 2049: limiti d’età già assai gravosi, per un giovane in realtà rappresentano una chimera.
Introdurre una qualche forma di flessibilità in uscita dal sistema pensionistico come concepito dalla riforma Fornero darebbe respiro sia ai lavoratori anziani e desiderosi di rimodulare il loro impegno lavorativo, sia alle sempre più ampie file di giovani che non riescono a trovare occupazione. L’impegno per le casse pubbliche, stimano dal ministero, oscilla tra i 5 e i 7 miliardi di euro: un placebo per il quale comunque è risulta oggi difficile individuare risorse. Il presidente dell’Inps ha già suggerito in passato interventi che passino dal taglio delle pensioni d’oro già oggi erogate, col senno di poi troppo generose, ma il governo si è finora rifiutato di toccare i “diritti acquisiti” e niente dà a pensare che possa cambiare a breve idea. Nel mentre la disoccupazione giovanile si incancrenisce, smontando le prospettive di vita dei 25-34enni, ferendo in particolare la componente femminile (solo il 51% delle donne in questa fascia d’età ha un lavoro, in Italia) e dunque mortificando incidentalmente la crescita demografica: in futuro, ci saranno sempre meno lavoratori attivi che possano contribuire a finanziare le pensioni dei 30enni di oggi, in una spirale depressiva apparentemente senza fine.
«Ignorare la demografia – spiega il demografo Alessandro Rosina, curatore del Rapporto giovani (aggiornato pochi giorni fa) – è stato uno degli errori fatali del nostro percorso di sviluppo negli ultimi decenni. Lo scenario futuro è quello di una popolazione autoctona che diminuisce e invecchia: vedremo impoverire soprattutto la parte più giovane e quella delle età adulte al centro della vita riproduttiva e lavorativa del paese. Per non condannarci anche al declino economico e all’insostenibilità dello stato sociale, è uno scenario che chiede come risposta politiche lungimiranti sui meccanismi di rinnovo demografico, favorendo di più la scelta di avere figli e gestendo meglio l’immigrazione. La crisi, insomma, ha colpito duramente, ma nulla in confronto al futuro che ci aspetta se non impariamo a prendere la demografia seriamente».
Ancor prima che un paletto fondamentale dello stato sociale, l’equità intergenerazionale è un motore fondamentale della sostenibilità, così come definito dalla Commissione Brundtland su ambiente e sviluppo proprio negli anni ’80: lo sviluppo sostenibile è tale se soddisfa «i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro». Inutile ricordare che tutto questo, nell’Italia di oggi, non sta accadendo. Nel medio-lungo periodo le risposte non possono che essere legate a politiche di sviluppo – sostenibile, per definizione replicabile nel tempo – che tengano conto delle dinamiche sociali e demografiche in atto, di quelle ambientali come di quelle economiche.
Nel breve periodo però la risposta non può che essere una: ridistribuire. Durante questi anni di crisi gli indici di disuguaglianza economica sono schizzati verso l’alto nel Paese, con l’1% più ricco degli italiani che detiene 39 volte la ricchezza del 20% più povero. Indagini precedenti sottolineano come la ricchezza mobiliare privata ammonti in Italia a 4mila miliardi di euro, il 200% del debito pubblico, e la metà di essa è in mano a soli 2 milioni di famiglie italiane. I soldi ci sono, manca il coraggio politico.

mercoledì 20 aprile 2016

Obama verso il veto sulla legge che potrebbe indicare il coinvolgimento saudita negli attacchi dell'11 settembre

Il presidente statunitense Barack Obama con ogni probabilità metterà il veto alla legge che permetterebbe alle famiglie delle vittime dell'11 settembre di fare causa ai sauditi per il loro presunto sostegno ad associazioni benefiche ed altri gruppi che avrebbero finanziato al-Qaeda e permesso gli attentati dell'11 settembre. A dichiararlo è stato il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, alla vigilia del viaggio di Obama in Arabia Saudita.
La legge, secondo Earnest, metterebbe "a rischio la stessa nozione di immunità governativa: questo potrebbe mettere gli Stati Uniti, i nostri militari e personale diplomatico a grave rischio se anche altri Paesi dovessero adottare misure del genere. Considerate la lunga lista di preoccupazioni che ho esposto è difficile immaginare uno scenario in cui il presidente firmi una legge in questi termini".
La scorsa settimana, come riportato da Sputniknews, "il New York Times ha fatto sapere che le autorità dell’Arabia Saudita hanno minacciato l’amministrazione Obama di vendere i loro beni negli Stati Uniti se il Congresso approverà il progetto, che permette di querelare il governo saudita per il coinvolgimento negli attacchi dell'11 settembre.
Il ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita, Adel al-Dzhubeyr, secondo il New York Times, ha lanciato l'avvertimento durante la sua visita a Washington nello scorso marzo, sottolineando che l'Arabia Saudita sarebbe costretta a vendere i titoli e gli altri beni, per un valore che si aggira intorno ai 750 miliardi di dollari, in caso di un possibile congelamento da parte dei tribunali americani.
Secondo il quotidiano, l'amministrazione Obama ha avuto colloqui con i membri del Congresso e ha cercato di convincerli della necessità di respingere il disegno di legge, in quanto minaccia il paese di conseguenze diplomatiche ed economiche.
In precedenza l'ex senatore Bob Graham, che partecipa all'inchiesta sulla tragedia, ha detto che Obama entro sessanta giorni prenderà una decisione circa la pubblicazione dei documenti segreti che riguardano le indagini sugli attentati dell'11 settembre 2001 a New York.
Secondo le affermazioni del canale televisivo, 28 pagine del materiale investigativo in questione potrebbero indicare il coinvolgimento dell'Arabia Saudita negli attacchi.

martedì 19 aprile 2016

Usurpazione del potere politico”: prima denuncia contro il Ddl Boschi

Da un lato c’è un disegno di legge che stravolge del tutto la Costituzione italiana, dall’altro un Parlamento composto da soggetti votati per via di una legge elettorale- il “Porcellum”- già dichiarata incostituzionale con sentenza n.1/2014 e quindi non dotati di una piena legittimazione democratica. E’ questo, in poche parole, il contenuto della prima denuncia presentata in Italia contro il disegno di legge Boschi già passato alla Camera in quarta lettura con 361 sì e 7 ma non ancora definitivo perché subordinato all’approvazione di un Referendum abrogativo il prossimo ottobre. La denuncia è stata presentata negli scorsi giorni dall’Avvocato Marco Mori, già autore del libro “Il tramonto della democrazia – analisi giuridica della genesi di una dittatura europea”, il quale non ha mancato di evidenziare il nesso illegittimità Parlamento/Riforma Costituzionale attraverso la stessa posizione già espressa dalla Cassazione in merito alla legge elettorale con la quale si è potuto costruire lo stesso assetto dell’attuale Parlamento.
“E in effetti, la dedotta lesione v’è stata per il periodo di vigenza delle disposizioni incostituzionali, poiché i cittadini elettori non hanno potuto esercitare il diritto di voto, personale, eguale, libero e diretto, secondo il paradigma costituzionale, per la oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica, a causa del meccanismo di traduzione dei voti in seggi, intrinsecamente alterato dal premio di maggioranza disegnato dal legislatore del 2005, e a causa della impossibilità per i cittadini elettori di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento” (Cassazione).
Dopo la declaratoria di incostituzionalità della stessa legge elettorale con la quale ha avuto vita l’ancora attuale Parlamento italiano, sarebbe quanto meno necessario porsi alcune domande: può il Parlamento, così composto, legiferare, nominare un Presidente della Repubblica o addirittura modificare la Costituzione? Se sì, che fine fanno quei principi di sovranità popolare a rappresentatività democratica, quali unici principi legittimanti la potestà normativa dell’organo legislativo in Italia? Se dopo la dichiarazione di incostituzionalità di una legge questa finisce per perdere efficacia nell’ordinamento italiano ai sensi della stessa Costituzione (art. 136), perché la stessa dichiarazione di incostituzionalità di una legge elettorale, non ha poi portato allo scioglimento delle stesse camere elette per mezzo di quella stessa legge illegittimamente emanata?
E’ quello che si chiede, nella stessa denuncia contro il Ddl Boschi, il promotore Avv. Marco Mori: “La perdita di efficacia è qualcosa di ben più profondo di una semplice abrogazione in quanto presuppone la retroattività degli effetti della pronuncia della Corte. Di palmare evidenza che, se un Parlamento illegittimo nella sua composizione continua tranquillamente a legiferare, gli effetti della norma dichiarata incostituzionale permangono vivi più che mai nell’ordinamento- continua Mori- In verità più il Parlamento legifera e più gli effetti della legge dichiarata incostituzionale si diffondono e si moltiplicano. Se poi il Parlamento da il via ad un ampia revisione Costituzionale, volta peraltro a cancellare la sovranità e l’indipendenza del Paese, siamo davvero di fronte ad un atto sostanzialmente eversivo che la Corte non ha saputo fermare sul nascere, malgrado ne avesse l’evidente obbligo”.
La denuncia dunque ha chiaramente lo scopo di invitare al Corte Costituzionale ad esprimersi prendendo finalmente una chiara posizione, non solo su una riforma Costituzionale che di per sé- condivisibile o meno- è stata formulata secondo l’iter stabilito, ma sulla legittimità di un Parlamento che ‘a monte’ sembrerebbe aver proseguito le sue attività violando i principi di rappresentatività e democraticità. Ecco perché la denuncia contro il Ddl Boschi fa dell’Usurpazione del Potere di cui all’art. 287 c.p il suo perno centrale: “Chiunque usurpa un potere politico, ovvero persiste nell’esercitarlo indebitamente, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”.
Cosa prevede la Riforma Costituzionale più grande della storia italiana?
Ecco una breve sintesi delle più importanti novità: Stop al bicameralismo perfetto con una unica Camera composta da 630 deputati eletti a suffragio universale ed un Senato composto da 95 membri eletti dai Consigli Regionali e 5 membri nominati dal Capo dello Stato, il quale avrà competenza legislativa solo su riforme e leggi costituzionali; un diverso metodo di elezione dei senatori, scelti così dai cittadini durante l’elezione dei Consigli Regionali; un diverso metodo di elezione del Presidente della Repubblica che necessita dei due terzi dei componenti di Camera e Senato per i primi quattro scrutini, dei tre quinti dal quinto in poi e la maggioranza assoluta dal nono; nuova seconda carica dello Stato rinvenibile non più nel Presidente del Senato ma nel Presidente della Camera; Limiti sostanziali sui decreti legge; modifica della parte V della Costituzione sui rapporti Stato-Regioni; abolizione delle Provincie e del Cnel; introduzione Referendum propositivi e modifica del Referendum tradizionale; modifica del ddl di iniziativa popolare.

domenica 17 aprile 2016

Guerre dimenticate: gli Stati non riconosciuti

L’apertura a Roma della rappresentanza dell’Ossezia del Sud, repubblica caucasica proclamatasi indipendente dalla Georgia
nel 2008 ma riconosciuta da un pugno di nazioni, ha provocato nei giorni scorsi un piccolo caso diplomatico: nel ribadire che l’Italia non riconosce la sovranità ossetina, il nostro Ministero degli Esteri è intervenuto sulla questione confermando il pieno sostegno all’integrità territoriale della Georgia, e precisando che alla missione non verrà attribuito alcuno status diplomatico. Forse la Farnesina ha agito troppo d’impulso. Pur nel pieno rispetto dei rapporti bilaterali con Tbilisi, l’Italia avrebbe potuto cogliere l’occasione per farsi portavoce di un problema, la cui soluzione non può più essere procrastinata sine die dalla comunità internazionale: parliamo dei cosiddetti Stati “a riconoscimento limitato”.

Da raro quale era, il fenomeno si è moltiplicato nel corso degli ultimi venticinque anni, divenendo una spina nel fianco di molte nazioni, incluse le grandi potenze. Gli effetti della dissoluzione di Urss e Jugoslavia, entrambi Stati multietnici, non si sono infatti esauriti con la nascita dell’amorfa Comunità degli Stati Indipendenti e con le guerre balcaniche, ma sono continuati anche dopo, con la costituzione di nuove autoproclamate entità statali come l’Ossezia del Sud, ma anche come la Transnistria, il Nagorno Karabakh, il Kosovo e l’Abkhazia: Stati la cui sovranità non è generalmente riconosciuta dalla comunità internazionale, nonostante abbiano una propria struttura amministrativa, un proprio governo e anche una propria diplomazia.

Questi territori hanno tutti un comun denominatore: sono stati teatro di guerra. Alcuni lo sono ancora oggi, come ad esempio il Nagorno Karabakh, altri potranno esserlo domani, come la Transnistria. Ma il discorso che può essere applicato a tutti gli Stati a riconoscimento limitato è che la loro presenza nel contesto geopolitico mondiale rappresenta inequivocabilmente una potenziale fonte di instabilità: questo scenario, per nulla remoto, deve appunto mettere in guardia la comunità internazionale sui rischi per la pace provenienti da attori politici privi di uno status giuridico generalmente riconosciuto, che attribuisca loro diritti e doveri nei confronti degli altri Paesi e dei cittadini stessi. Ciò non vuol dire affatto che il diritto dei popoli all’autodeterminazione deve essere negato. Tutt’altro: il compito che spetta alle organizzazioni internazionali, Onu in primis, è quello di disinnescare questa bomba a tempo colmando il vuoto giuridico che caratterizza situazioni come quelle appena viste, a tutto vantaggio della convivenza pacifica.

Per far questo, le Nazioni Unite dovrebbero rispolverare l’Amministrazione fiduciaria, un vecchio istituto caduto in disuso che consentirebbe agli Stati a riconoscimento limitato di ottenere uno status giuridico a livello internazionale: essi verrebbero guidati da Amministrazioni o Agenzie speciali dell’Onu, oppure da un Paese fiduciario con mandato del Palazzo di Vetro, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà sancite dalle convenzioni e dalle dichiarazioni fondamentali delle Nazioni Unite. Oltre a ciò, il nuovo status potrebbe consentire loro di emettere particolari passaporti per i propri cittadini, ospitare consolati di nazioni estere, appellarsi alle Corti internazionali per la risoluzione di contenziosi e stabilire normali relazioni commerciali con Paesi terzi.

Certo, a molti può giustamente sembrare una sorta di neocolonialismo, un ritorno ai vecchi protettorati o ai mandati della Società delle Nazioni. D’altro canto c’è pure da considerare l’Amministrazione fiduciaria come uno strumento che, se impiegato sulla base esclusiva della Carta delle Nazioni Unite, può contribuire non poco a superare il clima di reciproci sospetti e accuse tra Stati. Dal prossimo gennaio l’Onu avrà un nuovo Segretario Generale: fossi in lui, farei pressione sui membri permanenti del Consiglio di Sicurezza per spingerli ad accettare un esperimento del genere. Campi di sperimentazione ce ne sono. Anche perchè le Nazioni Unite hanno disperatamente bisogno di un successo diplomatico per riappropriarsi del ruolo per cui sono state istituite settantuno anni fa, di cui ormai si è persa memoria.

venerdì 15 aprile 2016

Finalmente il FMI ha trovato la soluzione alla crisi economica: "dovete morire prima"

Il punto è semplice: la longevità delle popolazioni occidentali – ossia il famoso “allungamento delle aspettative di vita” – mette a rischio i bilanci degli stati più sviluppati.
Il Fmi arriva a questa affermazione “di sguincio”, per vie traverse, quando prova a spiegare che “nessun asset può essere considerato veramente sicuro”. Che rapporto c’è tra investimenti finanziari e vecchiaia delle popolazioni? Quello tra affidabilità dei titoli di stato e, appunto, spesa pubblica dedicata agli istituti del welfare (pensioni, sanità, assistenza, istruzione). Silenzio assoluto sulla spesa militare, evidentemente considerata “utile” (“produttiva” sarebbe troppo anche un neoliberista integralista).
Di recente le principali agenzie di rating (tutte statunitensi) hanno deciso un downgrade di titoli fin qui considerati sicuri, “virtualmente privi di rischio”, come i Bund tedeschi o i Treasury americani. Beni rifugio er eccellenza, che sembravano in grado di scalzare – in questo ruolo – persino il tradizionale oro (che infatti si è rivalutato del 20% in pochi mesi).
Si comprende facilmente che questi downgrade hanno seriamente preoccupato gli “investitori professionali” (fondi speculativi, fondi pensione, risparmio gestito, hedge fund, ecc), che stanno dirottando altrove i propri investimenti o sono in procinto di farlo. Con ovvie e serissime conseguenze sulla stabilità degli stessi mercati finanzairi e conseguentemente anche per i bilanci stessi degli stati (quando cala l’affidabilità di un titolo, il prezzo scende; e di conseguenza sale il rendimento, ossia gli interessi che uno Stato deve pagare).
Il Fmi sottolinea inoltre che “l’offerta di asset sicuri è diminuita di pari passo alla capacità del settore pubblico e privato di produrre asset di questo tipo”. E la causa principale è individuata, dagli imperturbabili criminali alla guida del Fmi, nella longevità “eccessiva” delle relative popolazioni. “Se l’aspettativa di vita media crescesse di tre anni più di quanto atteso ora entro il 2050, i costi potrebbero aumentare di un ulteriore 50%.
E quindi i debiti pubblici potrebbero essere in varia misura sottoposti a una dinamica crescente. Il Fmi si preoccupa di non apparire tendenzialmente stragista, e cerca di trovare le parole più tranquillizzanti: che le persone vivono più a lungo è “molto desiderabile”, così come il fatto che lo sviluppo “abbia aumentato il benessere individuale”. Purtroppo, dicono i “tecnici di Christine agarde, questo ha fatto aumentare i costi in termini di piani pensionistici e assistenza sanitaria.
Il rischio è considerato “notevole” sia per quanto riguarda la sostenibilità fiscale (potrebbe fare aumentare il rapporto debito/pil), sia sul fronte della solvibilità di istituti finanziari e fondi pensione.
Queste dinamiche “potrebbero avere un ampio effetto negativo su settori pubblici e privati già indeboliti, rendendoli più vulnerabili ad altri shock e potenzialmente minando la stabilità finanziaria”. Il che, non sia mai detto, potrebbe “complicare gli sforzi fatti in risposta alle attuali difficoltà fiscali”.
Ma il Fondo sta lì per dare soluzioni, non per pettinare le bambole, e quindi “serve una combinazione di aumento dell’età pensionabile di pari passo con l’aumento dell’aspettativa di vita, più alti contributi pensionistici e una riduzione dei benefit da pagare“.
Quello che non è detto esplicitamente dal Fmi è che questa longevità va ridotta (è “desiderabile, ma costosa”) per aiutare gli “investitori professionali” a trovare degli asset più affidabili.
Dovete morire prima, abbiamo da tempo sintetizzato con questo slogan l’insieme di “ricette economiche” provenienti dalla Troika, che non hanno – all’evidenza – nulla a che spartire con la “tecnica” e moltissimo con le politiche.
Sul fatto che la maggiore longevità comporti costi maggiori non ci può essere dubbio. Oltre una certa età un essere umano non ouò e non deve essere obbligato a lavorare, quindi la collettività si deve assumere l’onere del suo mantenimento in vita in condizioni dignitose (nulla di straordinario, è previsto anche dalla Costituzione nata dalla resistenza). La questione non riguarda insomma se la longevità sia un costo o no, ma esclusivamente quale parte della società (quali classi) devono pagare questo costo. Per il Fmi lo devono pagare soltanto i lavoratori dipendenti (“più alti contributi pensionistici“) e i pensionati stessi (“più alti contributi pensionistici“, ossia pensioni ancora più basse). E se neanche questo basta – e non può bastare, se dal pagamento del prezzo vengono esentati gli “investitori professionali” e tutte le classi dirigenti di ogni ordine e grado – allora non resta che tagliare drasticamente tutti gli istituti di welfare che hanno fin qui sostenuto l’allungamento delle aspettative di vita.
L’Italia sta già registrando i “primi successi” su questa strada, come ha certificato l’Istat nel suo rapporto pubblicato il 19 febbraio 2016: per gli uomini è infatti scesa da 80,3 a 80,1 anni, mentre per le done è diminuita da 85 a 84,7 anni.
Naturalmente si può far diminuire le aspettative di vita in molti modi. I nazisti procederebbero molto sbrigativamente con mattanze di massa; il capitalismo novecentesco facendo esplodere guerre mondiali e locali che “sfoltiscono” in modo considerevole la popolazione globale. Purtroppo, per il capitalismo, questa seconda via è diventata molto complicata a causa degli armamenti atomici in mano a una molteplicità incontrollata di stati. Quindi non può essere praticata senza conseguenze “eccessive”, tali da metter fine al capitale stesso. E le guerricciole contro stati di secondo piano (Somali, Libia, Siria, Iraq, Yemen, ecc) non risolvono il “problema” della longevità nelle metrooli del capitalismo maturo.
Dunque? Dunque non resta che tagliare la spesa sanitaria, le pensioni, l’assistenza, ecc. Così i finanzieri globali possono sentirsi più tranquilli sul ritorno dei loro investimenti in Bot…

giovedì 14 aprile 2016

Negli ultimi 5 anni l’Italia ha venduto 4,8 mld di armi in Africa e Medio Oriente

Tra il 2010 e il 2014 l’Italia ha autorizzato esportazioni nell’Africa settentrionale e nel Medio Oriente per 4,8 miliardi di euro di armi. Dopo l’Europa, quest’area geografica è il nostro principale mercato di sbocco per la vendita di armamenti.
Questi dati sono il frutto di un’elaborazione realizzata dall’Ufficio studi della CGIA su dati presenti nelle relazioni annuali al Parlamento redatte dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri sulle esportazioni di armamenti, così come previsto dalla legge n° 185/1990.
Nei 5 anni presi in esame dalla CGIA, le industrie italiane produttrici di armi sono state destinatarie di autorizzazioni definitive alle esportazioni per17,47 miliardi di euro: di questi, 8,58 miliardi sono stati realizzati in Europa (pari al 49,2 per cento del totale), 4,85 miliardi in Africa settentrionale e nel vicino Medio Oriente (27,8 per cento del totale), 1,68 miliardi in Asia (9,6 per cento del totale), 1,22 miliardi in America settentrionale (7 per cento del totale), 670 milioni nell’America centro-meridionale (3,8 per cento del totale), 267,4 milioni in Oceania (1,5 per cento del totale) e 188,6 miliardi in Africa centro meridionale (1,1 per cento del totale).
Dall’analisi delle esportazioni in Nord Africa e Medio Oriente, il nostro principale partner commerciale è l’Algeria: tra il 2010 e il 2014 abbiamo “ceduto” armi per 1,37 miliardi di euro. Seguono l’Arabia Saudita per un importo di 1,30 miliardi di euro e gli Emirati Arabi Uniti per un valore di 1,06 miliardi di euro. Le vendite in questi 3 Paesi costituiscono il 77,2 per cento del totale delle esportazioni autorizzate in quest’area.
La CGIA ricorda che la legge n. 185 del 9 luglio 1990 prevede che il Governo invii ogni anno al Parlamento una relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento. Dalle relazioni relative agli anni 2010-2014 sono stati ricavati i dati sul valore delle esportazioni definitive di armi autorizzate nei singoli anni per l’industria italiana.
Sono comprese armi di vario tipo distinte in più categorie (ad esempio armi o sistemi d’aria, munizioni, bombe, siluri, missili, apparecchiature per la direzione del tiro, veicoli terrestri, agenti tossici ecc., esplosivi e combustibili militari, navi da guerra, aeromobili, apparecchiature elettroniche, corazzature o equipaggiamenti di protezione e costruzioni, software ecc.).
In riferimento all’ultimo anno in cui si dispongono i dati (2014), le prime 10 aziende italiane hanno “conseguito” l’83,8 per cento del valore complessivo delle autorizzazioni. Esse sono: AgustaWestland Spa; Alenia Aermacchi Spa; Selex Es Spa; Ge Avio Srl; Elettronica Spa; Oto Melara Spa; Piaggio Aero Industries Spa; Fabbrica d’Armi Beretta Spa; Whitehead Sistemi Subacquei Spa e Iveco Spa.
Come abbiamo avuto modo di leggere nella Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento del 2014, i settori più rappresentativi dell’attività di esportazione sono stati l’aeronautica, l’elicotteristica, l’elettronica per la difesa e i sistemi d’arma (missili, artiglierie). La maggior parte delle prime 10 aziende sopra elencate sono possedute o in varia misura partecipate dal Gruppo Finmeccanica.

mercoledì 13 aprile 2016

Quando la colpa è del termometro

La nomina di Piercamillo Davigo, in arte “dottor piercavillus” non arriva esattamente come un fulmine a ciel sereno, dopo la serie di polemiche scoppiate a seguito delle dimissioni del ministro Federica Guidi, provocate dalle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura di Potenza per indagare sui rapporti di clientelismo intercorsi fra la multinazionale Total, l’ingegnere Gemelli e il Ministero dello Sviluppo Economico a cui capo era all’epoca proprio Federica Guidi, in passato analista finanziaria di Fiat e vicepresidente di Confindustria.
Il premier non ha reagito bene alle indagini , accusando la Procura di Potenza di “Non arrivare mai a sentenza” e di indagare “con la frequenza delle Olimpiadi”. Accuse poi subito ritirate sostenendo di “spronare” i magistrati. Impossibile da non individuare il palese tentativo del premier di “annegare” la polemica in un palude di discutibile trasparenza e ostentata bonarietà.
Il neopresidente dell’Anm, conosciuto per essere un professionista obiettivo e scrupoloso, non ha tardato ad individuare con sorprendente lucidità, fra i fumi sterili della polemica, il reale nocciolo della questione.
“Siamo alle solite, si pensa di curare la malattia sostituendo il termometro”. Una replica dura alle insinuazioni di Renzi riguardo ad un presunto abuso di intercettazioni telefoniche da parte della Procura di Potenza. Una situazione di scontro mascherata malamente da Renzi che non può che aggravare ulteriormente la condizione già peraltro traballante dal momento che è ancora da chiarire la posizione del ministro Maria Elena Boschi, la cui collaborazione fu indispensabile per l’approvazione dell’ormai famigerato emendamento che permise di alleggerire il controllo su alcuni stabilimenti petrolchimici lucani fra cui spicca il grosso stabilimento Tempa Rossa gestito dalla multinazionale Total.
Già in passato Davigo si espresse in maniera estremamente critica nei confronti dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Da ex appartenente al pool di Mani Pulite fu fra i pochi ad individuare le carenze che portarno alla progressiva ingravescenza della piaga della corruzione. Prima fra tutte l’assenza di una serie normativa anticorruzione e la mancanza del reato di autoriciclaggio che non permette al sistema giudiziario di perseguire idoneamente fenomeni criminosi di larga diffusione. In altre parole lo Stato non sarebbe in grado di andare a reprimere la condotta del soggetto che “fa sparire” autonomamente i proventi delle proprie attività illecite. Prima fra tutti la frode fiscale.
Complice di questa situazione è una certa ambiguità del governo. Da un lato si istituisce l’Autorità Nazionale Anticorruzione, organo di controllo purtroppo sprovvisto di idonei poteri di natura coercitiva, dall’altro si aumenta il tetto del contante a tremila euro, permettendo di conseguenza a chi è in possesso di mezzi liquidi non dichiarati può di “smaltire” il contante senza dover sottostare ad un idoneo meccanismo di tracciabilità delle transazioni.
Solo l’immediato futuro riuscirà a chiarire la posizione “giudiziaria” del governo. A 5 giorni dal referendum sulle trivelle il Totalgate rischia di rimescolare ulteriormente le carte in tavola. Ciò che è chiaro è il fatto che l’elettorato che si presenterà alle urne il 17 Aprile sarà molto più cosapevole del rapporto talvolta perverso fra imprenditoria individuale, multinazionali, lobby affaristiche e le istituzioni.
Le parole di Piercamillo Davigo, un uomo dello Stato per lo Stato, non possono che esprimere un sentimento che ormai aleggia nell’aria.
Il morbo che affligge il paese non è così esteso a causa di fantomatiche circostanze esterne. Proviene da due componenti indispensabili in qualunque comunità organizzata. La classe imprenditoriale e il potere esecutivo. Colpevoli troppo spesso di aver aiutato con un disinteresse generalizzato lo sviluppo di un rapporto di collusione criminosa fra pubblica amministrazione e imprese fondato su un clientelismo e nepotismo imbarazzanti.
Sarà trivellopoli fatale al governo?

martedì 12 aprile 2016

Bagnoli, Trivelle e Jobs Act: la monarchia del fiorentino Re Sole

L’attuale governo verrà ricordato alla storia per la gran quantità di riusciti progetti di destabilizzazione economica e lavorativa, piani dai quali lo stesso presidente del governo è sempre uscito illeso dal punto di vista legale. Egli, infatti, agisce nel puro “rispetto” della giustizia, come mero funzionario dello Stato. Se, infatti, l’era berlusconiana era caratterizzata da una continua alternanza di accuse, nei confronti del premier, per coinvolgimenti con associazioni mafiose e corruzione, l’attuale primo ministro si presenta in maniera molto “pulita”, se pur non differente nei contenuti programmatici. L’uomo di Arcore quanto meno non sconfessava la propria qualità di “genio del male”, né i propri interessi, mentre il giovinetto di Firenze rappresenta una subdola evoluzione di questa facoltà, dal momento che tende a celare i piani di impoverimento sociale sotto le vesti di una tecnocrazia “politically correct”.
E’ con questa strategia che un’opera di devastazione ambientale, quale Bagnoli, assume le vesti di un’innocua “bonifica”, che andrebbe ad abbattere 230 ettari, per la costruzione di uno scalo turistico con 700 posti d’attracco, una sede universitaria (che probabilmente verrà affidata a istituzioni private), e altri progetti che, a quanto sembra, non gioveranno ai cittadini napoletani, bensì ai privati e alle famiglie dell’alta finanza. Queste ultime certamente godono della possibilità di immergersi nel turismo italiano e straniero. La reazione di Napoli si è dimostrata forte e violenta: studenti, cittadini ordinari, comitati e centri sociali si sono ribellati scagliandosi contro le forze dell’ordine, le quali non hanno esitato a respingere i manifestanti con cariche e lacrimogeni. I napoletani, tuttavia, hanno risposto utilizzando a loro volta delle bombe carta. Decisiva e significativa la reazione del sindaco De Magistris, il quale, senza limitarsi a dichiarazioni perbeniste, ha pubblicamente appoggiato le azioni dimostrative degli attivisti, criticando l’operato di Renzi e boicottando l’incontro programmato fra il presidente e lo stesso primo cittadino.
Afferma De Magistris: “La cabina di regia è una stanzetta preconfezionata, è un luogo pericoloso da cui ci teniamo a distanza. (…) Il premier non è un semplice rottamatore, bensì un saldatore degli interessi privati.” Dichiarazioni, queste, accolte con favore dal capoluogo napoletano. Tuttavia, non potevano mancare le critiche dei soliti moralisti democratici, (eppure un tempo membri del PCI), i quali hanno criticato il sindaco per l’ “ignobile” solidarietà dimostrata nei confronti dei “ragazzacci” che hanno generato il caos nella città. A questi Signori, paladini dell’Ordine e della quiete pubblica, si dovrebbe porre la seguente domanda: se si dovesse scegliere il minore fra le tipologie di caos, quale forma di disordine sarebbe preferibile fra un lancio di oggetti per difendersi e reagire a un ordine apparente che prepara infauste conseguenze sociali o fra un Caos che, per l’appunto, assume una maschera ipocrita da “Stato riformista”, al fine di agire come un demone mortifero pronto a falciare le sue vittime? Probabilmente si tratta di domande troppo elaborate per menti grezze, fin troppo preposte al comando e poco inclini al ragionamento.
Quello di Bagnoli costituisce soltanto uno degli esempi chiave delle contraddizioni dell’attuale Repubblica aristocratica italiana. L’intero territorio è minacciato da megalomani progetti di “sviluppo” del Paese, fra i quali la oramai nota costruzione delle piattaforme per la trivellazione dei mari, il cui referendum si svolgerà a breve, come lo stesso piano di edificazione del Ponte sullo Stretto di Messina, la cui impossibilità è nota perfino agli stessi gabbiani che quotidianamente attraversano l’area.
Ciò che fa ridere è che, probabilmente, qualora si trovassero le solite escamotage giuridiche per la costruzione delle suddette grandi opere pubbliche, si utilizzerebbe una manodopera flessibile e facilmente licenziabile, grazie allo stesso Jobs’ Act, ennesimo e inconfondibile marchio della politica renziana.
A questo punto, ci si pone un ulteriore quesito: perché non emanare una nuova legge che trasformi l’attuale forma di governo da Repubblica a Monarchia, viste le peculiarità che lo stato italiano va attualmente assumendo? Dimenticavo il perché, esiste la Costituzione.

lunedì 11 aprile 2016

La vera posta in gioco il 17 aprile

Più che mai è importante andare a votare per questo referendum per dimostrare che non si abbandona il paese in mano a chi vuole mercificare qualsiasi cosa senza rispetto e che esiste ancora la volontà e la forza di cambiare rotta». Il manifesto, 8 aprile 2016 (c.m.c.)
L’attuale vuoto politico, che rischia di diventare catastrofico, e di cui la cosiddetta sinistra è al tempo stesso vittima e corresponsabile, fa emergere con forza la valenza probabilmente decisiva delle prossime consultazioni referendarie.È sempre più evidente che dal loro esito dipenderanno (per dirla in modo un po’ enfatico) le sorti del paese. In questo quadro, è difficile non prendere atto del fatto che quella fra loro che riguarda il problema delle trivellazioni marine (17 aprile) stenta a decollare, quasi che il quesito fosse di significato e dimensioni minori.
Io penso che non sia così, almeno per due buoni motivi.
Il primo è più specifico, anche se presenta anch’esso valenze generalissime. Questo governo, e il partito che in questo momento esso rappresenta, esprimono la posizione più risolutamente antiambientale (attenzione: antiambientale, non semplicemente antiambientalista), che nel nostro paese sia stato dato di vedere da molti decenni (forse da sempre?). L’ambiente, il paesaggio, il territorio, i beni culturali sono considerati, nel migliore dei casi, come degli oggetti o realtà morte, in cui investire più che si può, per ricavarne più che si può (spesso, però, sbagliando anche il calcolo dei rapporti fra investimenti e ricavati). Se una società petrolifera o un consorzio di palazzinari glielo chiedesse, pianterebbero trivelle o edificherebbero ecomostri anche di fronte a Piazza San Marco a Venezia o in Piazza della Signoria a Firenze.
Il caso lucano è ormai sotto gli occhi di tutti, non si può più girare la testa dall’altra parte.
Osservo che, della stessa natura del caso delle trivelle, sono altri casi clamorosi come quelli del sottoattraversamento ferroviario di Firenze e dell’ampliamento sconsiderato e dissennato dell’aeroporto di Peretola, anch’esso a due passi da Firenze (la quale rischia di diventare la “città martire”, e come tale meriterebbe d’esser proclamata, di questa fase produttivistico-ambientale). Del resto, in ambedue questi casi basterebbe scavare appena più a fondo (non dico «più a fondo»; dico: «appena più a fondo»), per arrivare a scoprire le stesse logiche che hanno sovrainteso alle operazioni speculative lucane.
Per cui: chi vota sì al referendum sulle trivellazioni marine, vota contemporaneamente contro tutto questo, – contro tutto questo, e contro il suo probabile, anzi, facilmente e assolutamente prevedibile, peggioramento. Anche a tremila metri c’è dunque un interesse profondo (è il caso di dirlo) a votare al prossimo referendum sulle trivelle sottomarine.
Il secondo motivo è di carattere politico generale Non s’è mai visto in questo paese un governo che inviti la cittadinanza a non andare a votare a una forma di qualsiasi consultazione elettorale. Questo governo conta sulla stanchezza, la disaffezione, lo scontento, persino sull’incazzatura («vadano tutti al diavolo, non voglio più saperne!»), per continuare a governare.
Qui, a proposito delle trivelle, – tema, come ho già detto, apparentemente marginale e interesse di pochi, – si manifesta la stessa linea, non soltanto politica, ma ideologico-culturale, che si manifesta a proposito della materia dei referendum d’autunno, e cioè: quanto più si restringe la base del potere, tanto meglio è per chi governa. Può governare meglio, con meno impacci e più libertà di movimento e di azione. Per esempio: fare quel che si vuole dell’ambiente italiano, se petrolieri, palazzinari e costruttori di strade e autostrade glielo chiedono (oppure, magari, prendere l’iniziativa di andarglielo a chiedere, se il giro dei soldi, degli investimenti e delle ricadute di potere, dovesse troppo abbassarsi). Ma di più, molto di più: fare quel che si vuole in ogni ganglio dell’azione di governo, accantonando o eliminando del tutto controlli, verifiche, inutili discussioni (perdite di tempo, gufismi d’altri tempi).
Di fronte a questo stato di cose, e a questa prospettiva, più si vota meglio è. Nonostante tutto, perdura qualcosa di vivo anche nella stanchezza, nella disaffezione, nello scontento, persino nell’incazzatura. Bisogna che venga fuori, per riprendere la strada comune, comune per noi, certo, ma, a pensarci bene, persino per gli altri che non la pensano come noi.

domenica 10 aprile 2016

La propaganda UE sui corpi di Bruxelles

In un fotogramma di Quarto Potere, Orson Welles nei panni di Charles Foster Kane replica al suo interlocutore: "Lei si preoccupa di quello che pensa la gente? Su questo argomento posso illuminarla, io sono un'autorità su come far pensare la gente. Ci sono i giornali per esempio, io sono proprietario di molti giornali…".
All'alba del Terzo Millennio non esistono solamente i giornali. Il parco dei mezzi di comunicazione di massa si è notevolmente ampliato, per forma, estensione e mezzo, ma il fine dei principali media mainstream è rimasto quello di Citizen Kane: indicare il modo in cui deve pensare la gente.
Nel mondo della comunicazione, il mezzo televisivo concorre con l'immediatezza di internet e dei social network. Nonostante una potenziale pluralità, la potenza della comunicazione mainstream è in grado di coprire ogni mezzo di diffusione, esercitando la propria capacità di orientare ma anche di silenziare o scoraggiare gli approfondimenti fastidiosi e le domande scomode.
Il doppio attentato terroristico di Bruxelles, con le bombe all'aereoporto di Zaventem ed alla stazione metro di Maellbeek si è rivelato ancora una volta banco di prova del più immediato mezzo di potere sulle opinioni dei cittadini.
Già alle ore 10:27, poco più di due ore dopo l'attacco, il media Derniere Heure DH.net.be del gruppo belga IPM "ha pubblicato i fermi immagine delle videocamere di sorveglianza alle 10:27 am, due ore e mezzo prima che venissero rilasciate ufficialmente dalla Polizia di Bruxelles: alle 12:58pm." [1]. Dello stesso gruppo mediatico IPM fa parte del resto la testata La Libre, la quale ha avuto la sfrontatezza di soffiare sul fuoco della paura pubblicando addirittura "un falso video, asserendo che provenisse dalle telecamere di sorveglianza di Bruxelles, ma utilizzando invece un filmato di repertorio dell'attacco terroristico a Mosca del gennaio 2011." [2].
Poche ore dopo l'attentato, i media mainstream avevano già dato precisi input su come dovesse essere considerato l'attentato: 1) è un attentato dell'Isis, 2) è un attentato contro l'Europa, 3) i terroristi viaggiano indisturbati nei nostri aeroporti e la vita di ognuno di noi è in assoluto pericolo.
La corrente del terrore era già partita. E non solo dagli attentatori.
Non intendiamo qui affrontare alcun pendio dietrologico o complottista. Piace a chi scrive analizzare fatti e non suggestioni. D'altronde, non si possiedono al momento sufficienti evidenze per una seria indagine.
Ciò che qui si vuole analizzare è la corrente di opinione veicolata dai media: dove si dirige, quali sono le sue mete.
Vale la pena di notare che - qualche giorno fa - questa corrente si trovava impegnata più nel silenziare che nel gridare.
Soprattutto sull'argomento Unione Europea.
Da parecchio tempo l'Unione Europea naviga in acque cattive. La crisi greca e la destabilizzazione dell'Ellade ha raggiunto ormai la cronicizzazione. Ogni giorno il paese è bloccato, continuano gli scioperi e gli scontri con le autorità governative che applicano la disumana ricetta d'austerità delle oligarchie plutocratiche dell'UE.
Su tutti i media europei, per la Grecia che brucia, c'è l'imposizione del silenzio quasi assoluto.
Silenzio imposto anche in Francia sugli imponenti cortei sindacali contro le riforme reazionarie imposte dall'UE per limitare i diritti dei lavoratori nel nuovo codice del lavoro. Le manifestazioni, sostenute dai principali sindacati e dalle organizzazioni studentesche, hanno portato in piazza diverse migliaia di persone in ogni grande città della Francia. In Spagna e Portogallo l'UE non riscuote miglior sorte ed il 23 di giugno dovrà svolgersi nel Regno Unito il referendum sulla permanenza nella UE.
Per gli italiani che hanno visto approvare la bestialità del jobs act senza uno sciopero serio, nel silenzio complice delle maggiori organizzazioni sindacali e nella risibile opposizione parlamentare, sembra di vedere un mondo della fantasia.
Poi accade in Spagna la tragedia dell'incidente al torpedone di studentesse.
Per i media mainstream è un'occasione da sfruttare per portare un po' d'acqua al mulino di quell'Unione Europea così odiata nelle piazze di tutta Europa.
Se quei corpi che hanno tragicamente perso la vita sul bus fossero tornati da Gardaland, la stampa gli avrebbe riservato un trafiletto su La Nuova Provincia. Ma questi tornavano dal mitizzato Erasmus, quindi sulle loro povere membra si è esercitato il cordoglio pubblicitario e propagandistico dell'Europa come mito di caduta delle frontiere, opportunità e strenne di felicità. Nessuno si è chiesto come mai, nel magico capitalismo europeo, un povero anziano conducente di bus si trovasse ancora obbligato a faticare all'età di sessantotto anni e si vedesse costretto ad affrontare un viaggio notturno. Di questo occorreva chiedere conto all'Europa dell'Erasmus.
Poi ci sono Zaventem e Maelbeek.
Boato, fumo, corpi e membra lacerate. Paura.
E' venuto il momento per i media mainstream di gridare e cavalcare un'enorme opportunità.
L'attacco al cuore dell'Europa esige che gli europei si stringano attorno ad uno stato che non c'è, che non è il loro, che li sfrutta e che li rende poveri. Ma dall'altra, per i media, c'è il terrore.
Allora è una scelta obbligata.
Allora silenzio e mani giunte: ci sono i morti.
Sventoli il sudario blu con le stelle d'oro.
Silenzio tutti gli altri.
Nel veloce succedersi degli eventi, nessuno si stupisce del fatto che - come in altri gravi attentati - poche ore dopo siano disponibili le foto degli attentatori e i loro nomi. Di uno di essi, grazie alle informazioni di un tassista che lo avrebbe accompagnato all'aeroporto, viene addirittura rinvenuto il computer portatile in un cestino della spazzatura, con una sorta di testamento.
Tutto chiaro o quasi.
Gli italiani ricorderanno una simile velocità di analisi in una delle loro cosiddette stragi di stato: il massacro di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Poco tempo dopo l'attentato, il questore Marcello Guida dava in pasto alle telecamere della Rai il capro espiatorio dell'anarchico Pietro Valpreda. Ed anche qui c'era un tassista, il famoso Rolandi che riconobbe Valpreda, solo perché altri simili non riusciva a vedere nei tre che gli avevano presentato: "Se non è lui qui non c'è": era la caratura di quel riconoscimento. Anni più tardi le inchieste scagionarono l'anarchico e accertarono la responsabilità nell'attentato di settori dei servizi segreti insieme a personaggi dell'estrema destra eversiva.
Ciò che allora si doveva silenziare erano le rivendicazioni operaie nell'autunno caldo 1969.
Non si vuole qui gettare una suggestione per similitudini, ma quantomeno salvare l'operatività del dubbio.
D'altronde, lo studio delle condizioni storiche non è mai superfluo. E' innegabile che oggi, in Europa, servono all'oligarchia dominante poche ed essenziali cose: 1) limitare la democrazia e la manifestazione del pensiero (lo si è prospettato e in parte attuato in Francia all'indomani degli attentati di Parigi) 2) legittimare le varie guerre di aggressione nel mondo, volte all'accaparramento delle risorse ed al dominio del mercato mondiale 3) creare un nemico e delle divisioni interne tra la maggioranza degli sfruttati.
Dopodiché ragioniamo, a mente aperta, su tutto.
Sul piano delle manifestazioni, a Bruxelles si è imposto, sull'onda degli eventi, un divieto assoluto dei cortei. E' stato persino vietato un banale assembramento promosso da pacifisti. In questo clima di divieto si sono però lasciati arrivare, il giorno di Pasqua, sulla Piazza della Borsa, 250 sparuti manifestanti nazisti e di estrema destra, i quali hanno sfidato l'ordine pubblico a suon di sassate, macchine incendiate, commettendo reati di devastazione ed intimidazione violenta dei manifestanti pacifici che commemoravano i morti.
Uno degli obiettivi del patriottismo europeo agitato a piene mani sulle membra dei morti innocenti è quello di silenziare le vere cause della guerra del terrore. Diviene comodo agitare la bandiera del male assoluto, il fondamentalismo di Daesh contro la civiltà del progresso e della libertà.
Silenzio invece su chi presenta prove oggettive di responsabilità degli Stati occidentali, della Nato, dell'UE, di Israele e della Turchia nel finanziamento delle organizzazioni terroristiche come Isis e Daesh. Per una disamina dell'ingente materiale vedi M. CHOSSUDOVSKY, Is The ISIS Behind Brussels Attacks. Who is Behind The ISIS?, http://www.globalresearch.ca/is-the-isis-behind-the…/5515765.
Silenzio invece sul ruolo dell'economia capitalista giunta al suo estremo grado di oligopolio globale, in grado di condizionare e limitare ogni sovranità statale, silenzio sulla necessità di questi oligopoli di condurre una guerra senza fine, destabilizzando interi stati e depredando le loro risorse.
Altrettanto silenzio sul ruolo dei servizi segreti e dei circoli di estrema destra nella pianificazione degli attentati terroristici in Europa.
Recentemente, Alex Lantier, ha documentato come una delle armi utilizzate negli attacchi di Parigi provenisse dalla Century Arms, fornitore d'armi della Florida in stretti rapporti con la Cia, già implicata in spedizioni d'armi al sanguinario regime guatemalteco attraverso il trafficante d'armi israeliano Ori Zeller. In aggiunta, Lantier riferiva come - nell'ambito dell'inchiesta per gli attentati di Parigi - la polizia francese ed il Parquet (Procura) di Lille avessero fermato "Claude Hermant, un ex membro del servizio d'ordine del Front National attivo nei circoli di estrema destra nel nord della Francia nonché informatore confidenziale di polizia e doganieri per chiedergli informazioni circa gli attacchi di gennaio a Charlie Hebdo e all'Hyper Cacher. La polizia ha ammesso che è stato trattenuto per chiedergli se ha venduto armi ad Amedy Coulibaly, lo sparatore dell'Hyper Cacher. Ciò ha confermato le iniziali notizie circa il fatto che la procura di Lille stesse indagando sui legami tra Hernant e gli attacchi di gennaio. Il ministro dell'interno francese Bernard Cazeneuve ha successivamente eccepito il segreto di stato per fermare queste indagini. In ogni caso, tale decisione e molti dettagli dell'indagine su Hernant sono comunque trapelati alla stampa. L'inchiesta di Lille sembra considerare la possibilità che Hernant stesso facesse semplicemente da mediatore in una più vasta rete coinvolta nella fornitura dell'arma allo sparatore." Per un approfondimento vedi: A. LANTIER, Un'arma utilizzata negli attacchi di Parigi del 13 novembre proviene da un fornitore d'armi in stretto contatto con la CIA, n. 570, 19.12.2015 .
Il patriottismo veicolato ha anche obiettivi politici.
In Italia, rispondendo con molto zelo al comando proveniente da Bruxelles, il Ministro della Giustizia Orlando ha subito richiesto nuove cessioni di sovranità all'oligarchia tecnocratica della UE, chiedendo che venissero rafforzati azione e poteri della c.d. Procura Europea.
Sollecitare la cessione di sovranità nazionali sembra anche essere l'obiettivo delle sterili polemiche sull'asserita inefficienza della polizia belga, dimenticando che Bruxelles, prima ancora di essere un distretto dei poliziotti belgi, è la sede dell'UE e del Comando NATO.
I palazzi della NATO a Bruxelles sono uno dei luoghi dove sin dal 2011, in collaborazione con gli alti comandi turchi ed Israele, si è programmato l'intervento militare in Siria realizzato anche attraverso il reclutamento e l'addestramento di "freedom fighters" in tutto il mondo musulmano, sulla falsariga di ciò che venne fatto con i Muhjaeddin nel conflitto tra URSS e Afghanistan. Questi soggetti combattenti, come risulta da fonti israeliane dovevano combattere al fianco dei cosiddetti ribelli siriani per rovesciare il legittimo governo del Presidente Assad. Gli stessi combattenti sono stati poi integrati nelle organizzazioni terroristiche finanziate dagli USA e dai loro alleati, incluse Jabat Al Nusrah e l'ISIS. Quell'ISIS che si dice responsabile degli attacchi a Bruxelles.
Sempre in Italia, la stessa opposizione parlamentare ha prontamente silenziato i suoi pur deboli e populistici atteggiamenti critici nei confronti dell'UE. Nel corso del suo incontro con gli ambasciatori dei Paesi UE, il grillino Di Maio ha tenuto a far sapere che "la campagna grillina anti-euro non fu una fantastica idea, e se dipendesse da lui la lascerebbe nel cassetto: proprio ciò che a Bruxelles (e a Berlino) desiderano sentirsi dire. Tra i tanti populismi da cui l'Europa è afflitta, Francia e Germania comprese, quello grillino non viene considerato il pericolo numero uno." [3]
Tra lo zelo al mainstream UE di maggioranza ed opposizione nelle poltrone parlamentari e l'odio miscelato in mille pericolosi modi dagli estremismi di destra, occorre armare l'intelletto di una task force a difesa della ragione e dell'indipendenza di giudizio, l'unico metodo che un popolo ha a propria disposizione per gettare i semi del proprio affrancamento e della propria autodeterminazione.

sabato 9 aprile 2016

Istat: la “zavorra” di giovani Neet rimane altissima e in Italia sempre più vecchi

"Sono oltre 2,3 milioni i giovani 15-29enni che non sono inseriti in un percorso scolastico e/o formativo e non sono impegnati in un'attività lavorativa".
Il dato si riferisce al 2015 e a rilevarlo è l'Istat con il rapporto 'Noi Italia', pubblicato il 7 aprile. In totale si tratta del 25,7% dei giovani, con un’alta incidenza tra le donne (27,1%) e nel Mezzogiorno (in Sicilia e Calabria sfiora il 40%).
L’alta quota è comunque in leggero calo rispetto all'anno prima: nel 2014 i giovani che non studiano e non lavorano, i cosiddetti Neet, erano il 26,5%. Il primo ribasso dall'inizio della crisi. È indicativo che chi ha da poco varcato la soglia dei trenta anni risulta laureato appena uno su quattro.
Nel 2015, rileva, solo "il 25,3% dei 30-34enni ha conseguito un titolo di studio universitario, un livello di poco inferiore al 26% stabilito come obiettivo per l'Italia ma lontano dal 40% fissato per la media europea". Quindi, la quota di chi ha un titolo accademico sale, nel 2014 era al 23,9%, ma il target Ue, fissato nella Strategia Europa 2020, rimane davvero lontana.
L’Istat ha anche rilevato che "sale al 14% l'incidenza del lavoro a termine nel 2015, più alta nelle regioni meridionali (18,4%) rispetto al Centro-Nord (12,5%)". L'Istituto spiega come la quota dei dipendenti a termine si ottiene dal rapporto percentuale tra i dipendenti a tempo e il totale dei dipendenti.
In generale, "nella graduatoria europea relativa al 2014, solamente Grecia, Croazia e Spagna presentano tassi di occupazione inferiori a quello italiano mentre la Svezia registra il valore più elevato (74%).
L'Italia è indietro anche nell'uso del web: la posizione nazionale è decisamente inferiore alla media Ue28 (75% nel 2014), perché solo Bulgaria e Romania fanno peggio di noi. Nel confronto europeo, anche la diffusione della banda larga nelle famiglie italiane è inferiore alla media dei 28 paesi (78% nel 2014), i valori più elevati si registrano nel nord Europa.
Sempre secondo l'Istat, gli utenti di Internet nel nostro paese sono il 60,2% (circa 34 milioni 500mila persone), ma solo il 40,3% si connette quotidianamente. La totalità delle regioni del Centro-Nord ha livelli di uso di Internet superiori al valore nazionale, nel Mezzogiorno la quota è più bassa. L'uso della rete è fortemente collegato all'età, con una quota di utenti che decresce progressivamente dopo i 24 anni.
Riguardo la banda larga, dal 2006 è aumentata la quota di famiglie che dispongono di una connessione veloce per accedere a Internet da casa, con quasi due terzi delle famiglie che nel 2015 utilizzano una connessione a banda larga. Il Mezzogiorno, e in particolare la Calabria (56,6%), si trovano in posizione svantaggiata.
L’Istat ha anche fotografato il livello anagrafico e lo stato civile. Ci sono pochi matrimoni, ancor meno figli e tanti, tanti anziani. Perchè il nostro Paese diventa sempre più popolato da vecchi: al 1° gennaio 2015 risultano 157,7 anziani ogni 100 giovani. E 55,1 persone in età non lavorativa ogni 100 in età lavorativa; valori in continua ascesa negli ultimi anni.
In caduta libera i fiori d'arancio. Perché con 3,2 matrimoni ogni mille abitanti, l'Italia è uno dei paesi dell'Ue28 in cui si va meno a nozze. Nel corso del 2014 in tutte le regioni si é verificata una stasi o un calo, fatta eccezione per il Trentino-Alto Adige. Resiste la tradizione del Mezzogiorno con la nuzialità più alta mentre il Nord-ovest è l'area con meno matrimoni rispetto alla popolazione. L'incidenza di divorzi rimane comunque bassa: 8,6 ogni 10mila abitanti nel 2014; a livello europeo solo Irlanda e Malta registrano valori inferiori (anno 2013). Per le separazioni si sta verificando una convergenza tra le varie aree del Paese (14,8 e 14,6 ogni 10mila abitanti nel Centro-Nord e nel Mezzogiorno) mentre il divario Nord-Sud per i divorzi resta ancora evidente (rispettivamente 9,8 e 6,6).
Continua, pure a diminuire il numero medio di figli per donna (al Sud le mamme più giovani): nel 2014 si attesta a 1,37 mentre occorrerebbero circa 2,1 figli per garantire il ricambio generazionale.
Capitolo stranieri: in Italia risiedono oltre 5 milioni di cittadini non italiani (1,9% in più rispetto all'anno precedente) che rappresentano l'8,2% del totale dei residenti. Tuttavia, il flusso in ingresso di cittadini non comunitari verso il nostro Paese risulta in flessione: nel corso del 2014 i nuovi permessi rilasciati sono stati quasi il 3% in meno rispetto all'anno precedente. La riduzione dei nuovi ingressi ha riguardato soprattutto il Nord-est del Paese, mentre nel Mezzogiorno si è registrato un deciso aumento (quasi 8mila in più), a seguito soprattutto degli arrivi per mare di persone in cerca di protezione internazionale. Il grado di istruzione degli stranieri è di poco inferiore a quello degli italiani; tra i 15-64enni quasi la metà degli stranieri ha al massimo la licenza media, il 40,1% ha un diploma di scuola superiore e il 10,1% una laurea (tra gli italiani il 15,5%).