domenica 31 gennaio 2016

Due pesi e due misure nella politica dell’UE di non-riconoscimento

La base legale per le relazioni tra l’UE con Israele e il Marocco, rispettivamente, è ulteriormente stabilita con quelli che si chiamano concordati associativi che sono entrati in vigore con entrambi i paesi nel 2000. Usando formulazioni leggermente diverse, l’articolo 2 di entrambi i documenti sottolinea che il rispetto per i principi democratici e i diritti umani, costituiscono una parte essenziale degli accordi. Nel firmare altri trattati bilaterali, come l’accordo per le industrie ittiche tra UE e Marocco (che dà l’accesso alle acque marocchine alle navi da pesca europee), la Commissione Europea ha di nuovo sottolineato l’importanza del rispetto per i diritti umani e la legge internazionale. “ Nel Protocollo è inserita una clausola riguardante i diritti umani, e, come in tutti gli accordi dell’UE, un meccanismo di sospensione assicura che l’UE può sospendere unilateralmente il protocollo in caso di violazioni dei diritti umani.”
Per citare un esempio recente, nel suo rapporto Occupation, Inc. (https://www.hrw.org/…/how-settlement-businesses-contribute-…) (pubblicato in gennaio), l’Osservatorio per i Diritti Umani sostiene che “il contesto delle violazioni dei diritti umani a cui contribuisce l’attività commerciale degli insediamenti israeliani, è così invasivo e grave, che le aziende dovrebbero smettere di svolgere attività all’interno degli insediamenti o a loro beneficio, come costruire unità o infrastrutture abitative, o fornire servizi per l’eliminazione o lo smaltimento in discarica dei rifiuti. Dovrebbero anche smettere di finanziare, amministrare, commerciare o altrimenti sostenere gli insediamenti o le attività e infrastrutture ad essi collegati.”
Sia il Marocco che Israele sono potenze occupanti che hanno sistematicamente violato i fondamentali diritti umani di coloro che vivono sotto la loro occupazione. Questo comprende il diritto all’autodeterminazione che la comunità internazionale nel suo complesso ha la responsabilità di sostenere. Se si guarda alla documentazione sui diritti umani del Marocco e di Israele, ci si comincia a domandare se l’UE abbia una qualche intenzione di far rispettare la sua “clausola per i diritti umani”.
Oltre le disposizioni degli accordi bilaterali, ci sono principi prioritari di legge internazionale che si collegano direttamente alle relazioni dell’UE con il Marocco e Israele a causa della gravità dei reati implicati. In caso di gravi infrazioni della legge internazionale, tutti gli stati hanno l’obbligo legale di non riconoscere nè di prestare aiuto o assistenza nel mantenere la situazione illegale.
Dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, l’UE l’ha riconosciuta e ha proibito “l’importazione nell’UE di merci che vengono dalla Crimea o da Sebastopoli.” Descrivendo i motivi di questa decisione, il Consiglio ha osservato che “fa parte della politica dell’UE il non riconoscimento che riguarda l’annessione illegale della Crimea e di Sebastopoli e ha dichiarato che non la riconoscerà.”
L’Unione Europea conduce tuttavia commerci con gli insediamenti israeliani illegali. Prestare attenzione a questo commercio non è certo un esercizio di pedanteria, dato che contribuisce a sostenere l’impresa di Israele degli insediamenti. L’UE ha fatto dei passi per mettere in atto le sue responsabilità, per esempio, pubblicare delle linee guida sull’etichettatura dei prodotti dell’insediamento e sull’esclusione dei territori palestinesi occupati (OPT) dai suoi trattati bilaterali con Israele. Come viene però notato in una recente lettera inviata da preminenti autorità legali come John Dugard e Richard Falk ai decisori delle politiche dell’UE, questi passi sono completamente inadeguati. Sostengono invece che: “L’unica misura legalmente corretta è quella di rettificare l’errore nelle relazioni commerciali internazionali, rifiutandosi di commerciare con gli insediamenti. Commerciare con questi costituisce un implicito riconoscimento ed è una violazione della legge internazionale.” In effetti, come ha riconosciuto l’UE nel caso dell’annessione della Crimea, “Non chiediamo nulla di più che la coerenza nell’applicazione della politica dell’Unione Europea di non-riconoscimento”, conclude la lettera.
Mentre i casi del Marocco e di Israele sono simili, almeno sotto un punto di vista, la politica dell’UE rispetto al Sahara occidentale occupato, è molto peggiore. L’UE ha espresso il suo “impegno ad assicurare che – in linea con la legge internazionale – tutti gli accordi tra lo Stato di Israele e l’UE devono inequivocabilmente e esplicitamente indicare la loro inapplicabilità ai territori occupati da Israele nel 1967.” Non c’è però nessun analogo riconoscimento riguardo al territorio occupato dal Marocco nel 1975. Questo è stato chiaramente dimostrato lo scorso dicembre quando la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha deciso di annullare un accordo commerciale con il Marocco esattamente perché non escludeva il territorio del Sahara occidentale occupato. Invece di cogliere l’occasione di sostenere i diritti umani fondamentali di un popolo occupato e di applicare la sentenza della corte che crea un precedente, i ministri degli esteri dell’UE hanno deciso di fare appello contro la decisione.
Ci sono altre due cause giudiziarie pendenti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Una riguarda l’accordo tra UE e Marocco per le industrie ittiche e l’altro per l’etichettatura delle merci che arrivano dal Sahara Occidentale occupato. E’ probabile che l’UE affronterà pressioni sempre più forti per attenersi ai suoi obblighi legali e rettificare i suoi rapporti commerciali sia con Israele che con il Marocco.

sabato 30 gennaio 2016

Multinazionali ed evasione fiscale

Da tempo ci si interroga sulle multinazionali e sulla loro natura con inutili denunce del fatto che spesso e volentieri riescano ad aggirare il fisco. Non solo le multinazionali non creano lavoro e valore nei luoghi dove producono, ma creano anche scompensi enormi nel gettito fiscale, come peraltro evidenziato anche da un premio Nobel come Joseph Stilglitz. Ma evidentemente manca la volontà politica di fermarle, e anzi con il TTIP si andrebbe nella direzione del tutto opposta…
Con qualche anno di ritardo la questione annosa delle multinazionali ora è finita anche sul tavolo della Commissione Ue. Non si potrebbe altrimenti eludere tale problema dato che si chiedono continuamente sforzi economici al popolo, cui però non corrispondono sforzi adeguati da parte dei colossi, che anzi spesso e volentieri riescono a fare i furbetti e a massimizzare i profitti. Si pensi che un’impresa che opera in diversi paesi europei potrebbe arrivare a pagare il 30% di tasse in meno rispetto a una attiva solo in un Paese. Già questo dovrebbe far capire le proporzioni del problema ancor più che sono moltissime queste imprese che passano da una giurisdizione fiscale all’altra cercando sempre e comunque il tornaconto. Si chiama “elusione fiscale” e in questo senso la Commissione Ue ha rilanciato l’impegno a riformare la tassazione societaria per “combattere l’elusione fiscale, garantire la sostenibilità del gettito e rafforzare il mercato unico per le imprese“.
Il tentativo sarebbe quello di riformare la tassazione creando una tassa unica a livello europeo per le multinazionali per andare soprattutto a richiedere il dovuto nei luoghi dove le multinazionali generano gli utili. Del resto ci sono stati casi eccellenti, vedi Apple e Amazon, esempi di grandi colossi che riescono a stringere accordi con i governi locali arrivando a strappare imposizioni fiscale davvero ridicole, vedi il 2% ottenuto dalla Apple in Irlanda. Il coltello del resto lo hanno sempre loro dalla parte del manico dato che le multinazionali sono tra i pochi attori rimasti in grado di assumere lavoratori. Se un governo alza la voce ecco che le multinazionali possono tranquillamente minacciare di andare da un’altra parte, costringendo quindi i governi a concedere tassazioni ridicole. Ora che del problema si occupa anche la Commissione Ue, se non altro, il pubblico può constatare che evidentemente quelli che a inizio XXI secolo protestavano contro lo strapotere delle multinazionali forse avevano le loro buone ragioni. In questo senso proprio la Commissione ha anche pubblicato una sorta di lista nera degli Stati non cooperativi per quanto riguarda le politiche fiscali, e ci sono i soliti nomi: da Hong Kong fino a Monaco, le Maldive, le Bahamas e il Liechtestein.
Anche un premio Nobel per l’Economia come Joseph Stiglitz in passato aveva detto la sua circa il problema delle multinazionali e del fisco: “Le imprese multinazionali agiscono come imprese singole e unificate e pertanto dovrebbero essere soggette a imposizione in quanto tali. È giunto il momento per i nostri governanti di mostrare coraggio e riconoscere la finzione legale del principio di entità separata”. Infatti come dice Stiglitz le multinazionali godono di una sorta di immunità immotivata da parte dei governi che permette loro di avere molteplici identità e soprattutto di suddividere i profitti al di sotto della soglia minima imponibile. “Durante la transizione, le nazioni sviluppate leader dovrebbero imporre la minimum corporate tax, un’aliquota d’imposta minima sul reddito delle grandi società per arrestare la corsa verso il basso e tributi sulle multinazionali come singole società”, ha aggiunto. Ma senza la volontà politica di farlo, crediamo, le multinazionali continueranno a fare il bello e il cattivo tempo, magari arrivando a ricattare i governi chiedendo minori tasse e minori diritti per i lavoratori per creare investimenti e posti di lavoro. Non casualmente sono proprio le multinazionali tra i principali responsabili dell’abbassamento del costo del lavoro in Europa e sono loro stesse tra i responsabili del mancato sviluppo di molti paesi del Terzo Mondo.
Impossibile poi in questo senso non citare il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), un accordo economico tra Ue e Stati Uniti finalizzato in teoria a liberalizzare i mercati di merci e capitali tra Usa ed Europa. In molti ora cominciano a parlarne nonostante finora le trattative siano state condotte in rigoroso segreto per tenere lontano dal dibattito la questione. Secondo molti tale accordo non sarà niente altro che una sorta di gigantesco regalo ai colossi e alle multinazionali, schiudendo la porta a una privatizzazione totale di tutti i servizi pubblici essenziali. Una sorta di trionfo del privato sul pubblico che vedrà ovviamente le multinazionali americane farla da padrone assolute. Dulcis in fundo se il TTIP dovesse venire ratificato un’azienda avrà la possibilità di citare in giudizio uno Stato qualora questo le vietasse di commercializzare i propri prodotti al suo interno. E soprattutto come mai nessuno risponde al perchè i negoziati si sono svolti in gran segreto o comunque lontano dalla stampa e dai riflettori? Insomma tutti a parole si mostrano contrari nei confronti delle multinazionali, quando poi si tratta di prendere misure concrete e di fare delle prove di forza, puntualmente tutti si piegano. Così facendo il rischio è quello che le multinazionali sostituiscano, progressivamente, i governi

venerdì 29 gennaio 2016

DIECI FALSI MITI SULL’UNIONE EUROPEA

Se gli Stati Uniti vogliono essere un buon alleato per le nazioni democratiche europee, devono necessariamente vedere l’Unione europea (UE) per quello che realmente è. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno fatto bene a incoraggiare l’Europa occidentale a commerciare più liberamente e a cooperare per la propria sicurezza, sia per difendersi contro la minaccia sovietica, sia per stabilizzare le fragili democrazie post-belliche della regione. Questa politica ha perso la sua rilevanza dopo la fine della guerra fredda e la rapida democratizzazione di gran parte dell’Europa orientale. A quel punto, gli Stati Uniti avevano ottenuto quello che volevano ottenere dal loro supporto a un’Europa unita e libera.

Ma gli Stati Uniti hanno poi continuato a credere che fosse loro interesse promuovere un’”unione sempre più stretta”, tanto da mettere sempre più a rischio la sovranità dei suoi membri democratici. Con riferimento all’imminente referendum nel Regno Unito sulla sua appartenenza all’UE, ma anche al continuo declino militare ed economico europeo, gli Stati Uniti devono rivedere il loro sostegno per l’Unione Europea. Tale rivalutazione dovrebbe iniziare dal comprendere, e ripudiare, i miti riguardo l’UE che ora offuscano le politiche americane.
Ecco i 10 falsi miti più importanti riguardo l’Unione Europea.
L’UE impedisce le guerre
I fondatori dell’Unione europea, che ha le sue origini nella Comunità europea del carbone e dell’acciaio del 1951, volevano certamente rendere impossibile la guerra tra Francia e Germania. Ma ciò che in realtà ha impedito la guerra nei decenni seguenti il 1945 fu l’accettazione da parte della Germania Ovest della sconfitta (meritata) della seconda guerra mondiale, la creazione dell’alleanza NATO e la soppressione delle rivalità europee da parte delle due super-potenze, gli Stati Uniti e l’URSS. Oggi, non esiste nessun rischio serio di guerra tra gli stati membri dell’Unione Europea. Ciò che lo garantisce non è l’adesione all’UE: è il fatto che i membri dell’UE sono democrazie. Se non lo fossero, l’adesione all’UE non li dissuaderebbe dal combattere.
L’UE è la versione europea degli Stati Uniti
Il mito più comune sull’UE negli Stati Uniti – sentito occasionalmente anche in Europa– è che siamo tronati al 1776: cioè alla creazione di una nuova Unione federale. Questo è un mito particolarmente potente e pericoloso. L’UE non è una federazione, nel quale importanti poteri vengono mantenuti permanentemente da Stati e solo un set definito e necessario è delegato al governo centrale: è un’unione sempre più stretta che punta all’eliminazione progressiva dei poteri dello stato sovrano. Inoltre, i popoli europei non sono un organo politico, un popolo: parlano lingue diverse, hanno culture diverse e hanno storie diverse. A differenza del popolo americano, non sono uniti da una comune lotta per l’indipendenza, una costituzione adottata liberamente, una grande guerra civile e un’enorme mobilità tra gli Stati. Se esiste un’analogia con gli Stati Uniti in Europa, è la Repubblica federale di Germania o il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord – non l’Unione Europea.
L’UE riduce gli estremismi politici
I fondatori dell’UE, come molti americani al tempo, erano naturalmente preoccupati che l’Europa potesse sperimentare un’altra discesa nella follia politica che la inghiottì nel 1930. Essi giustamente credevano che la prosperità dovuta alla cooperazione economica avrebbe aiutato a prevenirlo. Ma oggi, l’UE di fatto incoraggia l’estremismo. Da Syriza in Grecia al Fronte Nazionale in Francia, tutti i movimenti di estrema sinistra ed estrema destra europei sono rafforzati proprio dal risentimento popolare rispetto alle posizioni dell’UE sull’immigrazione e sull’Euro in particolare, e più in generale a causa del suo assalto alla sovranità nazionale.
L’UE fa rispettare le leggi
L’UE è fiera di presentare l’enorme volume di leggi – aquis communautaire – che le nazioni devono adottare prima di poter aderire all’Unione. Ma in realtà, le istituzioni UE non sono legate alle leggi: sono politiche, e il loro obiettivo è quello di far avanzare la causa dell’”unione sempre più stretta”. Ad esempio, il trattato di Lisbona avrebbe dovuto vietare i salvataggi nazionali, ma nel 2010, come ha ammesso l’allora ministro francese dell’economia Christine Lagarde, l’UE “violò tutte le regole perché si voleva serrare i ranghi e salvare davvero la zona Euro.” L’UE non si basa sulla legge: si basa sul potere centralizzato.
L’UE favorisce gli Stati Uniti
L’UE fa finta che gli Stati Uniti e l’UE abbiano un “partenariato transatlantico”. Senza dubbio, le relazioni degli Stati Uniti con le nazioni dell’Europa sono vitali. Ma l’UE non è le nazioni europee. L’asserzione dell’UE che esiste un partenariato riflette la sua disperata ricerca importanza, che spera di ottenere sostenendo di essere abbastanza importante da essere un partner – con l’uguaglianza di status che ciò implica – con gli USA. Inoltre, molti leader politici dell’UE palesano spesso i loro veri sentimenti sugli Stati Uniti: nel 2012, ad esempio, l’allora-Presidente del gruppo inter-parlamentarei USA – UE, un conservatore tedesco, accusò gli “Interessi anglosassoni” di fomentare la crisi dell’Euro con il lancio di una guerra economica contro l’Europa. L’UE si percepisce come entità separata con interessi che a volte coincidono e a volte confliggono con quelli USA. Ma il suo interesse principale è di essere vista come separata – non come un partner o un alleato.
Naturalmente, un sacco di questi miti non sono unicamente americani. Purtroppo, c’è chi ci crede anche in Gran Bretagna, e, naturalmente, molti dei miti sono particolarmente popolari a Bruxelles. Non è una coincidenza: i miti servono a ingigantire l’UE agli occhi europei, britannici, americani e mondiali in generale. Ma non c’è nessuna buona ragione per accettare la generosissima auto-valutazione dell’UE riguardo la sua importanza. Nella seconda metà di questo elenco, passerò alla diplomazia, alla sicurezza, al commercio, all’economia e domande più ampie sul ruolo e sul significato dell’Europa nel mondo.
Nella prima metà di questa lista, ho precisato il cinque miti americani più popolari sull’UE – che ferma la guerra, che è un’Unione federale come gli Stati Uniti, che previene l’estremismo politico, che rispetta la legge e che è pro-USA, ma siamo a meno di metà cammino. Ecco gli altri top-5 miti americani — con un undicesimo bonus, perché l’UE e la mancanza di chiarezza degli Stati Uniti sull’UE, se lo meritano.
L’UE consente all’Europa di avere un ruolo mondiale più importante
L’UE finge di “giocare ruoli importanti in diplomazia, commercio, aiuti allo sviluppo e lavora con le organizzazioni globali.” Cita, ad esempio, “La politica europea di vicinato,” anche se praticamente tutti i paesi che confinano con l’Europa, dall’Ucraina alla la Libia, sono ora in guerra. Ma essenzialmente, l’Unione Europea è un’organizzazione introversa che principalmente si occupa di elaborare le proprie istituzioni. Crea discussioni sulla ripartizione degli oneri interni, non accordi per supportare oneri al di fuori di essa. Essa non promuove il globalismo europeo, ma l’isolamento europeo.
L’UE fa bene alle economie europee
Non c’è dubbio che il libero scambio in Europa sia stato un enorme vantaggio per l’Europa e per il mondo. Ma l’UE non è una zona di libero scambio: si tratta di un mercato gestito, molti dei cui membri condividono una moneta comune. Ma come il Financial Times ha osservato, l’euro “non era necessario per la convergenza economica, anzi è stato nocivo.” Molti dei membri dell’Euro non soddisfacevano le condizioni per appartenervi. Far finta di soddisfarle, più le misure adottate per rimanere nell’Unione monetaria, ha causato enormi sofferenze: la depressione in Grecia oggi, ad esempio, è peggiore della grande depressione americana del 1930. L’UE non promuove la prosperità: fa fatica a rimediare alle catastrofi causate dalle sue stesse politiche sbagliate.
L’UE è utile alla difesa dell’Europa
Le nazioni dell’Europa hanno sostanzialmente e in molti casi scandalosamente, ridotto la spesa militare dopo la fine della guerra fredda. L’UE fa finta che la sua politica di sicurezza e difesa comune permetta agli Stati membri dell’UE di “condividere le proprie risorse e costruire migliori capacità di difesa per agire rapidamente ed efficacemente.” Si tratta di una farsa. Il rapporto di sicurezza tra gli Stati Uniti e l’Europa passa per la NATO: ogni sterlina o euro che i membri dell’Unione europea investono nelle capacità dell’Unione Europea è uno in meno che investono nella NATO. L’unione e condivisione UE, non costruisce una difesa transatlantica: semplicemente giustifica ulteriori tagli per il fatto che la condivisione farà la differenza.
L’accordo TTIP tra UE e Stati Uniti farà grandi cose
L’accordo TTIP, come è comunemente noto, è attualmente in fase di negoziazione. Se veramente rà la libertà economica, potrebbe avere un modesto effetto positivo. Ma al massimo, produrrà circa 160 miliardi di dollari di vantaggi, nel giro di quindici anni, per l’intera Unione Europea. Nel 2014, il PIL dell’UE era di 18.500 miliardi di dollari. In altre parole, il TTIP, nella migliore delle ipotesi, aumenterà le dimensioni dell’economia dell’UE di meno dell’uno per cento. Dato non sufficiente per salvare l’Euro, riavviare la crescita economica dell’Europa, salvare la NATO, aumentare le spese per la difesa europea o raggiungere uno degli altri risultati miracolosi che sono stati predette.
L’UE incarna la civiltà europea
Nel 1946, Winston Churchill chiese la “ri-creazione della famiglia europea,” al fine di ripristinare la pace “nell’origine della maggior parte della cultura, dell’arte, della filosofia e della scienza sia in tempi antichi che moderni.” Churchill voleva che la Gran Bretagna sostenesse la famiglia europea, ma che non ne facesse parte politicamente. La sua visione era di un’Europa restaurata che servisse ancora una volta come fonte della civiltà occidentale. Ma l’UE rifiuta la storia dell’Europa in qua nto storia di guerra, di nazionalismi e di fallimenti: il trattato di Lisbona fa solo riferimenti vaghi al passato dell’Europa e alla sua civiltà, considerandola non come la sorgente della grandezza dell’Europa, ma come un problema che l’UE deve superare.
Falso mito bonus: L’UE migliorerà la sicurezza energetica europea
Oltre a salvare l’euro, la fissazione più recente dell’Unione europea sta nel promuovere una politica energetica comune. Se l’Europa avesse ascoltato Ronald Reagan quando avvertì all’inizio degli anni ‘80 che dipendere dalla Russia per l’energia era pericoloso, la situazione energetica dell’Europa oggi sarebbe meno insicura. E se una politica energetica comune avesse voluto dire più scelta, più concorrenza e una griglia completamente collegata, sarebbe stata sensata. Ma per l’UE, l’obiettivo di una politica energetica comune è di permettere a Bruxelles di avere il controllo armonizzato di un altro settore delle economie europee. Se le nazioni europee avessero voluto fare sul serio riguardo la sicurezza energetica, avrebbero promosso il fracking e il nucleare, non scappando da entrambe queste fonti nazionali di energia come stanno facendo la Germania e troppe altre nazioni continentali.
Lezioni per gli Stati Uniti
Ci deve essere coerenza tra i principi su cui sono fondati gli Stati Uniti e quelli della sua diplomazia. Il più importante di questi principi è che gli Stati Uniti sono una nazione sovrana e indipendente: se gli Stati Uniti non sono liberi di fare le proprie leggi in virtù della Costituzione, non sono per niente liberi. L’essenza dell’Unione Europea, d’altra parte, è di essere un’autorità sovranazionale che ha costantemente imposto vincoli sempre più stretti per le nazioni libere e democratiche dell’Europa.
Se altri popoli desiderano rinunciare al loro diritto a governarsi – anche se tale diritto, essendo intrinseco, è in definitiva inalienabile – sono affari loro. Ma non è una cosa che gli Stati Uniti dovrebbero sostenere, perché è antitetica ai più importanti principi USA. L’UE si fonda su un principio antitetico a quello su cui sono basati gli Stati Uniti.
È certamente possibile per gli Stati Uniti fare affari con l’UE, ma il rapporto non sarà mai una vera partnership perché le parti sono fondamentalmente diverse. E gli Stati Uniti possono fare affari con l’UE in modo efficace solo se prendono atto di quello che l’UE è realmente, non di quello che vorrebbero farci credere i falsi miti. Per quanto riguarda la Gran Bretagna – essa è già meno vincolata dai miti EU rispetto a qualsiasi altro Stato membro. Purtroppo la sua libertà di pensiero non è accompagnata da una simile libertà di governarsi.

giovedì 28 gennaio 2016

Corruzione, Italia penultima in Europa

Sessantunesimi nel mondo, al decimo posto nel G20, in una lista che vede al vertice le nazioni considerate più sane, con un punteggio di 44 punti. Così si classifica l'Italia quanto a corruzione nel settore pubblico e politico secondo l'ultimo rapporto relativo al Cpi, l'indice di percezione della corruzione redatto dal Transparency International. Il dossier è stato presentato a Roma nella sede di Unioncamere da Virginio Carnevali, presidente di Transparency International Italia, Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione, e Ivan Lo Bello, presidente di Unioncamere.
Il dato
Rispetto agli anni passati c'è un leggero miglioramento rispetto ai 43 punti del 2014 quando l'Italia si era piazzata al sessantanovesimo posto su 175, ma non c'è da stare allegri.
Leggendo il rapporto, infatti, il dato è che in una scala da zero (“molto corrotto”) a cento (“molto pulito”) la nostra collocazione resta più vicino alla fascia più negativa, ovvero tra quei paesi dove “la corruzione tra istituzioni pubblici e dipendenti è ancora comune”. Non si può non evidenziare come ci piazziamo significativamente dietro la maggior parte dei membri dell'Ocse, condividendo la sessantunesima posizione con Lesotho, Montenegro, Senegal e Sud Africa. Mentre in Europa a fare peggio è la sola Bulgaria (che l'anno scorso condivideva la nostra stessa posizione), mentre Grecia e Romania ci superano al cinquantottesimo posto, salendo entrambe di ben undici posizioni. E tra le nazioni che ci battono in trasparenza figurano anche Paesi come Botswana (ventottesima), Ruanda (quarantaquattresima) e Ghana (cinquantaseiesima).
A livello di G20 l'Italia si piazza al decimo posto, dopo Canada, Germania, Regno Unito, Australia, Stati Uniti, Giappone, Francia, Corea del Sud e Arabia Saudita.
Nel constatare la leggera inversione di tendenza Virginio Carnevali sottolinea come “la strada è ancora molto lunga e in salita”, anche se vede al futuro con una certa fiducia. Per Ivan Lo Bello "un passo in avanti del nostro Paese nelle classifiche internazionali sulla percezione della corruzione è sempre una buona notizia. Per compiere un salto di qualità importante occorre però un ruolo più forte della società civile che deve acquisire la consapevolezza che un sistema dove è grande la corruzione non crea ricchezza e alimenta profonde distorsioni del mercato”. Spesso si dice che Corruzione e mafia sono facce della stessa medaglia del nostro Paese tuttavia, fino ad ora, non si può dire che le due tipologie di reato siano state messe sullo stesso piano dai governi che si sono succeduti. Una delle proposte più recenti in merito è quella avanzata da Antonio Ingroia e Franco La Torre di estendere la legge Rognoni-La Torre (datata 13 settembre 1982) nei confronti di chi commette anche reati di corruzione e concussione.transaparency classifica 2015 675
Il resto del mondo
“Le proporzioni del fenomeno sono enormi”, sottolinea il rapporto “il 68% dei paesi del mondo ha seri problemi di corruzione e metà del G20 è tra loro”. Se allarghiamo la proiezione a livello mondiale il dossier sottolinea il crollo del Brasile, duramente colpito dal "caso Petrobras", che ha perso 5 punti scivolando dal 69esimo posto al 76esimo, mentre al vertice e in coda alla classifica la situazione rimane pressoché invariata: Somalia e Corea del Nord si confermano anche quest`anno come i Paesi più opachi mentre seguono, risalendo dal penultimo posto, Afghanistan, Sudan, Sud Sudan, Angola, Libia, Iraq, Venezuela a Guinea-Bissau.
Leggendo l'altro lato della classifica i dieci Paesi meno corrotti sono Danimarca, Finlandia, Svezia, Nuova Zelanda, Olanda, Norvegia, Svizzera, Singapore, Canada e Germania, decima a pari merito con la Gran Bretagna.
Nel rapporto viene fatto notare che “cinque dei paesi con il punteggio più basso figurano inoltre tra i dieci mosti meno pacifici del mondo. In Afghanistan, milioni di dollari destinati alla ricostruzione sono stati, scrivono, sprecati o rubati”. Inoltre, “anche quando non sussistono conflitti aperti, i livelli di ineguaglianza e povertà in questi paesi sono devastanti. In Angola il 70% della popolazione vive con due dollari al giorno o meno e un bambino su sei muore prima di compiere cinque anni”. Ciò significa che, complessivamente i paesi poveri perdono mille miliardi di dollari all'anno a causa della corruzione.
Indice di percezione
E' bene tenere in considerazione che l’indice di percezione è calcolato sulla base dei pareri raccolti, non tra i cittadini, ma tra uomini del mondo dell’economia ed esperti nazionali. “La corruzione generalmente prevede attività illegali intenzionalmente occultate, che vengono scoperte sono grazie a scandali, inchieste e processi - spiega Transparency in una nota - “Non esiste un modo affidabile per calcolare i livelli assoluti di corruzione di Paesi o territori sulla base di dati empirici oggettivi”. Comparare il numero di tangenti scoperte o il numero di processi non sempre è una soluzione efficace “perché mostra solo quanto procure, tribunali o media sono efficaci nell’investigare e portare allo scoperto la corruzione”. Ecco quindi che il rapporto di Transparency ci permette di leggere lo stato della “reputazione” del nostro Paese nel mondo, con una ripercussione inevitabile anche sulla nostra economia e sulla nostra società. Migliorare su questo aspetto può essere un percorso lungo e delicato. Un procedimento che passa sì dalle leggi e dalla loro applicazione ma anche da una maggiore consapevolezza da parte dei cittadini e per questo, la diffusione di certi dati, diventa più che mai importante se si vuole arrivare ad un cambiamento costruttivo

martedì 26 gennaio 2016

BANCHE E SANGUE: “QUESTA E’ L’ITALIA CHE RIPARTE

I risparmi degli italiani, mobiliari e immobiliari, già stimati in 8.000 miliardi, da tempo attraggono l’interesse di finanzieri e politici, che già ne hanno preso una discreta parte tra truffe bancarie ed estorsioni tributarie, come ben sanno soprattutto i molti imprenditori che devono chiedere prestiti per pagare le tasse su redditi non realizzati.
Mercoledì 20 ho ascoltato per quasi un’ora il giornalista economico di Radio 24, il quale si meravigliava del fatto che continuano le vendite massicce di azioni delle banche italiane sebbene i loro circa 300 miliardi di crediti deteriorati siano coperti per oltre il 90% da accantonamenti e garanzie. Oggi ( 22.01) i titoli bancari hanno recuperato, ma di ben poco rispetto alle perdite accumulate recentemente. MPS oggi passa da 0,50 a 0,73 – + 0,43%-, ma otto giorni fa era a 1 e otto mesi fa era 9,45!
Quest’anima candida di giornalista economico par non sapere ciò che sanno tutti gli operatori (quindi crederà a Draghi che oggi sostiene che le banche italiane siano solide).
Non sa, innanzitutto, che i crediti deteriorati sono molti di più di quelli dichiarati in bilancio, perché quasi tutte le banche hanno molte sofferenze sommerse, cioè che non dichiarano perché non hanno i soldi per fare I relativi accantonamenti.
Non sa, inoltre, che molti crediti divenuti inesigibili figurano invece a bilancio come a rischio ordinario solo perché il loro ammortamento, cioè la scadenza delle rate, è stato sospeso dalle banche stesse in accordo con i clienti morosi, nel reciproco interesse.
Non sa che molti crediti, apparentemente coperti da idonee garanzie, in realtà sono scoperti, perché le garanzie sono state sopravvalutate ad arte al fine di concedere crediti a compari e a clientele politiche che età inteso che non gli avrebbero rimborsati. O che sono beni sopravvalutati per consentire agli amici-venditori di venderli per un prezzo moltiplicato a compratori fasulli.
Non sa che le garanzie immobiliari acquisita dalle banche a collaterale dei crediti erogati si sono fortemente svalutate e sono divenute pressoché invendibili, fonte più di spese che di recuperi, a causa della quasi morte del settore immobiliare fortemente voluta con la politica fiscale dal governo Monti, sicché le banche, pur avendo sulla carta la possibilità di recuperare i loro crediti vendendo gli immobili ipotecati a copertura, in realtà incasserebbero troppo tardi perché il realizzo possa aiutare a superare la crisi odierna.
Non sa che il sistema bancario italiano non crolla solo perché continua
– a ricevere aiuti (credito gratuito) dalla BCE;
– ad avere la possibilità di realizzare profitti illeciti, ossia solo perché le varie autorità competenti non gli impediscono di continuare;
–ad applicare commissioni illegittime, interessi usurari, anatocismo;
–nonché a collocare titoli-spazzatura o sopravvalutati;
-e, come già detto, a non dichiarare in bilancio tutte le perdite sui crediti.
Tutte queste cose, al contrario, le sa la Banca Centrale Europea, che a giorni manderà i suoi ispettori nelle banche italiane, e si sa già che cosa quindi questi signori troveranno. Ecco il perché delle turbo-vendite massicce anche allo scoperto dei titoli delle banche italiane. Si sa che l’ispezione, se non solo minacciata ma anche rigidamente eseguita (e qui c’è spazio per mediazione politica e il buon senso, ovviamente) potrà portare a un disastro di tutto il sistema bancario e a conseguenze radicali per l’intero Paese. Più dell’arrivo della Troika, di nuove tasse di emergenza per finanziare la bad bank, di un bail in generalizzato, di una legge che ipotechi forzatamente i beni immobili degli italiani a garanzia di qualche prestito di salvataggio da parte del FMI.
E siccome una qualche situazione esplosiva molto probabilmente si realizzerà prima che sia stato instaurato il nuovo, schiacciante sistema di dominio autocratico del premier, cioè la riforma costituzionale ed elettorale del governo Renzi, è abbastanza possibile che il Paese si ribelli. Soprattutto se verrà divulgata la notizia (vedi il sottostante articolo dr Govoni) che gli stessi fondi di investimento e altri investitori istituzionali che stanno conducendo la campagna di svendita dei titoli delle banche italiane, sono quelli che partecipano la Banca d’Italia, le agenzie di rating, e la stessa BCE, la quale adesso manda le ispezioni.
È molto pericoloso che la gente apprenda chi e come le sta portando via il risparmio e la casa e il posto di lavoro e, al contempo, la libertà.

lunedì 25 gennaio 2016

Crescono i minori poveri in Europa, in Italia sono oltre un milione

Sono 570 milioni i bambini che vivono in condizioni di estrema povertà nel mondo e 750 milioni sono vittime di deprivazioni di vario tipo. Più di 950 milioni i minori che rischiano invece di cadere in povertà. All’apertura del World Economic Forum di Davos, Save the children lancia il nuovo rapporto “Povertà minorile nel mondo” che fotografa un fenomeno drammatico e non limitato ai soli paesi a basso reddito: circa il 73% delle persone povere nel mondo vivono infatti in paesi a medio reddito e anche tra i paesi più ricchi le deprivazioni, in particolare sui minori, sono estremamente presenti per molti di loro. Sono 30 milioni i minori che vivono in condizioni di povertà relativa nei paesi Ocse; a rischio povertà ed esclusione sociale il 27% dei bambini nell’Ue, un dato che dal 2008 al 2012 è cresciuto di 1 milione nei paesi dell’Unione Europea, più Svizzera, Norvegia e Islanda. Si tratta nella maggior parte dei casi di bambini che provengono da nuclei monoparentali, spiega il rapporto, hanno genitori stranieri o si trovano in famiglie in cui i genitori hanno forti difficoltà occupazionali.
La povertà minorile in Italia. Insieme a Grecia e Spagna, l’Italia è il Paese che ha più fortemente sofferto la crisi economica e sono più di un milione i bambini che vivono in condizioni di estrema povertà, mentre il 34% sono a rischio povertà ed esclusione sociale. “La disoccupazione e la sotto occupazione degli adulti, accanto al deterioramento dei servizi sociali offerti alle famiglie, è una delle criticità che ha peggiorato le condizioni di vita dei bambini in Italia. – spiega il rapporto - La deprivazione materiale e il crollo degli standard di vita hanno interessato i consumi, la nutrizione, la salute e l’ambiente in cui i bambini si trovano a vivere: stando ai dati, il numero di bambini che ha provato l’esperienza della povertà alimentare sembrerebbe raddoppiato dall’inizio della crisi economica”.
“Una conseguenza della povertà minorile è poi quella dell’aumento della povertà educativa: i minori hanno sempre meno possibilità di partecipare a tutte quelle attività extrascolastiche a pagamento che sono necessarie per la loro formazione. A questa mancanza si aggiunge la difficoltà dei bambini e delle famiglie ad accedere a servizi come il tempo pieno scolastico, la mensa gratuita, l’acquisto di libri e materiale scolastico, che spesso mettono in difficoltà le famiglie e i bambini”, spiega Raffaela Milano, Direttore dei Programmi Italia – Europa di Save the Children. “Questa mancanza di crescita nel percorso educativo dei bambini, rischia di farli entrare in un circolo vizioso che difficilmente li farà uscire dalla condizione di povertà in cui si trovano, incidendo in maniera significativa sul loro futuro e su quello delle generazioni successive. La Legge di Stabilità approvata lo scorso dicembre ha previsto per la prima volta un fondo di contrasto alla povertà educativa e ci auguriamo che divenga quanto prima operativo e che sia il primo passo per l’attivazione di un piano organico di contrasto alla povertà minorile in Italia”.
Il 30% delle persone in povertà vive nei paesi a basso reddito, spesso in conflitto, caratterizzati da insicurezza e vulnerabilità e guidati da governi che a volte sono fragili. La povertà è molto forte soprattutto nelle aree urbane, dove è fortissimo il rischio di sfruttamento, esclusione e difficoltà di accesso all’educazione. Ma la povertà non è un fenomeno limitato ai paesi più poveri o in guerra: circa il 73% delle persone povere - di cui gran parte sono minori - nel mondo vivono nei paesi a medio reddito ed è proprio in questi paesi che la povertà minorile si trasforma più fortemente in esclusione sociale e discriminazione.
Iraq - Foto di Sebastian Rich per Save the Children
Bambini poveri in Iraq - Save the children
Il caso dell’India. Il sistema di caste ha aumentato le disuguaglianze: circa il 25% della popolazione indiana appartiene alle caste più basse e la metà dei bambini poveri ne fa parte, con conseguenze sia sulla salute (i tassi di mortalità infantile raggiungono tra l’88,2 e il 95,7% nelle caste e nelle tribù più marginalizzate, a fronte del 74% del dato nazionale), che sull’accesso all’istruzione e ai sistemi di protezione.
Bambini poveri sono spesso “invisibili”. I bambini più poveri e vulnerabili sono spesso quelli che sfuggono alle statistiche, perché non c’è nessun adulto che si prende cura di loro, quelli senza casa, quelli che vivono in gruppi fortemente stigmatizzati o i minori migranti, sottolinea il rapporto. Le statistiche sulla povertà minorile, legandosi ai parametri monetari dei capofamiglia ( la “misura della povertà assoluta” è spesso espressa con parametri monetari collegati al capofamiglia) per i bambini questo approccio rischia di non essere completo, non tengono infatti conto di tutti i minori soli non accompagnati, che sono invece i bambini che soffrono le forme più gravi di povertà. Si stima pertanto che i dati statistici sulla povertà minorile attualmente disponibili siano sottostimati di oltre il 25%

domenica 24 gennaio 2016

L’Italia procede a due velocità

Dal Rapporto 2015 sulla qualità dello sviluppo, realizzato dalla Fondazione Di Vittorio e dall’istituto di ricerca Tecnè, emerge la fotografia di un paese sempre più spaccato a metà, con grandi e profonde differenze tra Nord e Sud
Un Paese sempre più spaccato in due e che procede a due velocità, con grandi e profonde differenze tra Nord e Sud. Un Paese dove la soddisfazione sulla qualità della vita è calata di 22 punti negli ultimi 10 anni (addirittura 17 negli ultimi 5), a dimostrazione di quanto la crisi economica abbia avuto impatto sulla vita delle persone. È quanto emerge dal “Rapporto 2015 sulla qualità dello sviluppo in Italia”, realizzato dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil e dall’istituto di ricerca Tecnè (leggi il rapporto integrale).
Il rapporto misura lo stato di salute del Paese e le disuguaglianze territoriali, utilizzando 87 indicatori di base, raggruppati in 10 macro-aree di analisi per valutare la qualità dello sviluppo. Qualità delle abitazioni, beni posseduti dalle famiglie, caratteristiche del territorio, condizione di salute degli individui, relazioni amicali e partecipazione sociale, servizi socio-assistenziali e sistema culturale, struttura economica, equità economica, soddisfazione per la qualità della vita.
Da questa analisi risulta che l’indice complessivo della qualità dello sviluppo, utilizzando come base di confronto la media nazionale (indice base Italia = 100), colloca il Nord-Est al primo posto con 111 punti, seguito dal Nord-Ovest (107) e dal Centro (103), mentre il Sud e le Isole si fermano molto più in basso, con l’indice a 87 punti. “È la documentata conferma della necessità e dell’urgenza di una vera politica nazionale per il Mezzogiorno, che, intervenendo su specifici fattori di difficoltà e diseguaglianza, che durante la crisi si sono ulteriormente ampliati, trasformi l’attuale emergenza in un’opportunità”. Così il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, commenta i dati rapporto.
Per il leader della Cgil, “è evidente, invece, il ritardo nelle politiche nazionali, la scarsa interazione con le politiche regionali, la carenza di investimenti, la frammentazione e la dispersione in troppi ambiti degli obiettivi e delle risorse”. “Solo con una robusta crescita nel Sud dell’Italia – conclude Camusso – sarà possibile uno sviluppo più forte e più giusto per tutto il Paese. Anche per questo la Cgil ha messo in campo, con il Piano del lavoro e con Laboratorio Sud, idee e proposte concrete per cambiare questa situazione”.

venerdì 22 gennaio 2016

La violenza di massa

Il caso Cucchi divide. C’è chi, sensatamente, sostiene le ragioni dei familiari della vittima, ma anche chi giustifica a prescindere la polizia con omertosa complicità. Lo stesso accade per avvenimenti simili, in cui si sono verificati degli abusi da parte delle forze dell’ordine (Aldrovandi, Mastrogiovanni, Giuliani, ecc.). I “fatti” di Colonia (anzi, “fatticci” come direbbe Bruno Latour) invece trovano un’unanime indignazione contro i responsabili, anche se questa indignazione viene usata per scopi politici disparati. Stesso discorso per tutti i delitti spettacolarizzati, gli stupri, gli assassini, ecc. Ondate di odio che si scatenano (amplificate grazie alla rete) contro i responsabili, veri o presunti, con punte di violenza e fanatismo francamente ributtanti: pena di morte, torture truculente e giustizie private fantasticate dai leoni da tastiera semianalfabeti cui il livellamento della rete (ma anche di certi talk show) ha dato la stessa dignità intellettuale di un premio nobel per la letteratura. Se, poi, questo colpevole non viene condannato, o anche semplicemente la sua pena detentiva viene abbreviata, le fantasie distruttive raggiungono un parossismo surreale.
In realtà abbiamo in entrambe le situazioni vittime e carnefici. Cucchi era una vittima non meno di una donna che subisce uno stupro o un omicidio. Di stupro e di assassinio si tratta in entrambi i casi, sul piano etico. Ma il fatto che una violenza, per quanto barbara, possa essere commessa da chi dovrebbe difendere tutti dalla violenza, sembra che la renda quasi più accettabile. Allora Cucchi, massacrato di botte da alcuni agenti, in fondo “se l’è cercata”, perché era un “povero drogato”. Mastrogiovanni, internato, legato al letto e fatto morire di fame e di sete, in fondo era solo un anarchico depresso che cercava guai.
Quando il sopruso porta le mostrine può essere legittimato a qualunque atto. Il problema è solo trovare un’autorità proporzionata al delitto che si vuole commettere; un distintivo, per un ragazzo ammazzato, un Gabinetto di Governo, per un paese bombardato. Per quest’ultimo, è quasi più facile trovare giustificazioni (basta ripetere “democrazia, libertà, lotta al terrorismo” tante volte).
La verità è che il pubblico si indigna molto più facilmente per un colpevole che la fa franca che per la condanna di un innocente. Non si tratta tanto di una preoccupazione per la propria sicurezza personale, la quale può essere messa a repentaglio tanto da un criminale a piede libero, quanto da magistrati o da forze di polizia criminali. Che differenza c’è tra essere stuprati da un clandestino ubriaco e venire rinchiusi per anni in una prigione, senza aver commesso alcun delitto? Non è forse anche questo uno stupro? Non rovina forse la vita di una persona allo stesso modo (o forse anche di più perché la vittima viene marchiata per sempre)?
Basta guardare un po’ al di là di tutte le chiacchiere, le urla, i proclami, gli sfoghi, i parossismi di rabbia e si scopre che al pubblico non interessa molto delle “nostre” donne di Colonia o di quelle violentate dall’immigrato (perché se invece è un italiano che violenta una straniera non fa abbastanza notizia) che puntualmente i giornali non perdono occasione di sbattere in prima pagina. Al pubblico interessa solo la garanzia dell’impunità. Avere le spalle coperte. Partecipare all’orgia di sangue (simulata, ma pur sempre orgia di sangue) senza temere conseguenze. C’è la Polizia, il Tribunale, lo Stato, il Governo, la Legge che garantisce! A volte persino la Morale!
Televisione e stampa incitano la sua perversione. Lo inducono a pensare, confusamente: “Ben fatto. Ma se ci fossi stato io avrei fatto ancora meglio”. Solo che mentre prima era un pensiero che non poteva esprimersi, adesso i social media permettono di dare sfogo a queste pulsioni distruttive con la garanzia dell’anonimato.
Come si spiegano, del resto, tutti i riti di purificazione collettiva, le persecuzioni di folle inferocite libere da qualsiasi senso di colpa, perché convinte di stare dalla parte del Bene? L’individuo, confuso in sciami virtuali, è libero di scaricare qualsiasi responsabilità e di riversare tutte le frustrazioni su un unico oggetto. Non è dirimente che i malcapitati siano colpevoli o meno, ma è preferibile che lo siano, o che comunque siano percepiti come tali, perché ciò toglie qualsiasi inibizione. Politici, immigrati, omosessuali, dissidenti, intellettuali, zingari, musulmani. Il bersaglio può variare, a seconda della contingenza storica. Il potere fa convergere la rabbia e il malcontento che esso stesso produce verso obiettivi isolati, emarginati, magari anche, in alcuni casi, colpevoli di qualcosa, difficili da difendere o impossibilitati a difendersi; usa questa frustrazione per eliminare nemici scomodi o ottenere certi scopi non dichiarati.
I media offrono uno strumento formidabile in questo senso. I roghi di streghe sono spesso solo virtuali, ma possono essere un ottimo punto di partenza per quelli reali. La rapidità con il quale l’Occidente è riuscito a passare dalla paura per gli attentati in qualche capitale, al rancore contro l’Islam, all’invasione “umanitaria”, “democratica” dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia o della Siria, resta un fenomeno stupefacente che darà forse molto da pensare agli storici degli anni avvenire.

giovedì 21 gennaio 2016

CROLLANO LE BANCHE ITALIANE, VENDITE ALLO SCOPERTO SOSPESE, SI IMPENNA IL RISCHIO DEFAULT

I titoli bancari italiani stanno crollando (Monte dei Paschi di Siena è scesa del 40 percento dall’inizio del 2016); Reuters riferisce che il nervosismo degli investitori è in crescita, e ci sono dubbi su come il settore bancario italiano potrà cavarsela dati i bassi tassi d’interesse e 200 miliardi di euro di crediti in sofferenza. L’intero settore bancario è sceso del 4 percento e la compravendita di azioni [di alcune banche] è stata sospesa. Alla luce di questo bagno di sangue, l’autorità di regolamentazione italiana nella sua saggezza ha infatti deciso di imporre il divieto di vendite allo scoperto per le azioni di alcune banche (il che ha spinto molti investitori verso il mercato dei derivati CDS, facendo impennare il rischio di credito per il Monte dei Paschi di Siena).
L’indice bancario italiano è sceso di oltre il 4 percento e le azioni di diversi istituti di credito, tra cui quelle della maggiore banca commerciale del paese, Intesa Sanpaolo, e della terza banca del paese, Monte dei Paschi di Siena, sono state sospese dalle compravendite dopo aver subito pesanti perdite.
Ma non preoccupatevi:
L’amministratore delegato di Monte dei Paschi conferma la stabilità finanziaria della banca. Amministratore delegato di Monte dei Paschi: “il crollo delle azioni non è giustificato dai fondamentali”.
Come riporta Reuters:
Gli investitori stanno diventando sempre più nervosi sul modo in cui il settore bancario potrà gestire i bassi tassi d’interesse e i 200 miliardi di euro di crediti in sofferenza.
Queste preoccupazioni stanno cancellando le speranze del programma di consolidamento volto a rimettere in sesto il settore, che prevedeva che le banche cooperative fossero spinte a fondersi assieme, a seguito di una riforma del governo orientata a ridurre il numero degli istituti di credito.
JP Morgan questo mese ha dichiarato che le banche italiane vanno evitate, perché i bassi tassi d’interesse sono destinati a mettere sotto pressione i ricavi più che in altri paesi, e i problemi di credito limitano le previsioni di ripresa.
I trader hanno suggerito di abbandonare gli investimenti che sono stati particolarmente favoriti, come quelli della Popolare di Milano e di Banca Intesa, perché le azioni hanno raggiunto il limite.
“Penso che i rialzi sulle banche cooperative quest’anno siano molto più limitati” ha detto un operatore di borsa con sede a Londra.
Gli interessi a breve della Popolare di Milano sono cresciuti del 50 percento lo scorso mese, arrivando a 1,1 percento, e per UBI sono cresciuti del 10 percento, arrivando a 3,9 percento, secondo i dati Markit.
E adesso l’autorità di regolamentazione italiana ha reimposto il divieto di vendite allo scoperto (che già aveva funzionato tanto bene in passato…)
La Consob ha adottato un divieto temporaneo di vendite allo scoperto per le azioni di Monte dei Paschi di Siena. Il divieto si applica da ora fino alla fine di martedì 19 gennaio 2016.
Il divieto è stato deciso ai sensi dell’Articolo 23 del Regolamento UE sulle vendite allo scoperto, considerando la variazione dei prezzi registrata dalle azioni il 18 gennaio 2016 (che ha superato il 10 percento).
Il divieto si applica anche alle vendite allo scoperto sostenute da operazioni di prestito di titoli. Ciò estende la portata del divieto sulle vendite allo scoperto “naked” [“naked short selling”, cioè vendite allo scoperto su titoli che non si possiedono effettivamente, NdT], già vigente per tutte le azioni dal 1° novembre 2012 ai sensi del Regolamento UE sulle vendite allo scoperto.
Ed è così che gli investitori si sono spostati su altri mercati — facendo impennare il rischio di default dell’intero gruppo bancario, che sta tornando verso i livelli precedenti al famoso “whatever it takes” di Draghi

mercoledì 20 gennaio 2016

IL POTERE BANCARIO DIVORA I SUOI FIGLI

Non sono per prender come puro gioco delle parti il bisticcio Renzi Juncker. Certo quest'ultimo, dicono le cronache, tende a straparlare già dalle 11 del mattino, mentre il nostro presidente del consiglio non ha bisogno di incentivi alcolici per dirne delle sue, tuttavia la crisi è vera. È la crisi crescente di un sistema europeo che fa acqua da tutte le parti, immigrazione e euro in primo luogo. Ma che è impossibilitato a riformarsi per la stessa struttura autoritaria liberista che si è data, nella quale solo la Germania decide in politica economica e la Francia in politica estera. La crisi europea si aggrava poi con la mancata ripresa mondiale, che fa crollare le Borse.
Ma c'è anche il ripartire della crisi italiana, di cui la crisi bancaria e borsistica è solo la spia. Rispetto a cinque anni fa, quando la crisi dello spread sui conti pubblici portò alla destituzione consensuale di Berlusconi e al governo Monti, oggi la crisi è dei conti privati . Le nostre banche hanno crediti inesigibili per trecento miliardi e siccome la ripresa vera c'è solo nella propaganda renziana, il loro buco rischia di diventare uno scoperto devastante. Come nella crisi dei mutui negli USA anni fa.
Dopo aver speso 4000 miliardi per salvare banche inglesi, tedesche e francesi ora la UE dice no ai salvataggi pubblici e impone che le banche del sud Europa si salvino coi soldi dei risparmiatori, È successo a Cipro, si sta facendo in Grecia, è toccato a noi con Banca Etruria. Renzi è stato un bravo soldatino della Troika, ha fatto credere agli italiani che agiva in proprio mentre in realtà eseguiva gli ordini, quelli che sono stati scritti nella lettera Draghi Trichet dell'agosto 2011. Evidentemente ebbro di successi mediatici il presidente del consiglio si è illuso di poter fare in proprio. Si emesso a ciarlare di flessibilità dei conti mantre la crisi ripartiva. Era ovvio che gli sarebbe stato ricordato da quale fonte viene davvero il suo potere.
Chi conosceva Renzi solo pochi anni fa? Chi poteva prevedere che un confuso e pasticcione presidente della provincia di Firenze sarebbe diventato leader supremo del PD e capo del governo? Chi non crede alle favole, almeno in politica, dovrà ammettere che una scalata così improvvisa e veloce è sospetta. Soprattutto se viene in mente un documento della Banca Morgan del 2013 che sosteneva che le Costituzioni antifasciste europee dovessero essere superate, per poter attuare le riforme liberiste necesarei alla finanza internazionale. Grazie all'appoggio dei poteri forti e delle loro televisioni Renzi è diventato quello che è oggi, altrimenti starebbe ancora a sciacquare i panni in Arno. Questo sostegno si è combinato con quello del peggiore presidente della storia della Repubblica, Giorgio Napolitano e cosi Renzi ha dato il via alle riforme che voleva l'Europa delle banche, cioè licenziamenti facili, privatizzazioni, distruzione della Costituzione. Fatto questo lavoro evidentemente il nostro a pensato di poterne rivendicare i meriti e a chiesto all'Europa qualche soldo in più per le propre campagne elettorali. Ma siccome la crisi è ripartita gli è stato subito detto di no: la Costituzione va distrutta, ma il fiscal compact deve essere rispettato...
Cosi il povero Renzi si è trovato sotto lo stesso ingrato fuoco che colpì Berlusconi cinque anni fa: il potere bancario divora i suoi figli.

martedì 19 gennaio 2016

La depenalizzazione di classe di Renzi

Quando un governo depenalizza una serie di “reati” che non sono più tali nel senso comune di un paese nessuno – se non i reazionari da talk show – può dirsi contrario. Naturalmente bisogna vedere quali “reati” vengono cancellati, quali sanzioni vengono stabilite, ecc, altrimenti è fin troppo facile per un governo fare il furbo (come nel caso della depenalizzazione della “coltivazione della cannabis per uso terapeutico non a norma”, che lascia le cose come stanno).
Bisogna dire che il governo Renzi ha dato il meglio di sé, se con questo termine di vuole indicare un'attenzione mostruosa al malaffare e alle tecniche di appropriazione indebita.
Prendiamo un primo blocco riguardante la frode della “fede pubblica”. Vengono depenalizzati infatti “falsità in scrittura privata”, “falsità in foglio firmato in bianco”, “uso di atto falso, atto privato”, “soppressione, distruzione e occultamento di scritture private vere”. Si tratta di una serie di “pratiche” abbastanza comuni tra privati, che riguardano in genere proprietà o promesse di scambio di beni e servizi, o anche obblighi, che vengono usualmente gestite tramite commercialisti, legali, notai. Roba per cui si perdono o si “trovano” discrete sommette tramite una semplice firma (falsa o vera) apposta su un foglio.
Qui sparisce il processo penale e l'eventuale rischio (inesistente) di finire in prigione qualche ora. La sanzione monetaria può oscillare tra i 200 e i 12.000 euro, spesso inferiore alla “conquista” ottenuta con quelle tecniche.
Non si può non notare, anche andando di corsa, la grande attenzione renziana verso quelle imprese che “omettono di versare le ritenute previdenziali e assistenziali”, danneggiando così in un colpo solo i propri dipendenti, le casse dell'Inps (strano, questa volta Boeri non ha ancora profferito parola...) e quelle dello Stato che poi dovrà coprire l'ammanco facendo ricorso alla fiscalità generale.
Ma il capolavoro arriva con la depenalizzazione dell'”impedito controllo ai revisori”. Stiamo parlando di diritto societario, quindi del comportamento di manager aziendali che pongono ostacoli ai revisori dei conti con vari metodi (dall'occultamento della documentazione alla mancata osservanza degli obblighi antiriclaggio). Si tratta di pratiche che accompagnano o seguono, spesso, il falso in bilancio oppure il vero e proprio riciclaggio (commesso da altri, ovviamente, altrimenti ricadrebbe nella fattispecie prevista dal codice). Qui la scomarsa dello spettro del carcere è accompagnata dalla quasi totale cancellazione anche della multa pecuniaria: dai 75.000 euro previsti oggi ai soli 10.000 che scatteranno (forse...) in futuro.
La controprova dell'atteggiamento classista arriva con la depenalizzazione dell'aborto clandestino. Si tratta di un “reato” che in teoria non dovrebbe essere più commesso, visto che da 40 anni c'è una legge che consente l'interruzione di gravidanza presso le strutture ospedaliere pubbliche. Purtroppo, com'è noto, il gran numero di ginecologi che si dichiarano “obiettori di coscienza” fa sì che in molte aree del paese molte donne – soprattutto a basso reddito – siano di fatto impedite dall'accedere alle strutture pubbliche e debbano quindi far ricorso alle “mammane” o agli stessi ginecologi, obiettori in pubblico e “mammani” in privato.
Si dirà: va bene, ma c'è pur sempre una depenalizzazione, e a favore delle donne. Quindi perché indignarsi?
È presto detto. La scomparsa del “reato” penale non fa scomparire la sanzione pecuniaria. La quale, nella vecchia normativa, ammontava ad appena 51 euro. Una misura poco più che simbolica, un riconoscimento indiretto della disperazione in cui si era venuta a trovare quella donna che era ricorsa ad un aborto clandestino.
Ora questa sanzione potrà arrivare a 10.000 euro. Esattamente come quella potrebbe scattare per un manager impegnato a nascondere ai revisori documenti “scottanti”, relativi a un falso in bilancio o a un episodio di riciclaggio.
Se non è classismo conclamato questo...

lunedì 18 gennaio 2016

Gli interventi cronici in Medio Oriente fanno degli Stati Uniti il grande distruttore della libertà

Gli interventi degli Stati Uniti "interminabili" hanno creato nemici che, se non fossero stati attaccati, non avrebbero colpito l'Occidente, ha affermato Bruce Fein in un articolo sul "The Washington Times". "Tutti gli imperi sono uguali. Tutti sono generati dal DNA della specie che bramano il potere per il potere stesso, un problema che persiste immutato dai tempi di Adamo ed Eva." Ha iniziato così il suo articolo Bruce Fein, analista de 'The Washington Times', che ha analizzato la politica estera degli Stati Uniti e il risultato dei suoi interventi.
Fein parla degli interventi "senza fine" degli Stati Uniti che "hanno fatto dei nemici" che non avrebbero attaccato l'Occidente, in assenza di tali attacchi. E per sostenere il suo punto di vista, l'osservatore ha parafrasato lo scrittore Upton Sinclair: "È difficile far capire qualcosa ad una persona, quando il suo stipendio dipende dal fatto di non capirla."
"Miliardi di dollari di ricchezza, potere e lo status sociale sono alla base del nostro complesso militare, industriale, anti terrorista", ha affrmato Fein.
Secondo il giornalista, Gli USA sarebbero un paese molto più sicuro se ritirassero le loro truppe dal Medio Oriente. "I nostri interventi militari cronici, senza uno scopo, in Medio Oriente a sostegno di regimi brutali, corrotti e oppressivi hanno provocato la ritorsioni degli oppressi", ha sostenuto Fein.
"Il nostro stato di guerra, nutrito e alimentato dalla antiterrorismo militare, industriale è il grande distruttore della libertà. Il suo male 'figlio' dello stato di allerta, della bancarotta nazionale, di un governo segreto, e dell'eliminazione di controlli e contrappesi costituzionali"

domenica 17 gennaio 2016

Due terzi schiavo

Questo non vi piacerà. Per la verità, piace poco persino a me. Perché è… vero. Sono veri i numeri. Vere le emozioni. Vero il rimpianto. Vera la consapevolezza. Vero il successo. Vera la sensazione di libertà. Come molti di voi ormai sanno, nel 2014 ho mollato un posto di lavoro prestigioso e dignitosamente retribuito, dopo quasi quindici anni trascorsi nel settore finanziario. A fare cose “serie”, diciamo. Delicate. Strategiche. Responsabilizzanti. Aggettivo ingannevole, quest’ultimo. Perché inevitabilmente… relativo. Relativo al contesto in cui mi trovavo.
Io ero responsabile in quel contesto. Ma ero dannatamente irresponsabile in molti altri. Salto i passaggi intermedi (tutti raccontati nel mio libro), per dire che si arriva così al punto in cui, se alla mattina vuoi continuare a guardarti allo specchio senza abbassare lo sguardo, il salto devi farlo per forza. E infatti lo feci.
Con la fine del 2015, si sta chiudendo il primo anno interamente da outsider. Un anno in cui ho potuto gustarmi una nuova concezione della vita. Una dimensione in cui sono finalmente io a farmi le regole che possono servirmi. La prima e più importante di queste regole si chiama tempo. Non sono più gli altri a scandirlo adesso, ma soltanto io. Questa cosa è impagabile. E per molti aspetti indescrivibile. Credo che abbia intimamente a che fare con il concetto di libertà.
In questi giorni ho rimesso in fila le cose. Le ho ripensate. Rimuginate. Le ho valutate e rivalutate. Con occhi diversi. Con chiavi di lettura che fino ad ora avevo solo sfiorato. Adesso le ho quantificate. E ho paura, adesso. Paura a specchiarmi in ciò che sto per scrivere. Così come dovreste averla voi, paura. Per quello che è stato. E per quello che sarà. O che non sarà.
La questione è semplice: per chi, o per che cosa, si lavora.
Ho elencato tutte e sole le spese che nel 2013, l’ultimo anno intero in cui ho avuto un lavoro salariato, ho sostenuto per… lavorare! Che cioè erano strettamente dipendenti da quel lavoro. Perché funzionali ad esso. Spese piccole e grandi che ero costretto a sostenere per il solo fatto di trovarmi inserito in quel meccanismo. La famosa ruota del criceto, certo. Ho quindi convertito l’ammontare di quelle spese in ore e giorni di lavoro, banalmente dividendole per il mio guadagno netto orario. In pratica, ho applicato alla lettera la filosofia di José Pepe Mujica, in base a cui quando compro qualcosa, non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che mi è servito per guadagnarli.
Vediamo quanto mi sono costate quelle spese necessarie a poter lavorare, allora:
• Bar. Al bar ci andavo tre volte al giorno (prima di entrare in ufficio, a metà mattinata insieme ai colleghi, e in tarda mattinata per un caffè volante), a cui va aggiunta una ricarica settimanale media di 5 euro sulla chiavetta per le macchinette. Nota (per prevenire obiezioni): la spesa del bar non è da considerarsi facoltativa, perché in certi ambienti il bancone del bar è un luogo di lavoro esattamente uguale – se non addirittura più mirato – alla propria scrivania, perché è dove si stringono relazioni con persone di altri uffici e si scambiano informazioni spesso basilari per la propria attività. Totale: 15,2 giorni di lavoro. Dovevo cioè lavorare più di quindici giorni all’anno, solo per potermi finanziare le colazioni al bar…
• Pranzi fuori. Spesa giornaliera eccedente il valore del buono pasto, moltiplicata per 220 giorni lavorativi. Totale: 11,3 giorni di lavoro.
• Cene fuori. Questa voce – è vero – non dipende tecnicamente dal fatto di lavorare: mia moglie ed io avremmo in effetti potuto cenare ogni sera a casa, preparandoci noi qualche manicaretto. Ma… alle dieci di sera? In quanto, rientrando dal lavoro molto tardi, non avevamo né il tempo, né la testa, né la voglia di metterci ai fornelli. I ritmi a cui eravamo sottoposti ci “costringevano” quindi ad andare fuori a cena in media un paio di volte alla settimana. Totale: 22,9 giorni di lavoro.
• Acqua minerale. Questa voce la metto perché all’epoca, sempre per ragioni di tempo, prendevamo l’acqua al supermercato e non – come avviene oggi – gratuitamente all’acquedotto. Totale: 2,6 giorni di lavoro.
• Vacanze. Tema delicato, questo. In quanto, come per le cene fuori, nessuno ci obbligava tecnicamente a fare vacanze dispendiose. Ma, ancora una volta, quando si vive in un certo contesto le vacanze diventano purtroppo un modo per dimostrare di farne legittimamente parte. Una specie di certificato di appartenenza. Ricordo che una volta facemmo un bellissimo giro a piedi di alcuni giorni su un antico tracciato del nostro Appennino, spendendo una cifra irrisoria: il risultato fu che, al lunedì mattina, provai una certa vergogna a comunicare agli altri tale scelta. Ai fini di questo calcolo, considero quindi una vacanza “corposa” all’anno e tre weekend in giro per l’Italia, per un totale di 40,3 giorni di lavoro.
• Abbigliamento. Una delle regole non scritte era un abbigliamento formale piuttosto decoroso. Considero quindi, in media ogni anno, 3 camicie, 2 completi giacca+pantalone, 3 cravatte, 2 paia di scarpe, 1 giaccone o soprabito. Tutto di qualità media o medio-bassa e preso rigorosamente in saldo. Totale: 13,2 giorni di lavoro.
Subtotale fino a questo punto: 105,4 giorni di lavoro.
Poi c’è tutta un’altra serie di altre voci che, sebbene assorbissero importi inferiori, concorrevano sensibilmente a gonfiare la cifra complessiva. Mi riferisco per esempio a: previdenza integrativa (quota della mia retribuzione girata al fondo pensione), carburante per tragitto casa-lavoro (fortunatamente nel mio caso abbastanza modesto), lenti a contatto (possedevo un paio d’occhiali con una montatura del 1992 e, per le ragioni sopra esposte, oltre al dress-code esistevano anche delle convenzioni estetiche), alcuni farmaci o parafarmaci (per piccoli malanni che, guarda caso, da quando non vado in ufficio non mi colpiscono più), quotidiani e riviste (necessarie per aderire – almeno formalmente – a un circuito informativo mainstream, necessario per non sembrare dei disadattati), più altre voci di spesa inferiori.
Bene: includendo anche queste voci, il totale di giorni lavorati soltanto per “finanziare” la mia appartenenza a quel meccanismo sale a 148,7 giorni.
Detta in altre parole, dei 220 giorni lavorativi annuali, circa 150 mi servivano soltanto per restare inserito in quel modello. Senza che mi venisse in tasca niente di più. Niente di cui avessi effettivamente… BISOGNO.
E qui entriamo nella parte più drammatica. Che provo a illustrare aiutandomi con un grafico.
Visivamente fa paura. Dei 220 giorni che la vita mi mette ogni anno comunque a disposizione e che io avevo scelto di dedicare al lavoro salariato, oltre due terzi (67,6%) erano funzionali a mantenere in moto quella ruota! Niente che servisse a me, alle persone che amo, ai miei bisogni, alle mie passioni, alla percezione di un Senso, di un Significato…
Per due terzi del mio tempo, vivevo per lavorare. E ve l’ho appena dimostrato.
Fermatevi, adesso. Fermiamoci un attimo. Ok, ora è perfettamente naturale: in alcuni lettori potrebbe scattare qualche legittima barriera di autodifesa, potrebbe persino sembrare giusto aggrapparsi alle possibili incongruenze dei miei calcoli. Vi risparmio la fatica: ci sono sicuramente delle incongruenze! Come altrettanto sicuramente le mie misurazioni sono state in qualche caso approssimative. Se non altro, in quanto frutto di una valutazione soggettiva. Certamente, la mia condotta non è stata irreprensibile. Certamente, ho ceduto su molti fronti. Avrei potuto evitare qualche cappuccino, qualche cena fuori e persino quel weekend a Volterra. Però adesso domandiamoci: di quanto si sarebbe abbassato l’istogramma rosso, senza quelle incongruenze? Davvero credete che si sarebbe abbassato a sufficienza per… non farci vergognare dei gerani che comunque tutti noi, nel corso degli anni, appendiamo alle sbarre della nostra cella? Se anche quell’istogramma rosso scendesse dal 67% al 50%, potremmo forse ritenerci soddisfatti?
E ora sferriamo il colpo finale. Estendiamo cioè il ragionamento, passando dal particolare all’universale. Dalla vicenda personale mia e di molti di noi ad una sua dimensione sistemica. Guardate, sempre in quel semplicissimo grafico, a cosa corrispondono veramente le due aree: quella rossa (che – ripeto – serve solo per tenere in piedi il meccanismo) e quel surplus verde (che corrisponde al tempo di lavoro con cui ci guadagniamo i soldi da destinare ad altro):
Circa un terzo del tempo che dedichiamo al lavoro serve effettivamente per consentirci di acquistare il cibo, pagare le utenze domestiche, la cultura e, qualora avanzasse qualcosa, mettere due soldi da parte: in pratica, sono i beni di prima necessità.
Ma – ed è qui che vengono i brividi – i due terzi rimanenti servono esclusivamente a mantenere in moto la megamacchina produttiva. Ad alimentare, cioè, il fantomatico PIL! Servono esclusivamente a fornire linfa a quel sistema perverso, autoreferenziato ed autoportante che si chiama libero mercato. I benefici di quei 148,7 giorni di sforzi non erano destinati al mio benessere, ma soltanto a… preservare il sistema.
Ed ecco perché tremano i polsi: perché, su un arco temporale di quasi quindici anni della mia vita, ne ho usati dieci solo per… nutrire il mio carceriere! Fisso quel grafico. E lo fisso ancora. Quasi inebetito. Fino a pietrificarmi. Non riesco a farmene una ragione. E in quanti ci siamo dentro, penso.
Oggi ne sono uscito, è vero (per essere dentro a qualcos’altro). Oggi il mio unico obiettivo è garantirmi l’equivalente monetario di quel surplus verde in alto, quello che cioè serve ad assecondare i bisogni primari miei e della mia famiglia. E’ un obiettivo che sto costruendo pezzo dopo pezzo. Un obiettivo che, soprattutto se alleggerito delle “zavorre rosse” che ci sono sotto, si rivela essere un traguardo assai più raggiungibile.
Lo so, è un pessimo post per concludere l’anno. O forse è ottimo, chi lo sa. Perché la consapevolezza è come al solito il primo passo, se davvero lo vogliamo, per passare poi all’azione.

venerdì 15 gennaio 2016

C’è il rapporto ufficiale: Obama mentì, l’attacco chimico del 2013 fu opera dell’opposizione anti Assad

Ora è ufficiale: l’attacco chimico a Ghouta del 21 agosto del 2013, in alcune aree controllate dai ribelli nei sobborghi orientali e meridionali di Damasco, non fu opera del governo siriano. La notizia arriva direttamente dall’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) che ha confermato che le tracce del gas sarin usato in quell’occasione non sono in alcun modo collegate all’ex riserva di armi chimiche e biologiche controllata dal governo siriano. Il rapporto conferma quanto dichiarato dalle autorità di Damasco secondo le quali responsabile di quell’attacco, così come di altri 11 casi, fosse l’opposizione armata siriana.
Nel 2013 i cosiddetti ribelli e il governo siriano si accusano a vicenda di aver perpetrato l’attacco nei confronti della popolazione civile. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, spalleggiato dall’Arabia Sadita, attribuì la responsabilità di quel crimine ad Assad sulla base di “prove certe” che però non vennero mai mostrate in pubblico. L’attacco degi Usa e degli alleati europei, Gran Bretagna e Francia in testa, sembrava imminente, e venne fermato solo dalla ferma resistenza di Russia, Cina e del Vaticano.
Il rapporto, inoltre, rafforza le dichiarazioni di Ahmed al-Gheddafi al-Qahsi, cugino di Muammar Gheddafi, secondo il quale le armi chimiche usate a Ghouta furono sottratte in Libia e poi contrabbandate in Siria, attraverso la Turchia, dai cosiddetti ribelli sostenuti proprio da Stati Uniti e Occidente. Il rapporto è il frutto di un’indagine condotta dall’OPAC su richiesta del presidente siriano Bashar al-Assad e il governo siriano.
Il responsabile dell’organizzazione, Ahmet Üzümcü, ha confermato che le tracce di sarin rinvenute nel sangue delle vittime avevano una caratteristiche diverse da quelle contenute nell’arsenale chimico di Damasco. L’attacco del 2013 fu devastante: secondo i dati più recenti i morti furono circa 1400, quasi tutti civili.
L’arsenale chimico siriano è stato completamente distrutto, in modo sicuro, in Norvegia. Di quelle scorte non vi è più traccia. E’ invece possibile, come sostengono alcune fonti non governative, che altre scorte siano finite in mano all’opposizione armata, compresi i jihadisti dello Stato Islamico. Prima del 2013, l’esercito siriano aveva sequestrato in un ospedale da campo vicino a Latakia una serie di agenti chimici che i cosiddetti ribelli avevano intenzione di utilizzare per poi attribuire la responsabilità al governo siriano. Una notizia confermata anche dall’agenzia internazionale.

giovedì 14 gennaio 2016

La Russia spezza il monopolio di Wall Street sul prezzo del petrolio

La Russia ha appena compiuto passi significativi rompendo l’attuale monopolio di Wall Street sul prezzo del petrolio, almeno per una parte enorme del mercato mondiale del petrolio. La mossa è parte di una strategia a lungo termine per dissociare l’economia russa, e soprattutto la notevole esportazione di petrolio, dal dollaro, tallone d’Achille dell’economia russa. A novembre il Ministero dell’Energia russo annunciava la negoziazione di un nuovo punto di riferimento del petrolio russo. Anche se questo potrebbe sembrare poca cosa a molti, è enorme. In caso di successo, e non vi è alcuna ragione che non accada, i futuri contratti di riferimento del greggio russo negoziati in borsa russa saranno in rubli e non più in dollari USA. Rientra nella de-dollarizzazione che Russia, Cina e un numero crescente di altri Paesi hanno iniziato. L’imposizione del prezzo di riferimento del petrolio è al centro del metodo utilizzato dalle grandi banche di Wall Street per controllare i prezzi mondiali del petrolio. Il petrolio è il più grande dei prodotti del mondo in dollari. Oggi, il prezzo del greggio russo fa riferimento a ciò che viene chiamato prezzo del Brent. Il problema è che il Brent, insieme ad altri importanti giacimenti di petrolio del Mare del Nord, è in grave declino, il che significa che Wall Street può usare un punto di riferimento evanescente controllando quantità di petrolio di gran lunga superiori. L’altro problema è che il contratto Brent è controllato essenzialmente da Wall Street i cui derivati sono manipolati da banche come Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP MorganChase e Citibank.
La scomparsa del ‘petrodollaro’
La vendita del petrolio in dollari è essenziale per sostenere il dollaro USA. A sua volta, il mantenimento della domanda di dollari delle banche centrali mondiali per le riserve valutarie, necessari al commercio estero di Paesi come Cina, Giappone o Germania, è essenziale affinché il dollaro degli Stati Uniti resti la principale valuta di riserva mondiale. Questo status di valuta di riserva principale del mondo è uno dei due pilastri dell’egemonia statunitense dalla fine della seconda guerra mondiale. Il secondo pilastro è la supremazia militare mondiale.
Le guerre degli Stati Uniti finanziate dai dollari degli altri
Poiché tutte le altre nazioni devono acquisire dollari per l’importazione di petrolio e della maggior parte delle altre materie prime, Paesi come Russia o Cina investono in genere il surplus commerciale delle aziende che guadagnano dollari, sotto forma di titoli di Stato degli Stati Uniti o simili. L’unico altro candidato abbastanza grande, l’euro, dalla crisi greca del 2010 è visto più rischioso. Il ruolo di riserva principale del dollaro USA, dall’agosto 1971, quando si staccò dall’oro, ha sostanzialmente consentito al governo degli Stati Uniti di avere deficit di bilancio apparentemente senza fine e senza doversi preoccupare dell’aumento dei tassi di interesse, avendo un credito scoperto permanente nella vostra banca, permettendo a Washington di creare un debito federale da 18600 miliardi di dollari senza grande preoccupazione. Oggi il rapporto tra debito pubblico e PIL degli Stati Uniti è del 111%. Nel 2001, quando George W. Bush salì al potere e prima che migliaia di miliardi fossero spesi per la “Guerra al Terrore” afghana e irachena, il rapporto debito e PIL era solo la metà, il 55%. L’espressione tipica di Washington è che “il debito non ha importanza”, per il presupposto che il mondo, Russia, Cina, Giappone, India, Germania, ne comprerà sempre il debito con i loro dollari del surplus commerciale. La capacità di Washington di detenere la valuta di riserva principale, priorità strategica di Washington e Wall Street, è vitale essendo legata alla determinazione dei prezzi mondiali del petrolio. Fino alla fine degli anni ’80 i prezzi mondiali del petrolio erano decisi soprattutto da domanda e offerta quotidiane reali. Dipendeva da acquirenti e venditori di petrolio. Allora Goldman Sachs decise di acquistare la piccola intermediaria in materie prime di Wall Street J. Aron, guardando al traffico di petrolio scambiato sui mercati mondiali. Fu l’avvento del “petrolio di carta”, negoziati dei contratti futures di petrolio, indipendentemente dal commercio del greggio fisico, più facile per le grandi banche da manipolare secondo voci e derivati ingannevoli sul mercato, essendo una manciata di banche di Wall Street a dominare i futures sul petrolio, e sapendo chi deteneva quali posizioni, un conveniente ruolo da insider raramente menzionato dalle società educate. Iniziò la trasformazione del commercio del petrolio in un casinò dove Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP MorganChase e poche altre banche giganti di Wall Street mandarono in rovina i corsi. All’indomani dell’aumento del prezzo del petrolio OPEC, nel 1973, di circa il 400% nei primi mesi successivi alla guerra del Kippur dell’ottobre 1973, il Tesoro degli Stati Uniti inviò un alto emissario a Riyadh, in Arabia Saudita. Nel 1975, l’assistente del segretario al Tesoro statunitense, Jack F. Bennett, fu inviato in Arabia Saudita per garantire l’accordo con la monarchia saudita a che il petrolio dell’OPEC venisse negoziate solo in dollari statunitensi, non in yen giapponesi o marchi tedeschi o altro. Bennett divenne poi alto dirigente dell’Exxon. I sauditi ebbero maggiori garanzie ed equipaggiamenti militari in cambio e da allora, nonostante i grandi sforzi dei Paesi importatori di petrolio, il petrolio viene venduto sui mercati mondiali in dollari ed il prezzo è fissato da Wall Street tramite il controllo delle borse dei derivati futures, come Intercontinental Exchange o ICE di Londra, la borsa sullo scambio delle merci NYMEX di New York, o il Dubai Mercantile Exchange, punti di riferimento dei prezzi del greggio arabo e tutti di proprietà di un gruppo affiatato di banche di Wall Street, Goldman Sachs, JP MorganChase, Citigroup e altre. L’allora segretario di Stato Henry Kissinger avrebbe dichiarato: “Se si controlla il petrolio, è possibile controllare intere nazioni“. Il petrolio era al centro del sistema del dollaro dal 1945.
L’importanza del punto di riferimento russo
Oggi i prezzi delle esportazioni di petrolio russo sono decisi dal prezzo del Brent quotato a Londra e New York. Con il lancio della borsa della Russia, si avrà un cambiamento probabilmente molto drammatico. I nuovi contratti sul greggio russo in rubli, e non dollari, saranno negoziati dalla International Mercantile Exchange di San Pietroburgo (SPIMEX). Il contratto di riferimento Brent sono utilizzati attualmente per il prezzo non solo del greggio russo, ma anche per decidere il prezzo di oltre due terzi del petrolio sul mercato internazionale. Il problema è che la produzione del Mare del Nord della miscela Brent è calata oggi a soli 1 milione di barili, fissando il prezzo del 67% del petrolio internazionalmente scambiato. I contratti sul petrolio in rubli russi potrebbero intaccare notevolmente la domanda di dollari, una volta accettati. La Russia è il maggiore produttore di petrolio del mondo, quindi la creazione di una borsa del petrolio russo, indipendente dal dollaro, è significativa, per usare un eufemismo. Nel 2013 la Russia ha prodotto 10,5 milioni di barili al giorno, un po’ più dell’Arabia Saudita. Poiché il gas naturale è utilizzato principalmente in Russia, il 75% del petrolio può essere esportato. L’Europa è di gran lunga il principale cliente del petrolio della Russia, acquistando 3,5 milioni di barili al giorno o l’80% del totale delle esportazioni petrolifere russe. La miscela degli Urali, una miscela di varietà di petrolio russo, è il principale tipo di petrolio esportato dalla Russia. I principali clienti europei sono Germania, Paesi Bassi e Polonia. Mettendo in prospettiva la mossa della Russia, gli altri grandi fornitori di greggio dell’Europa, Arabia Saudita (890000 barili al giorno), Nigeria (810000 barili al giorno), Kazakistan (580000 barili al giorno) e Libia (560000 barili al giorno), sono molto indietro rispetto alla Russia. Inoltre, la produzione nazionale di greggio in Europa è in rapido declino. La produzione di petrolio dell’Europa è scesa appena sotto i 3 Mb/g nel 2013, a seguito del costante calo nel Mare del Nord, base del parametro di riferimento del Brent.
La fine dell’egemonia del dollaro è un bene per gli Stati Uniti
La mossa russa sul prezzo in rubli delle grandi esportazioni di petrolio sui mercati mondiali, in particolare l’Europa occidentale, e sempre più verso Cina e Asia attraverso l’oleodotto ESPO e altre vie, con la nuova borsa del petrolio russo International Mercantile Exchange di San Pietroburgo, non è l’unica grande mossa per ridurre la dipendenza dei Paesi dal dollaro sul petrolio. All’inizio del prossimo anno, la Cina, secondo maggiore importatore di petrolio al mondo, prevede di lanciare il proprio contratto di riferimento petrolifero. Come i russi, il punto di riferimento della Cina sarà denominato in yuan cinesi, e non in dollari, e sarà negoziata dall’International Energy Exchange di Shanghai. Passo dopo passo, Russia, Cina e altre economie emergenti adottano misure per ridurre la dipendenza dal dollaro statunitense, la “de-dollarizzazione”. Il petrolio è il maggiore prodotto commerciato al mondo e quasi interamente in dollari. Se alla fine sarà così, la capacità del complesso militare-industriale degli Stati Uniti di finanziare guerre infinite sarà nei guai. Forse aprirà alcune porte a idee più tranquille, come spendere i dollari dei contribuenti per la ricostruzione delle terribilmente deteriorate infrastrutture economiche basilari degli USA. L’American Society of Civil Engineers nel 2013 stimava in 3600 miliardi di dollari di investimenti necessari per le infrastrutture degli Stati Uniti nei prossimi cinque anni. Indicava che un ponte su 9 negli USA, più di 70000, è deficitario. Quasi un terzo delle strade principali degli Stati Uniti sono in cattive condizioni. Solo 2 dei 14 principali porti della costa orientale possono accogliere le supernavi da carico che presto attraverseranno il Canale di Panama recentemente ampliato. Vi sono oltre 14000 miglia di ferrovie ad alta velocità nel mondo, ma alcuna negli Stati Uniti. Questo tipo di spesa per le infrastrutture sarebbe fonte economica di gran lunga più vantaggiosa in posti di lavoro e gettito fiscale reale negli Stati Uniti, delle guerre infinite di John McCain. Gli investimenti in infrastrutture, come visto nei precedenti articoli, hanno effetto moltiplicatore creando nuovi mercati. Le infrastrutture creano efficienza economica ed entrate fiscali pari a 11 per ogni dollaro investito per rendere più efficiente l’economia. Un drammatico declino del ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale, assieme a una ridefinizione nazionale di tipo russo, della ricostruzione economica interna statunitense, piuttosto che l’esternalizzazione, sarebbe un modo notevole di riequilibrare un mondo impazzito con la guerra. Paradossalmente, la de-dollarizzazione, negando a Washington la capacità di finanziare guerre future con l’investimento nel debito del Tesoro USA da parte di acquirenti di obbligazioni cinesi, russi e altri, sarebbe un prezioso contributo alla pace mondiale. Non sarebbe un bel cambiamento?

mercoledì 13 gennaio 2016

Confessioni di un bancario: "In banca niente è privo di rischi e la vendita di prodotti non adeguati è la normalità"

Lavoro per un grande gruppo bancario italiano e faccio il gestore. In parole semplici sono uno di quelli che vi trovate dietro la scrivania quando volete aprire un conto corrente, quando chiedete un prestito o un mutuo e soprattutto quando volete investire i vostri risparmi.
Da quando è scoppiato lo scandalo del decreto “salva banche” e sopratutto dopo il suicidio del pensionato che ha perso tutti i suoi risparmi, nelle filiali è un continuo via vai di clienti che vogliono essere rassicurati rispetto ai propri investimenti. Sono giorni che sento i colleghi ripetere sempre la stessa storiella, che poi è quella suggerita dall’azienda e ripetuta dai giornali, ovvero che il problema è circoscritto, che i nostri clienti non corrono nessun rischio e che alla fine coloro che hanno perso i propri risparmi li hanno persi o perché sono degli ingenui e hanno firmato senza leggere oppure perché sono stati avidi e hanno sottoscritto prodotti rischiosi per ottenere mirabolanti rendimenti.
Questa però per l’appunto è una storiella che non rispecchia assolutamente la realtà dei fatti e pertanto, preso dalla rabbia, ho scritto sei verità su come le banche gestiscono i piccoli risparmiatori che difficilmente televisioni e giornali vi racconteranno.
1. Le vittime dei piani di “salvataggio” sono per lo più piccoli risparmiatori. La maggior parte di questi sono pensionati con depositi fino a 100.000 euro, frutto solitamente della liquidazione e dei risparmi di una vita. Sono i soldi che speravano di dare ai figli per comprare casa e metter su famiglia oltre ad essere una garanzia per la propria vecchiaia.
2. I soldi dei risparmiatori non erano stati investiti in prodotti altamente speculativi come i derivati, ma in semplici obbligazioni subordinate, ovvero obbligazioni che danno un rendimento leggermente superiore alla miseria che danno i “normali” bond ma che, pochi sanno, in caso di default dell’emittente mettono chi li detiene in fondo alla lista dei creditori. Per chi non è del mestiere l’aggettivo “subordinato” vuol dire poco e niente e se in banca non te lo spiegano correttamente sei convinto di comprare un titolo obbligazionario tradizionale.
3. Non è vero che i prodotti venduti dalle altre banche, in particolare le grandi, sono privi di rischi. In questi anni gli istituti di credito hanno convinto, o meglio costretto, i clienti a dirottare i propri risparmi dall’amministrato al gestito. In pratica se prima la stragrande maggioranza dei piccoli risparmiatori aveva in portafoglio obbligazioni che garantivano a scadenza il capitale investito e rendimenti solitamente predeterminati (sistema "amministrato"), ora invece hanno quote di fondi che per definizione non danno nessuna garanzia (sistema "gestito"). Il risparmio è stato dirottato dall’amministrato al gestito perché quest’ultimo garantisce profitti più alti alle banche, anche se comporta rischi molto maggiori per i clienti.
4. Negli istituti di credito la vendita alla clientela di prodotti non adeguati non è un fatto sporadico, ma la normalità. Se si facesse una corretta profilatura dei clienti sulla base delle loro conoscenze in ambito finanziario non si potrebbe vender loro null’altro che titoli di stato e obbligazioni emesse dalle banche. I questionari di profilatura vengono di fatto compilati dai gestori e fatti firmare ai clienti alla cieca spesso senza consegnare loro le “copie cliente”. In quasi 10 anni di attività non ho mai, e dico mai, visto un cliente leggere un contratto di servizi di investimento, un prospetto o una scheda prodotto prima di sottoscrivere un investimento. In questi anni i provvedimenti adottati in tema di trasparenza hanno solo aumentato a dismisura le “carte” da siglare rendendo ancor più difficile per il cliente leggerle prima di firmare. Parliamo per intenderci di contratti di 50 e più pagine redatte in un carattere piccolo, quasi illeggibile e per giunta scritte in un linguaggio per addetti ai lavori. Tenete poi presente che le operazioni di investimento si chiudono mediamente in poche decine di minuti, raramente si va oltre la mezzora.
5. Chi entra in banca per fare un investimento trova sopra le scrivanie la scritta “Consulenza”. Quelli che stanno dall’altra parte del tavolo però non sono consulenti indipendenti ma personale pagato per vendere quei prodotti che la banca gli ordina di vendere. Quando si va a comprare una qualsiasi cosa si è pienamente coscienti che il negoziante ha tutto l’interesse a vendere la sua mercanzia a prescindere dalla qualità e dalla convenienza della merce, ma per un inspiegabile timore reverenziale in banca non è così. I clienti, se invece dell’insegna “pescheria” trovassero scritto “consulenza ittica”, scoppierebbero a ridere, mentre quando entrano in filiale non battono ciglio e non si accorgono del colossale conflitto di interesse delle banche che affermano di fare consulenza e contemporaneamente vendono i propri prodotti. Che il lavoro in banca non fosse un lavoro da contabile e tantomeno da consulente me ne sonno accorto prima ancora di essere assunto. Tanto per iniziare per accedere al concorso non c’era bisogno di avere un titolo di studio attinente al campo bancario. Soprattutto, però, durante tutte le prove a cui sono stato sottoposto non si è mai trattato di materie di ambito finanziario, ma sono state testate esclusivamente le mie capacità commerciali. Potevi anche non sapere cosa fosse un conto corrente o un bonifico, l’unica cosa importante per essere assunto era che fossi uno capace “di vendere ghiaccio agli eschimesi”. D’altronde il contratto di apprendistato utilizzato nel settore del credito è formalmente finalizzato alla formazione di addetti commerciali.
6. Nonostante tutto questo non immaginatevi i bancari come persone senza scrupoli che godono a fregare la gente. La realtà del lavoro in banca è molto diversa da quello che normalmente si immagina. Gli impiegati più giovani hanno retribuzioni sostanzialmente identiche ai loro coetanei del settore privato, ma sopratutto secondo numerosi studi i lavoratori del credito sono tra i più stressati. Siamo sottoposti ad asfissianti pressioni commerciali, a un costante mobbing tanto che molti soffrono di attacchi di panico e anche i giorni di malattia spesso sono dovuti a una qualche forma di “esaurimento”. Ormai tutta l’organizzazione interna alle banche è finalizzata al commerciale. Gli stessi direttori di filiale non decidono quasi più nulla e il loro ruolo è quello di controllare e pressare i dipendenti. I report sul raggiungimento degli obiettivi arrivano due volte al giorno e se non sei in trend sulla settimana, sul mese, sull’anno sono cazzi. Invece di rafforzare gli organici operativi (da sempre caratterizzati da carenze) le banche preferiscono aumentare le figure dedicate esclusivamente al monitoraggio delle vendite e ad intervenire in caso di scostamento da quelli che sono gli obiettivi prefissati. Si è creato così un piccolo esercito di quadri direttivi impegnati dalla mattina alla sera a pungolare e spesso ad umiliare chi secondo loro non contribuisce adeguatamente ad aumentare la redditività dell’azienda. Mentre per i normali dipendenti ormai i premi sono una chimera, a questi moderni capetti le banche, in caso di raggiungimento degli obiettivi, garantiscono incentivi che possono arrivare anche a diverse decine di migliaia di euro. Con queste prospettive di guadagno e solo una cinquantina di persone da controllare immaginate che tipo di pressioni possono esercitare su chi è poi effettivamente a contatto con la clientela. E’ proprio per sfuggire alle pressioni, ai cazziatoni e alle umiliazioni che i bancari vendono ai clienti prodotti non adeguati.
Per tutelare realmente i piccoli risparmiatori sono poche le cose da fare:
Obbligare le banche a comunicare ai clienti che quella da la loro svolta non è un attività di consulenza ma un attività strettamente commerciale.
Ridurre la documentazione da sottoscrivere in caso di investimenti e mettere in rilievo le caratteristiche dei prodotti che realmente interessano i clienti ovvero il grado di rischio, la presenza o meno di garanzia del capitale e le prospettive di rendimento.
Vietare che lo stipendio dei lavoratori, dei quadri direttivi e dei dirigenti bancari sia legato anche solo in minima parte al conseguimento di obiettivi commerciali.
Infine la cosa più importante: le banche devono essere in mani pubbliche. Fin quando le banche dovranno distribuire utili agli azionisti e stare sul mercato i piccoli risparmiatori saranno sempre e solo vacche da mungere.

martedì 12 gennaio 2016

Come difendersi dall’albero marcio della finanza-truffa

C’è un piccolo paese dell’entroterra toscano, in cui un’intera comunità di trecento famiglie si è trovata in una notte con i risparmi di una vita totalmente azzerati. E con la drammatica scoperta che quel funzionario di quell’unica banca che incontravano tutti i giorni – che nella comunità locale era uno dei punti di riferimento cui affidarsi – li aveva coinvolti in un giro di investimenti ad alto rischio, finito nel peggiore dei modi. Naturalmente, quel funzionario non era diventato improvvisamente malvagio: stava solo cercando di eseguire al meglio il suo lavoro, essendo, ormai da anni, la sua efficienza contrattualmente misurata in base a quanti prodotti finanziari aveva collocato presso i propri concittadini. Vero è che fino al 2009, quando una banca proponeva ad un cittadino un investimento in obbligazioni subordinate, aveva l’obbligo di comunicare gli scenari probabilistici dello stesso. Ma sono arrivati gli anni della crisi, e il mandato di Bankitalia ad una forte ricapitalizzazione delle banche ha spinto queste ultime, data la fuga dei classici investitori istituzionali, ad inondare i cittadini di prodotti finanziari: ed ecco allora la Consob eliminare prima l’obbligo di comunicazione degli scenari probabilistici, poi, dal 2011, persino la comunicazione facoltativa degli stessi.
Solo per fare un esempio, ai cittadini che hanno investito in obbligazioni subordinate della Banca dell’Etruria e del Lazio nell’ottobre 2013, nessuno ha comunicato una probabilità pari al 62,7 per cento di perdere la metà del capitale. E, Risparmiatore truffatonaturalmente, quanto prescritto dalla normativa europea in merito alla “profilatura del cliente”, ovvero alla sua conoscenza e propensione agli investimenti finanziari, è stato facilmente aggirato, facendo risultare, nell’ultimo caso delle banche coinvolte, il 75 per cento dei cittadini come grandi conoscitori degli strumenti finanziari. Il via libera alle banche verso la spoliazione dei cittadini ha fatto da specchio alle contestuali gestioni del credito da parte delle stesse, che, in molti casi, le ha portate al fallimento. Come sempre, ad ogni scoppio del bubbone, la prima reazione a tutti i livelli è lo scarico delle responsabilità verso l’anello superiore od inferiore della catena, a cui segue una levata di scudi generale in direzione di drastiche misure affinché non accada mai più. Fino all’ormai classica conclusione in cui il nuovo scandalo viene riclassificato nella categoria di “mela marcia in albero sano”.
Che le cose non stiano affatto così ce lo dicono i dati: in questi ultimi sette anni sono oltre 35 i miliardi fatti investire ai cittadini in obbligazioni subordinate e, mentre le quattro banche, ormai famose, vengono salvate dai provvedimenti governativi, sono ad oggi altre 12 quelle commissariate per gli stessi motivi. Per farsi un’idea di cosa sia strutturalmente diventata l’attività di gestione del risparmio, basti vedere cosa scrive Consob (procedimento 20638/14) in merito all’attività di Poste Italiane, ovvero la società a cui si rivolge la parte più semplice dei risparmiatori: «Vendite di prodotti in conflitto di interesse con la rete BancoPosta, strutture commerciali pressate per raccogliere volumi e incentivi legati al budget, forme di marketing scorrette, Marco Bersanipoche e ottimistiche profilazioni di clienti che permettevano al 74,5 per cento di essi di sottoscrivere strumenti complessi (come le opzioni “certificates” su sottostanti cartolarizzati)».
Siamo dunque di fronte ad una crisi “di sistema” che, aldilà delle situazioni specifiche, può essere affrontata solo con proposte sistemiche. La prima delle quali non può che essere una legge che sancisca la netta separazione tra banche commerciali e banche d’investimento (finanza), avviata con un immediato provvedimento di divieto totale di vendita di prodotti finanziari agli sportelli; in secondo luogo, occorre una drastica inversione di rotta sulla trasformazione delle banche popolari in SpA ed una loro reale riforma, che ne sancisca la territorialità, attraverso la gestione partecipativa dei lavoratori e delle comunità locali; il terzo filone non può che riguardare l’inversione di rotta sulla privatizzazione di Poste Italiane e sulla trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti, da avviare con la separazione, e relativa immissione in un circuito pubblico, partecipativo e sociale, del risparmio postale; in quarto luogo, provvedimenti in favore del risparmio etico e della diffusione di tutte le esperienze, anche autorganizzate, che vanno in quella direzione. Perché o si mettono in campo con la mobilitazione diffusa misure che disegnano un’altra società basata sulla mutualità cooperante, o niente e nessuno ci salverà da un modello che ci vuole tutte e tutti immersi nella solitudine competitiva.