domenica 7 febbraio 2016

Il prezzo di una guerra. L’attacco alla Libia del 2011 nei documenti segreti del Pentagono

Lo stretto rapporto italo-libico di cui si è discusso nel precedente articolo non passò certamente inosservato in Europa, anche per via dell’elefantiaca personalità da gaffeur del presidente Berlusconi, e ben presto anche l’ambizioso Sarkozy fu tentato dal corteggiamento del dittatore libico. Gheddafi venne infatti invitato all’Eliseo e ricevuto con tutti gli onori del caso, scatenando un certo astio da parte della stampa francese che vedeva in questa visita il riconoscimento di un sanguinario colonnello in cambio di qualche commessa petrolifera e aerei da combattimento. Alla fine la Libia comprò ben poco dalla Francia perché tra Finmeccanica-ENI e Dassault-TOTAL Tripoli preferiva restare ai patti stretti con Berlusconi che, tutto sommato, l’aveva sempre trattato meglio. Ma il corteggiamento francese continuò per diverso tempo e il rapido cambio di posizione di Sarkozy nel febbraio 2011 fece nascere più di un dubbio sulle sue reali motivazioni soprattutto al governo italiano.
Berlusconi racconta come il 17 marzo 2011 si trovasse al Teatro dell’Opera di Roma per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia; insieme a lui erano presenti ministri, sottosegretari, consiglieri e lo stesso Presidente Napolitano. Friedman trascrive: “Eravamo all’Opera, e il Consiglio di sicurezza dell’Onu stava approvando la risoluzione sulla no-fly zone. Durante l’intervallo ebbi una discussione sulla Libia con il presidente Napolitano. Lui aveva già preso una decisione e voleva che appoggiassimo l’attacco. Era stato impegnato in riunioni con il ministro della Difesa e aveva insistito perché in Parlamento la commissione difesa si riunisse e approvasse mozioni a sostegno della missione militare. Quella sera con Napolitano la discussione fu molto tesa. (…) Dopo quell’incontro pensai seriamente di dimettermi”. Due giorni dopo il premier si recò a Parigi con le mani sostanzialmente legate ma nel tentativo di ridurre al minimo la partecipazioni italiana all’azione; le cose non andarono proprio così. Arrivati all’Eliseo gli italiani scoprirono che ormai le decisioni erano già state prese e che i Rafale e i Mirage di Sarkozy avevano già i motori accessi, così come le navi britanniche si appropinquavano al golfo della Sirte. Nelle sue memorie, Hard Choices, Hillary Clinton ha ricordato la sollevazione generale e la rabbia di Berlusconi quando la notizia fu resa pubblica, così come il durissimo scontro verbale tra il premier italiano e il presidente francese. Il segretario americano provò a mediare tra i due ma ottenne soltanto lo sdegno e la rabbia italiana che continuò a sostenere, in modo piuttosto isolato, l’errore nel volere deporre Gheddafi. Afferma Berlusconi: “C’erano interessi commerciali francesi ed era geloso dei miei rapporti con Gheddafi, si era reso conto che non avrebbe mai potuto competere con me in materia di contratti petroliferi e sul gas”. Ma le decisioni, come detto, erano già state prese e quella stessa sera i caccia francesi attaccarono un convoglio di corazzati libici intorno a Bengasi seguito qualche ora più tardi dal lancio di 112 missili Tomahawk da unità navali angloamericane. L’Italia si adeguò in modo piuttosto passivo fornendo inizialmente soltanto basi e ricognitori ma finendo per essere coinvolta sempre più direttamente fino ad impiegare, come ricorda il generale Giuseppe Bernardis, in modo più segreto che pubblico, caccia Tornado IDS, Eurofighter Typhoon, AMX in 1900 sortite con 456 missioni di bombardamento autorizzate dal governo il 26 aprile di cui 310 contro “obiettivi predeterminati al suolo”, 146 di “neutralizzazione delle difese aeree nemiche” e “attacchi ad obiettivi di opportunità”.
L’adesione italiana è un punto ancora poco chiaro ma è certo che all’epoca c’era una grande distanza tra l’esecutivo e il Quirinale che rimaneva comunque il comandante delle forze armate. L’epilogo di questa storia si ebbe il 20 ottobre quando il colonnello Gheddafi fu trascinato per terra, brutalizzato ed ucciso con una vera e propria esecuzione vicino Sirte, la sua città natale. Sarkozy, ovviamente, esultò, la Clinton ebbe uscite infelici, Berlusconi si limitò a commentare amaramente: “Sic transit gloria mundi”. L’intervento armato NATO, iniziato il 19 marzo e terminato il 31 ottobre, con impiego anche di forze speciali e unità di intelligence sul terreno ha tuttavia lasciato molti buchi neri. Il primo fra tutti è proprio l’intervento francese; quali furono le reali motivazioni dell’attacco di Parigi alla Libia? Coprire i debiti del presidente eliminando Gheddafi? Recuperare prestigio internazionale? Isolare l’Italia e attaccare indirettamente i suoi vantaggi nell’area? Fino al mese scorso queste domande sono rimaste puramente speculative ma grazie al Freedom of Information Act oggi sappiamo qualcosa in più e possiamo ricostruire, almeno in parte, i punti neri di questa storia. Parte della corrispondenza di Hillary Clinton tramite le mail confidenziali del Dipartimento di Stato è stata resa pubblica, inclusi gli scambi con Sidney Blumenthal, fonte del governo americano sulla questione libica. Nel primo documento si può leggere che alti ufficiali del Consiglio Nazionale di Transizione diventarono molto presto clienti del governo francese, tra questi il generale Abdelfateh Younis considerato l’uomo più vicino a Parigi all’interno dei ribelli. L’analisi prosegue affermando che sebbene il 2 aprile 2011 i conti del colonnello Gheddafi e della sua famiglia fossero stati congelati il governo libico possedeva comunque 143 tonnellate di oro e altrettante di argento. Verso la fine di marzo quelle riserve erano state trasferite dai caveau della Banca Centrale Libica di Tripoli a Sabha, una zona nel sud-est del paese verso il confine tra Niger e Ciad.
Nella stessa mail possiamo leggere: “Questo oro fu accumulato prima dell’attuale ribellione per essere utilizzato per costituire una valuta pan-africana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano è stato sviluppato per fornire ai paesi francofoni africani una moneta alternativa al franco francese (CFA)”. Il franco CFA è la valuta utilizzata da 14 paesi africani che sono state colonie francesi ed è ancora oggi il Tesoro di Francia a garantire la convertibilità della valuta. In base a quanto raccontato a Blumenthal da informatori libici, la quantità di oro e argento spostata da Tripoli a Sabha era valutata in circa 7 miliardi di dollari; il DGSE, il servizio segreto francese, avrebbe scoperto dell’esistenza di questo progetto poco tempo dopo l’inizio delle ribellioni e sarebbe stato uno dei fattori che avrebbe indotto Sarkozy a decidere per l’attacco. In un’altra mail indirizzata al Segretario di Stato vengono riassunte le motivazioni che avrebbero guidato le mosse del presidente francese: desiderio di ottenere una maggiore partecipazione nella produzione di petrolio libico a danno dell’ENI; aumentare l’influenza francese in Nord Africa; migliorare la situazione politica interna francese in previsione delle elezioni presidenziali del 2012; fornire alle forze armate francesi la possibilità di riaffermare la loro posizione nel mondo; affrontare la preoccupazione dei suoi consiglieri circa il piano a lungo termine di Gheddafi per sostituire la Francia come potenza dominante nella regione francofona iniziando dalla sostituzione della valuta garantita dal Tesoro.
Le motivazioni per muovere guerra a Gheddafi erano dunque numerose e ad esse si sommano le pesanti accuse mosse da Saif al-Islam circa i presunti finanziamenti per la campagna elettorale del 2007. Ma ad avere interessi nel deporre il colonnello erano anche gli inglesi che avevano attivato contatti con leader tribali e civici della Libia orientale per la creazione di una regione semiautonoma nella Cirenaica che potesse garantire a Londra e Parigi opportunità commerciali pari all’impegno militare profuso per sconfiggere le truppe lealiste (mail dell’8 marzo 2012). A cinque anni di distanza da quegli eventi e alla vigilia di un possibile nuovo intervento in Libia per arginare l’avanzata dello Stato Islamico, l’affermazione di un navigato praticante della realpolitik quale Henry Kissinger secondo cui le guerre non si fanno mai per il beneficio dell’umanità ma per interessi nazionali risuonano quanto mai verificate.

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