venerdì 30 ottobre 2015

Caracas. Gli Stati Uniti cercano i soliti pretesti "umanitari" per intervenire in Venezuela

Il ministro della Difesa della Repubblica bolivariana del Venezuela, Vladimir Padrino López, respinge con "profonda indignazione" le dichiarazioni del responsabile del Comando Sud degli Stati Uniti, John Kelly, il quale aveva annunciato che Washington sarebbe potuta intervenire in Venezuela perché la nazione latinoamericana "è prossima all'implosione".
"L'impero americano" con il pretesto di "difendere i diritti umani e la libertà, mira a creare ancora una volta le condizioni necessarie per intervenire nel nostro paese, utilizzando come pretesto una possibile crisi umanitaria o un presunto crollo economico", ha dichiarato il Ministro venezuelano alla Padrino ha detto citato da Venezolana de Television.
In una recente intervista con la CNN, Kelly aveva detto di pregare ogni giorno per il Venezuela e di essere rimasto preoccupato per il paese sudamericano, con un'economia sull'orlo dell'implosione e un paese che potrebbe affrontare una crisi senza gli aiuti umanitari di emergenza da parte degli Stati Uniti.
Da parte sua, il presidente venezuelano Nicolas Maduro aveva dichiarato martedì che Washington sta "dando l'ordine di cercare di distruggere" la Repubblica Bolivariana e ha chiesto il sostegno dell'America Latina e dei Caraibi alle nuove minacce dell'"imperialismo americano". Rispetto alle dichiarazioni di Kelly, Maduro ha dichiarato che ci sono "segnali preoccupanti di disperazione negli ambienti di destra d'élite imperiale. Il migliore indicatore che siamo sulla strada giusta è la disperazione di coloro che odiano il Venezuela".
Dopo aver riferito di aver avuto un colloquio con il presidente Evo Morales con gli “artigli di nuovo contro il Venezuela", ha concluso: “Pinochet è un bambino alle prime armi rispetto a ciò che gli Stati Uniti sono disposti a fare".
Se solo gli Stati Uniti smettessero di imporre loro presunti valori a suon di colpi di stato morbidi e bombe contro paesi che scelgono una via libera e sovrana, che mondo sarebbe secondo voi?

giovedì 29 ottobre 2015

Tutto già scritto: disoccupazione all’11% fino al 2019

In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».
Lo conferma il documento del Tesoro dell’aprile 2013 sul Nawru, acronimo di “non accelerating wage rate of unemployment”: tasso di disoccupazione d’equilibrio, tarato per non generare pressioni inflazionistiche comprimendo il potere di spesa Vladimiro Giacchèmediante, appunto, il taglio deliberato dei posti di lavoro. Proprio il Nawru ha un ruolo centrale nella determinazione dei “diktat” che la Commissione Europea rivolge ai singoli paesi membri dell’Ue. Il presidente del Centro Europa Ricerche, l’economista Vladimiro Giacché, sul “Sole 24 Ore” osserva: «Dal punto di vista culturale, è interessante notare come il tasso di disoccupazione di equilibrio sia la leva che viene adoperata per garantire l’iper-contenimento dell’inflazione. In molti, in passato, hanno considerato l’Unione Europea un moloch impregnato di keynesismo. In realtà, anche in questo caso prevale l’egemonia del monetarismo francofortese, che mette davanti a tutto e a tutti l’imbrigliamento dell’inflazione», fino all’asfissia programmata dell’economia reale.
Per quanto riguarda il Nawru, conferma il Def del governo Renzi, i parametri sono stati più volte rivisti dalla Commissione, alla luce degli effetti sul mercato del lavoro della prolungata recessione. «Il Nawru è stato pertanto rideterminato verso l’alto, determinando una riduzione nel tasso di crescita del Pil potenziale». Il che significa che il tasso di “disoccupazione di equilibrio”, tale cioè da non generare pressioni inflazionistiche sui salari, «è stato stimato in crescita negli anni della crisi, con una dinamica che, di fatto, ha fatto sì che al crescere della disoccupazione crescesse anche il Nawru». Stefano Sanna esibisce la drammatica proiezione governativa, riassunta in una tabella: la “disoccupazione programmata”, al 12,3% nel 2015, si ridurrà in modo praticamente irrilevante: 11,8% nel 2016, poi 11,4% l’anno seguente, ancora 11,1% nel 2018 e poi 10,9% nel 2019. Non c’è scampo: Bruxelles vuole che i disoccupati, in Italia, restino l’11%. Si tratta di «un piano di distruzione sociale», conclude Sanna: l’obiettivo scritto da questo governo? E’ tecnicamente impossibile da raggiungere, visto che si parla di «contenimento dell’inflazione e crescita del Pil con un tasso di disoccupazione all’11%». Una farsa sfrontata: «E’ la risposta cinica, ma mai comunicata, ai milioni di disoccupati che per anni sono stati (e saranno) presi in giro da ciarlatani di professione».

mercoledì 28 ottobre 2015

Si stanno svendendo i gioielli di famiglia"

Federconsumatori e Adusbef criticano aspramente la logica con cui il Governo sta gestendo la questione delle privatizzazioni, in particolare quella di Poste Italiane. “Si stanno svendendo i gioielli di famiglia, depauperando le risorse a disposizione del futuro dei giovani che vivono peraltro una situazione drammatica relativamente alle questioni attinenti il lavoro e l’occupazione, che si attesta al 42%” scrivono le due Associazioni.
Il punto più critico, cui le Associazioni si oppongono, riguarda le dichiarazioni dei Ministri responsabili secondo cui le risorse della privatizzazione, pari a 3,4 miliardi, non saranno destinate alla crescita né, in alcun modo, restituite ai giovani ai quali stiamo sottraendo un patrimonio, bensì saranno indirizzate al taglio del debito pubblico che, per di più, viene aumentato di ben 14,5 miliardi secondo quanto disposto dalla Legge di Stabilità.
Debito pubblico che, secondo le Associazioni, deve essere abbattuto attraverso una seria spending review di contrasto a sprechi, abusi e privilegi. È un’operazione, quindi, che di certo non aiuta il Paese a fuoriuscire dalla profonda crisi in cui ancora versa e che, a causa di questo drammatico tasso di disoccupazione, costringe le famiglie a sostenere sulle proprie spalle il sostentamento di giovani e meno giovani senza lavoro, con una spesa che l’Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha calcolato pari a circa 400-500 Euro al mese. “Per questo chiediamo un sussulto di responsabilità da parte del Parlamento, affinché si impegni per un impiego mirato e attento delle risorse ricavate dalle privatizzazioni, che dovranno essere destinate esclusivamente al rilancio dell’occupazione”.

martedì 27 ottobre 2015

La Costituzione e le tasse sulla casa

A BRUXELLES si discute in questi giorni la scelta del governo italiano di tagliare le tasse sulla prima casa. Il ministro Pier Carlo Padoan ha riconosciuto che «c’è una tassa oggetto di dibattito» e di dissenso, non solo dentro il Pd. E l’esito di questo dibattito e di questo dissenso è stata la dichiarazione di Matteo Renzi per cui viene abolita la tassa sulla prima casa se la prima casa non è assimilabile a un castello o comunque non è di lusso. Come sappiamo, la rimozione della tassa sulla prima casa ha sempre incontrato resistenze, non solo nella sinistra del Pd, ma anche negli organismi internazionali (l’Fmi, l’Ocse, la Commissione Ue), favorevoli sì a un taglio delle imposte, ma in primo luogo sul lavoro e per incentivare i consumi. E in Italia, come già Mario Monti ebbe a dire quando introdusse l’Imu, la tassa sulla casa è l’unica vera imposta patrimoniale: un tentativo di riequilibrare i divari di ricchezza e un antidoto all’evasione, in quanto nella nostra società le proprietà sono più rintracciabili dei redditi. Vi sono dunque ragioni di equità che hanno motivato la discussione sulla scelta fiscale del governo. Ragioni che mettono in luce la differenza fra proporzionalità (flat tax o imposte piatte) e progressività.
Il principio di progressività è prima di tutto costituzionale. Il secondo comma dell’articolo 53 stabilisce che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Vale la pena menzionare le parole dell’on. Meuccio Ruini, presidente della Commissione che redasse quell’articolo: «Lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a princìpi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività... Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio».
A partire dal 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, leader politici di ogni schieramento, da Ezio Vanoni a Aldo Moro a Sandro Pertini a Enrico Berlinguer, hanno difeso il concetto di perequazione tributaria. Che ai loro occhi era democratico e costituzionale, situato prima di ogni schieramento ideologico. Ezio Vanoni, che fu tra i redattori della Costituzione, considerava essenziale che le leggi stimolassero nei cittadini la consapevolezza del valore morale e sociale dell’obbligo tributario (un’idea che abbiamo sentito ripetere da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro nel secondo Governo Prodi). Queste le parole da lui pronunciate in una seduta parlamentare del 1956: «Possiamo risolvere gran parte dei problemi del nostro Paese e li risolveremo nella misura nella quale sapremo chiedere ad ognuno la sua parte di sacrificio, proporzionata alla sua capacità di sopportazione».
Affidandosi al principio di equità, i Costituenti misero nero su bianco la differenza tra proporzionalità (flat tax) e progressività. Lo scontro tra “proporzionalità” e “progressività” è diventata nel corso degli anni uno scontro sulla funzione pubblica nell’economia, e quindi sull’impegno diretto del governo nel sistema di welfare. Circa dunque la proposta di eliminazione della tassa sulla prima casa, la logica della proporzionalità avrebbe significato che, appunto, chi possedeva una casa signorile avrebbe avuto tanto più da guadagnare (e meno da sopportare) di chi possedeva una casa modesta o popolare o non ne possedeva alcuna. La progressività è non questione ideologica dunque, bensì di equità e di coerenza con la Costituzione.
Il primo comma dell’articolo 53 ci dice infine che alle ragioni di equità si affiancano ragioni di giustizia, il nucleo della lotta all’evasione, una battaglia di buon governo: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva ». Ha detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che mentre rivede la posizione sull’abolizione della tassa sulla prima casa, non la rivedrà sul limite del contante, che passerà da mille a tremila euro. E che questa decisione non lascerà una porta aperta all’evasione, aggiungendo che pagare meno tasse dovrebbe essere l’obiettivo cui tendere, stimolando comportamenti virtuosi.
Sarebbe ragionevole pensare che se tutti pagassero le tasse, tutti potrebbero pagare meno. Ma la logica ipotetica qui non aiuta molto; le decisioni politiche devono partire da quel che c’è per poter incentivare comportamenti virtuosi e scoraggiare quelli opposti. Nella direzione della lotta all’evasione è andata la scelta degli ultimi governi, e anche di questo, se è vero che Padoan stesso, tempo fa, aveva sostenuto che «la scelta di limitare la circolazione del contante e di procedere ad un progressivo abbassamento della soglia, è motivata dall’esigenza di fare emergere le economie sommerse per contrastare il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e l’elusione fiscale ». Ciò di cui il nostro Paese ha bisogno è quindi tornare alla Costituzione, la quale in un articolo solo ci ricorda che equità e legalità stanno insieme.

lunedì 26 ottobre 2015

Che silenzio assordante sull’Italia colonialista

Nell’autobiografia delle vergogne nazionali è rimasto sullo sfondo, come una fotografia imbarazzante. Italiani che non sposano le nere. Di più: non frequentano gli stessi locali e gli stessi luoghi di lavoro. E ai “meticci”, figli della colpa, impediscono ogni diritto: di essere riconosciuti dal genitore cittadino o di andare a scuola con i colonizzatori bianchi. Quello impiantato negli anni Trenta in Africa Orientale fu l’impero più razzista, più sistematicamente vessatorio e divisivo, tra quasi tutti i regimi coloniali delle potenze europee. È la tesi sostenuta da Nicola Labanca, studioso dell’espansione coloniale, nel suo nuovo libro che documenta la costruzione in Etiopia, Eritrea e Somalia di un razzismo legalizzato in anticipo di un anno e mezzo sulle leggi antisemite adottate nella penisola. Un altro colpo inferto al mito degli “italiani brava gente”.
Il saggio di Labanca ha anche il merito di sottrarre la guerra d’Etiopia alla veste un po’ stretta di impresa coloniale, collocandola all’interno di un gioco di interessi internazionali che sfoceranno nella seconda guerra mondiale. E guarda a quella vicenda anche con gli occhi di uomini e donne africani vessati dalle nostre pretese imperiali: ancora troppo poco sappiamo degli amministratori coloniali costretti a improvvisare la gestione di un impero sproporzionatamente grande, tra buona volontà, inesperienza e talvolta malafede. Una rimozione testimoniata anche dal silenzio che ha avvolto in queste settimane l’ottantesimo anniversario della guerra d’Etiopia, in un paese che ha fatto degli anniversari il nuovo totem memoriale. Certo è difficile essere fieri della legislazione che il 19 aprile del 1937 diede avvio alla istituzionalizzazione del razzismo, con il divieto di relazioni matrimoniali con gli indigeni. Una norma che allora non turbò le coscienze, in linea con “la superiorità civile e morale” dell’uomo bianco sull’uomo nero.
La norma del 1937 segnò il principio di un nuovo canone razzista che secondo Labanca ha poche analogie con il resto del mondo coloniale. Non che gli altri imperi si distinguessero per liberalità e inclusione, essendo la separazione razziale pratica quotidiana. Ma ciò che distinse gli italiani fu la traduzione in norma codificata di quella che altrove rimase una consuetudine. E in una classificazione generale di razzismo coloniale che va dal silenzio omertoso di tanti sistemi giuridici alle gerarchie razziali degli spagnoli in America Latina (fondate su un’inventata limpieza de sangre ), l’Italia si mostra molto più vicina alla «brutale semplificazione binaria del sistema sudafricano » (nel dopoguerra si sarebbe chiamato apartheid). Solo nel 1947 ci saremmo liberati di quelle leggi ingombranti. A condizione però di non parlarne più.

domenica 25 ottobre 2015

Lo zero assoluto tra scontrini e manieri

Nean­che Gul­li­ver, nei suoi straor­di­nari viaggi, si è mai imbat­tuto in un paese in cui scon­trini e castelli occu­pas­sero il cen­tro del dibat­tito poli­tico. Del resto quando si pro­cede lungo binari obbli­gati e com­pa­ti­bi­lità senza varianti tro­vare oggetti di disputa richiede un sem­pre mag­giore sforzo di fantasia.
Così il pre­mier avrebbe fatto mar­cia indie­tro sulla detas­sa­zione dei primi castelli. Non l’aveva mai pre­vi­sta? Si è lasciato con­vin­cere?, si inter­roga la stampa più mali­ziosa. Nel secondo caso la sini­stra dem avrebbe inferto un colpo mor­tale al feu­da­le­simo solo 226 anni dopo la Rivo­lu­zione fran­cese. In entrambi i casi è evi­dente che la que­stione conta meno di zero. Ragion per cui occupa da giorni edi­to­riali, com­menti, vignette, indi­gnate dichia­ra­zioni su gran parte dei media ita­liani. Insomma sta in buona com­pa­gnia, quanto a rile­vanza effet­tiva, con tutti gli altri “suc­cessi” con­se­guiti dalla sini­stra del Pd sotto il regno di Mat­teo Renzi.
Intanto la legge di sta­bi­lità stri­scia nell’ombra verso l’approvazione garan­tita dalla fidu­cia. Fur­betta, a volte roboante, nei con­fronti delle severe regole euro­pee, ma tutto som­mato piut­to­sto obbe­diente. Bru­xel­les potrà anche stor­cere il naso sulla detas­sa­zione della prima casa (che essendo un bene di con­sumo, con­tra­ria­mente ad altre ren­dite da capi­tale, figura tra i ber­sa­gli pre­di­letti dall’ideologia fiscale libe­ri­sta dedita a garan­tire l’accumulazione del capi­tale) ma sa bene che il ter­reno perso potrà essere recu­pe­rato tra tagli, pri­va­tiz­za­zioni e tas­sa­zioni indi­rette. Que­ste ultime, causa sca­te­nante di innu­me­re­voli rivolte nel corso della sto­ria, godono oggi di un certo ano­ni­mato e scarsa atten­zione. In fondo nes­suno ti chiama a pagare per nome e cognome. Mal comune mezzo gau­dio. Su que­sto piano siamo tutti ampia­mente mitri­da­tiz­zati e non c’è governo che non lo sappia.
Dun­que, insi­ste Bru­xel­les e Roma rece­pi­sce, biso­gna detas­sare il lavoro. Lo sgra­vio si sdop­pia però in due voci: favo­rire i pro­fitti d’impresa o la busta paga dei dipen­denti, o entrambi in deter­mi­nate pro­por­zioni. Il rispar­mio fiscale delle imprese si sup­pone indi­riz­zato agli inve­sti­menti e dun­que a nuova occu­pa­zione. Si sup­pone per­ché trat­tasi di un risul­tato del tutto alea­to­rio. In primo luogo e nel migliore dei casi gli inve­sti­menti pos­sono essere indi­riz­zati alla sosti­tu­zione di lavoro vivo con lavoro morto. In secondo luogo, così come le enormi somme di denaro immesse nelle casse delle ban­che, i risparmi fiscali pos­sono pren­dere la via del cir­cuito finan­zia­rio. Infine, tasse o non tasse, se il mer­cato e cioè i con­sumi non “tirano”, gli impren­di­tori si guar­de­ranno bene dall’assumere nuovo per­so­nale, come hanno più volte dichia­rato. Con­sumi che dovreb­bero invece cre­scere gra­zie al ridotto carico fiscale sulle buste paga, ma che, se for­te­mente tas­sati a loro volta come pre­scritto dalla dot­trina libe­ri­sta, non pro­dur­reb­bero alcun effetto espan­sivo. C’è natu­ral­mente la scom­messa sul pri­mato dell’export. Ma chi ci crede nell’attuale con­giun­tura glo­bale? O nelle reto­ri­che del «fac­ciamo meglio della Germania»?
A forza di van­tarci di non essere «come i Greci», sem­bra che lo stra­to­sfe­rico debito pub­blico ita­liano sia com­ple­ta­mente scom­parso. Sono lon­tani i tempi in cui il «signor Spread» era più popo­lare delle star del cal­cio e oggetto di acca­lo­rate discus­sioni in ogni bar del paese. Com­piti fatti, pro­blema risolto. Que­sta l’orgogliosa nar­ra­zione gover­na­tiva. Occu­pa­tevi, se vi garba dav­vero liti­gare, di manieri e scontrini.
E se, invece, fosse pro­prio l’esame e la rine­go­zia­zione di quel debito e le regole di rien­tro sta­bi­lite dalle «isti­tu­zioni» euro­pee il tema prin­ci­pale da affron­tare quanto alla pres­sione fiscale e ai suoi effetti reces­sivi?
Certo non è facile, dopo aver sbef­feg­giato Atene e sacra­liz­zato gli inte­ressi dei cre­di­tori, imma­gi­nando di poter rosic­chiare in cam­bio qual­che mar­gine di tol­le­ranza a Fran­co­forte e Bru­xel­les. Magari sulla pelle dei migranti. «Quali tasse e quali tagli, lo deci­diamo noi!», tuona il pre­mier. Ma è evi­dente che non è affatto così, che la deci­sione sia impo­sta per via diretta o indi­retta. Né prima, né durante, né dopo la crisi greca vi è stato alcun discorso serio sull’Europa e le sue poli­ti­che eco­no­mi­che e finan­zia­rie da parte del governo di Roma, impe­gnato, sem­mai, in una gestione meschina (e per­dente) del van­tag­gio nazio­nale. Cosic­ché la que­stione fiscale ci viene ripro­po­sta in ter­mini asso­lu­ta­mente arcaici, quando non inte­res­sa­ta­mente banali, pre­scin­dendo alle­gra­mente dal peso della ren­dita finan­zia­ria e dal dum­ping fiscale all’interno dell’Unione. Come una par­tita che possa risol­versi all’interno dei sin­goli paesi o nella loro auto­noma e fur­ba­stra con­trat­ta­zione con Bru­xel­les. E’ il para­dosso di quell’europeismo nazio­na­li­sta che ha disgra­zia­ta­mente occu­pato il campo del pro­getto di inte­gra­zione europeo.
Il governo di Atene ha appena licen­ziato la diret­trice dell’agenzia delle entrate sulla quale sono state aperte due deli­cate inchie­ste giu­di­zia­rie. Si temono vee­menti rea­zioni da Bru­xel­les per­ché l’autonomia dell’organismo tri­bu­ta­rio dal governo ne risul­te­rebbe minac­ciata. Orga­ni­smo che si sup­pone debba, invece, sot­to­stare alle ragioni indi­scusse dell’austerità e dun­que a quelle dei cre­di­tori. Ma non è il caso di pre­oc­cu­parsi: «Noi non siamo mica la Grecia!»

venerdì 23 ottobre 2015

NETANYAHU E’ UN REVISIONISTA

Questa svolta nella visione storica israeliana, illuminata da Netanyahu, casca a fagiolo ed è ben gradita. Negli ultimi giorni è stato reso molto chiaro che la Palestina non è più disposta ad accettare la presenza sionista sulla propria terra, e questo sentimento è più che comprensibile. Ormai per gli Ebrei il tempo per andarsene ed inventare una nuova fantomatica terra promessa è scaduto. La Germania ovviamente sarebbe il candidato ideale. Angela Merkel adora l’immigrazione e probabilmente vuole qualche milione di israeliani mangiatori di humus per controbilanciare le vittime delle guerre siocon che si stanno dirigendo verso il suo paradiso teutonico.
Berlino di recente è diventata la nuova Gerusalemme per gli israeliani. Migliaia di giovani israeliani si sono trasferiti a Berlino negli ultimi anni attraverso un’ondata migratoria che in ebraico si definisce ‘Olim le-Berlin’ (acesa a Berlino). Ieri il Primo Ministro Netanyahu si è unito alla voce dei giovani ed ha finalmente vendicato Hitler ed i Tedeschi. Sembra che in realtà siano i Palestinesi a dover essere accusati per la Shoah. Nelle alte sfere del pensiero ebraico vogliono mantenere l’equazione molto semplice – la vittima (gli Ebrei) è il fattore costante, l’antisemita di turno è la variabile. Gli antisemiti continuano d alternarsi, la situazione non cambia mai.
Alcuni noiosi storici israeliani non sono ancora pronti a seguire la svolta revisionista di Netanyahu. Continuano ad insistere che sia essenziale continuare a mantenere la colpevolezza della Germania. Il professor Dan Michman, capo dell’Istituto di Ricerca sull’Olocausto dell’Università Bar-Ilan ha detto “benchè Hitler abbia effettivamente incontrato il gran mufti, la soluzione finale era già cominciata”. Sono sempre confuso dal sistema scolastico ebraico e il modo in cui gli accademici ebrei maneggiano con gli eventi per farli collimare con i mutevoli interessi ebraici. Secondo la religione sionista dell’olocausto, la “soluzione finale” era stata decisa in primo luogo nella Conferenza di Wannsee nel gennaio 1942. Hitler ha incontrato il mufti nel novembre 1941.
In alternativa, proviamo ad andare a fondo della conoscenza israeliana. La Professoressa Dina Porat, ha detto al sito giornalistico israeliano Ynet, che le affermazioni di Netanyahu erano “sbagliate”. La sua profonda obiezione: “Non si può affermare che sia stato il mufti a dare ad Hitler l’idea di uccidere o bruciare gli Ebrei. Non è vero. Il loro incontro è avvenuto in seguito ad una serie di eventi che puntavano tutti in quella direzione”. Come ho evidenziato in “The wandering who?”, non esiste nulla di ciò nella storia ebraica. Al contrario questa storia è l’occultamento istituzionale della vergogna ebraica che consegue in un evidente, inconsistente, zigzag kosher.
Il parlamentare Itzik Shmuli ha fatto un appello a Netanyahu chiedendogli di scusarsi con le vittime dell’olocausto. “Questa è una grande vergogna: un Primo Ministro dello stato ebraico al servizio di chi nega l’olocausto”. Fortunatamente ora possediamo un’efficace cartina al tornasole per scoprire i negazionisti dell’olocausto. Se Netanyahu è uno di loro come suggerisce Shmuli, presto esprimerà il suo sostegno a Jeremy Corbin e al rivoluzionario partito Laburista. Non sto esattamente trattenendo il respiro.
Aggiornamento: La Reuters oggi ha riportato che il Governo tedesco ha rifiutato di condividere la responsabilità della shoah con i Palestinesi o con chiunque altro. “La responsabilità dell’olocausto è nelle mani dei Tedeschi”, ha insistito il portavoce di Angela Merkel Steffen Seibert. Il suo messaggio è stato chiaro: l’olocausto è nostro e nessuno ce lo porterà via, nemmeno Bibi.

giovedì 22 ottobre 2015

Legge di stabilità, un altro smaccato aiuto a chi vuole privatizzare il welfare. Censis: "Nove milioni rinunciano alle cure specialistiche"

Nella Legge di Stabilità, Renzi ci ha infilato, ma il condizionale è d’obbligo, una posta di 500 milioni da destinare a chi contratta su produttività e welfare aziendale. Un altro bell’aiutino per quella “privatizzazione del welfare” che fa gola a case farmaceutiche, gruppi finanziari, compagnia delle opere, confcooperative. Del resto, dai dati raccolti da una recente indagine del Censis emerge che il 53,6% degli italiani ha la sensazione che la copertura pubblica dello stato sociale si sia ridotta e che questa riduzione sia stata ampiamente compensata dalla spesa privata (52,8%). I tagli alle politiche di welfare degli ultimi anni hanno quindi prodotto una maggiore esposizione finanziaria delle famiglie che ha prodotto, di conseguenza, un aumento delle disuguaglianze sociali: si calcola, ad esempio, che 9 milioni di persone abbiano rinunciato alle cure sanitarie perché non potevano permettersi alcune prestazioni specialistiche.
Il volume complessivo della spesa per i servizi sanitari è di circa 32 miliardi di euro l’anno, (di questi 8/9 miliardi vengono spesi da 1,3 milioni di anziani per le badanti): una voce di bilancio sentita fortemente dal 71,5% delle famiglie. A gravare particolarmente sul budget sono principalmente il pagamento di ticket per farmaci e visite specialistiche (34,3%) e accertamenti diagnostici interamente a proprio carico (20,3%). Se il servizio di assistenza sociale dello stato non riesce più a soddisfare i bisogni dei cittadini, questi cercano modi alternativi per ottenere le stesse prestazioni, affidandosi sempre più spesso al “mercato nero” (32,6%). Oltre il 21%, infatti, ha pagato senza fattura o ricevuta visite medico specialistiche, il 14,4% visite odontoiatriche, il 2,4% ripetizioni di matematica e di lingue e l'1,9% prestazioni infermieristiche. Nel Meridione "il 41% degli intervistati ha pagato prestazioni in nero".

mercoledì 21 ottobre 2015

Il neoliberismo ci ha portato nell'era della burocrazia totale

"Paradossalmente, in una società che si ritiene libera, molti aspetti sono regolati dalla coercizione, dalla violenza"
Scartoffie e documenti hanno invaso la nostra vita, e sempre più persone pensano che il loro lavoro sia inutile, senza alcun contributo al mondo. Questo non è colpa dello Stato e dei suoi funzionari, ma dei mercati e la finanziarizzazione. "Qualsiasi riforma per ridurre l'interferenza dello Stato avrà l'effetto finale di aumentare il numero di regolamenti e il volume totale di documenti", spiega David Graeber, antropologo statunitense e uno dei leader del movimento Occupy Wall Street, in un'intervista concessa a Basta!, presentando il suo nuovo libro "Burocrazia", nel quale invita la sinistra a rinnovare la sua critica verso questa "burocrazia totale" contro la quale lottiamo ogni giorno.
Secondo Graeber siamo immersi in un'era di "burocrazia totale." Basta semplicemente misurare il tempo che passiamo a compilare di moduli. Qualcuno ha calcolato che i cittadini degli Stati Uniti spendono in media sei mesi della loro vita in attesa che il semaforo diventi verde. Nessuno ha calcolato quanto tempo passiamo la compilazione di moduli! Forse un anno ... 'è la prima volta nella storia che si raggiungere questo livello di burocrazia.
L'uso di parole come "lavoro di ufficio", "documenti richiesti" o "valutazione delle prestazioni" aumenta continuamente e drammaticamente. Siamo circondati da procedure burocratiche.
Il sociologo Max Weber aveva già affermato che il 19° secolo aveva inaugurato l'era burocratica. La differenza, oggi, è che la burocrazia è così completa che non la vediamo nemmeno più. Negli anni 1940 e 1950, la gente si lamentava della sua assurdità. Oggi non immaginiamo nemmeno più un modo di organizzare la nostra vita che non sia burocratico! Ciò che è anche nuovo è la creazione della prima burocrazia globale. Un sistema di gestione che nessuno ha ancora identificato come una burocrazia, in quanto è principalmente una questione di libero scambio. Ma cosa significa in realtà? La creazione di trattati internazionali e tutta una classe di amministratori internazionali che regolano le cose.
La burocrazia non è solo un modo di gestire il capitalismo. Tradizionalmente, il ruolo dello Stato è quello di garantire rapporti di proprietà, regolare per evitare esplosione sociale. Ma la burocrazia è diventata un mezzo a servizio delle strutture di estrazione dei profitti: i profitti vengono estratti con mezzi burocratici. Oggi la maggior parte dei profitti non ha nulla a che fare con la produzione, ma con la finanza. Anche una società come la General Motors fa più profitti, finanziando l'acquisto di auto con carta di credito, che con la produzione di automobili. La fiinanza non è un mondo irreale completamente scollegato dall'economia reale, dove la gente specula e fa soldi dal nulla.
Come si spiega allora che siamo così attaccati alla burocrazia, che non riusciamo a mettere in discussione il processo e che continuiamo ad alimentare il suo sviluppo?
Ho analizzato questo con l'analogia della "paura del gioco." C'è qualcosa di molto interessante nel gioco, che è espressione della libertà individuale, ma anche qualcosa di spaventoso. Se la gente ama così tanto il gioco è perché è l'unica situazione in cui si sa esattamente quali sono le regole. Nella vita, siamo costantemente coinvolti in giochi, in intrighi, al lavoro o con gli amici. E' come un gioco, ma non siete mai sicuri di chi sono i giocatori, quando il gioco comincia o finisce, quali sono le regole, chi vince. In una conversazione con vostra madre, si sa che ci sono delle regole, ma non siete sicuri perché, ciò che si può dire o no. Questo rende la vita difficile. Siamo spaventati dall' arbitrarietà.
Noi non vogliamo che ci sia un potere arbitrario. Una scuola di pensiero negli Stati Uniti, repubblicanesimo civico, ha detto che la libertà significa conoscere quali sono le regole: quando lo Stato può obbligarvi e quando non può. Da lì, creare nuovi e più regolamenti per essere più liberi. Paradossalmente, in una società che si ritiene libera, molti aspetti sono regolati dalla coercizione, dalla violenza.
La burocrazia non è stupida in sé. Si tratta di un sintomo di violenza sociale, che è stupida. La violenza strutturale - che comprende tutte le forme di disuguaglianze strutturali: il patriarcato, relazioni di genere, di classe ... relazioni - è stupida. In caso di squilibrio di potere, è anche una forma di ignoranza e cecità. Anche quando la burocrazia è benevola, sotto forma di stato sociale, è ancora basata su una forma di cecità strutturale, su categorie che non hanno molto a che fare con ciò che le persone stanno vivendo. Quando i burocrati stanno cercando di aiutarvi, non vi capiscono, che vogliono capirvi capisco, e non sono nemmeno autorizzati a capirvi.
Possiamo immaginare uno stato senza burocrazia?
Lo Stato è una combinazione di tre principi totalmente diversi: in primo luogo, la sovranità, monopolio della forza all'interno di un determinato territorio. In secondo luogo, l'amministrazione, la burocrazia, la gestione razionale delle risorse. E in terzo luogo, l'organizzazione del campo politico, con i caratteri competitivi, tra cui la popolazione sceglie i suoi leader. In Mesopotamia, c'era un sacco di burocrazia, ma nessun principio di sovranità. L'idea di politici in competizione proviene dalle società aristocratiche. E il principio di sovranità dagli imperi. Questi tre principi si sono fusi insieme nello Stato moderno. Oggi abbiamo un governo globale, ma che non ha alcun principio di sovranità e campo politico.

martedì 20 ottobre 2015

Se i media sciacalli scoprono l'aumento dei morti sul lavoro

Gli interventi mediatici su questo presunto aumento delle morti sul lavoro fanno comprendere bene chi sono e perché adesso che l’INAIL ha “sparato” questo presunto aumento a due cifre delle morti sul lavoro rispetto al 2014. Incompetenti e disinformati si buttano sulla “preda mediatica” che viene sparata da centinaia di media, soprattutto in rete. In realtà l’anno veramente tragico e con un aumento a due cifre è stato il 2014 rispetto al 2013, se si considerano morti sul lavoro anche i lavoratori che non sono assicurati all’INAIL e che muoiono lo stesso, senza sapere che non avranno neppure la visibilità dopo morti. Morti sul lavoro INVISIBILI. In realtà non esiste un aumento molto significato delle morti sul lavoro nel 2015 rispetto al 2014. Occorre guardare queste tragedie in termini assoluti e non solo una parte seppur significata che è quella degli assicurati INAIL. . Il 19 ottobre 2008 erano morti sui luoghi di lavoro 519 lavoratori, oggi 19 ottobre 2015 sono ben 559 +8,2% e questo nonostante la perdita di milioni di posti di lavoro.. I morti per infortuni sui luoghi di lavoro sono questi, poi se si aggiungono i morti sulle strade e in itinere si superano già oggi i 1150 morti. Tornando all’aumento a due cifre delle morti per infortuni sul lavoro tra gli assicurati INAIL sui LUOGHI DI LAVORO, occorre capire che questo aumento è dovuto soprattutto all’innalzamento dell’età causato dalla legge Fornero che costringe lavoratori anziani, nonostante acciacchi e salute mal ferma a svolgere lavori pericolosi. La seconda causa è dovuta al Jobs act che ha fatto ritenere conveniente far emergere una parte del lavoro nero. Economicamente è più conveniente con gli incentivi dati ai datori di lavoro, metterli in regola che continuare a farli lavorare in nero o in grigio. Questi lavoratori sarebbero morti lo stesso, ma adesso sono visibili a tutti con la potenza mediatica che hanno l’INAIL e l’ANMIL, ma come dicevo l’aumento rispetto all’anno scorso, se si monitorano i morti sul lavoro, è intorno al 2%. Occorre guardare il problema nella sua reale dimensione e fare una campagna informativa e mettere a disposizione fondi per i due settori che presentano i maggiori rischi d’infortuni gravi e mortali. L’agricoltura che supera da solo il 30% di tutte le morti sul lavoro e più specificatamente i morti causati dal trattore che sono intorno al 20 % di tutte le morti, e l’edilizia con il 22%. Quando il Jobs act, svelerà tutta la sua potenza distruttrice che riguarderà tutti i nuovi assunti, che non avranno più la protezione dell’articolo 18, (mica tutti i datori di lavoro sono santi) e saranno costretti a svolgere lavori pericolosi previo licenziamento con una scusa, ne vedremo delle belle nei prossimi anni su questo fronte. E le casse dello Stato e dell'INAIL piangeranno tantissimo per gli infortuni gravi e mortali . Prego che gli scandalizzati per un giorno di questa mattanza, che evitino di parlare di problemi che non conoscono e che non utilizzino queste tragedie per farsi un po’ di pubblicità. E a leggere in questi giorni quello che si trova nel web, sono una moltitudine.

lunedì 19 ottobre 2015

LA METÀ DELLA RICCHEZZA MONDIALE NELLE MANI DELL’1% DELLA POPOLAZIONE

La disuguaglianza globale è in crescita, con la metà della ricchezza mondiale adesso nelle mani dell’1% della popolazione, secondo un nuovo rapporto.
Le classi medie sono state schiacciate a spese dei più ricchi, secondo le ricerche di Credit Suisse, che rivela anche che per la prima volta, ci sono più persone della classe media in Cina – 109 milioni – rispetto ai 92 milioni negli Stati Uniti.
Tidjane Thiam, l’amministratore delegato di Credit Suisse, ha dichiarato: “la ricchezza della classe media è cresciuta a un ritmo più lento rispetto alla ricchezza nella fascia più alta. Questo ha invertito la tendenza pre-crisi che vedeva la quota di ricchezza della classe media rimanere relativamente stabile nel tempo “.
Il rapporto mostra che una persona ha bisogno di solo $ 3,210 (£ 2,100) per trovarsi nel 50% più ricco dei cittadini del mondo. Circa $ 68.800 assicurano un posto nella top 10%, mentre l’1% ha più di $ 759.900. Il rapporto definisce la ricchezza come il valore dei beni, tra cui immobili e investimenti sul mercato azionario, ma esclude il debito.
Circa 3,4 miliardi di persone – poco più del 70% della popolazione adulta mondiale – hanno meno di $ 10.000. Un ulteriore miliardo – un quinto della popolazione mondiale – si situa nel ventaglio tra $ 10,000 e $ 100.000.
Ognuno delle rimanenti 383 milioni di adulti – l’8% della popolazione – possiede una ricchezza maggiore di $ 100.000. Questo numero comprende circa 34 milioni di milionari in dollari americani. Tra questi, circa 123.800 individui hanno più di 50 milioni di dollari, e quasi 45.000 hanno più di 100 milioni. Il Regno Unito ha il terzo più alto numero di questi individui “ad altissimo valore netto”.
Il rapporto riporta che: “La disuguaglianza nella ricchezza ha continuato ad aumentare dal 2008, con il percentile in cima alla piramide della ricchezza che ora possiede il 50,4% di tutta la ricchezza delle famiglie.”
All’inizio del 2015, Oxfam aveva avvertito che l’1% della popolazione mondiale sarebbe stato più ricco rispetto all’altro 99% entro l’anno prossimo. Mark Goldring, direttore esecutivo di Oxfam GB, ha dichiarato: “Il fatto che sia accaduto con un anno di anticipo – soltanto poche settimane dopo che i leader mondiali avevano concordato un obiettivo globale per ridurre le disuguaglianze – dimostra quanto sia urgente per i leader mondiali affrontare questo problema.”
“Questa è l’ultima prova che questa estrema disuguaglianza è fuori controllo. Siamo davvero felici di vivere in un mondo dove l’1% possiede metà della ricchezza e la metà più povera possiede solo l’1%? ”
Il report del Credit Suisse conclude che la ricchezza mondiale è diminuita nel 2015 di 12.4 trilioni di dollari fino ad adesso – arrivando a quota 250 trilioni di dollari – il primo calo dalla crisi bancaria del 2008. Ciò è in gran parte il risultato della forza del dollaro, la valuta utilizzata per i calcoli del Credit Suisse.
Le stime sono per la fine di giugno 2015, quando i prezzi delle azioni cinesi erano scesi del 20% dal picco dopo l’impennata di oltre il 150% tra giugno 2014 e la metà di giugno 2015. La relazione è stata pubblicata alla fine del mese di settembre, nel frattempo il mercato azionario cinese era sceso di un ulteriore 25%.
Un anno fa, il Regno Unito era stato individuato come l’unico paese del G7 in cui la disuguaglianza è cresciuta in questo secolo. Nel rapporto di quest’anno, gli autori dicono:
“[Nel Regno Unito] la disuguaglianza nella ricchezza è aumentata fin dal 2000, poiché il divario in termini di ricchezza per adulto tra il segmento inferiore ed il resto della popolazione è aumentato.”
Il Regno Unito è il quarto paese al mondo per ricchezza mediana – cosa che mette a nudo l’impatto tra quelli in testa e in fondo al campionato della ricchezza – a $ 126,500 (£ 83.000) per persona, in calo del 13% su un anno prima.
Il sondaggio del Credit Suisse calcola che ci sono ora 2,4 milioni di milionari in dollari nel Regno Unito, cresciuti di 68.000 rispetto all’anno prima. Negli Stati Uniti il numero dei milionari è ormai superiore ai 15 milioni – con una crescita di 903.000.
Il Regno Unito è stato uno dei soli tre paesi, insieme con gli Stati Uniti e la Cina, a registrare un aumento della ricchezza delle famiglie nel 2014. Ha scavalcato anche la Germania nel numero di persone con più di 50 milioni di dollari, 400 in più nel 2014 per un totale di 5.400. Questo ha messo il Regno Unito al terzo posto, dietro agli Stati Uniti con 61.300 ricchissimi e alla Cina con 9.600 ricchissimi.
La relazione di quest’anno si concentra sulle classi medie, come definite dalla ricchezza personale piuttosto che dalla professione. Rivela che il 14% degli adulti in tutto il mondo sono di classe media, con un valore dei beni tra $ 50,000 e $ 500.000.
Ma Markus Stierli, del Credit Suisse Research Institute, ha detto: “Dal 2008 in poi, la crescita della ricchezza non ha permesso alla classe media di tenere il passo con la crescita della popolazione nei paesi in via di sviluppo. Inoltre, la distribuzione degli incrementi di ricchezza si è spostata a favore di quelli a più alti livelli di ricchezza. Questi due fattori si sono combinati per produrre un calo della quota di ricchezza della classe media

domenica 18 ottobre 2015

4 anni di guerra in Siria: 250 mila morti. Dopo i civili, i soldati di Damasco le prime vittime

I 4 anni e mezzo di guerra civile in Siria hanno provocato 250.000 morti, 2 milioni di feriti e 12 milioni di sfollati, dei quali oltre 4 milioni rifugiati all’estero. È bilancio pubblicato oggi dall’ong Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus), secondo cui i morti tra i civili sono 74.426 e tra i combattenti stranieri 41.376.
L’ong, che ha sede in Gran Bretagna ma dispone di una vasta rete di informatori in Siria, afferma di essere riuscita a documentare la morte di 250.124 persone. Tra i 74.426 civili, 12.517 sono bambini o ragazzi minorenni. «Non smetteremo – afferma in una nota l’Ondus – di chiedere ai membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di approvare una risoluzione vincolante che proibisca di prendere di mira i civili in Siria, dove massacri sono commessi ogni giorno sotto il naso della comunità internazionale».
La commissione d’inchiesta dell’Onu sulla Siria ha più volte accusato tutte le parti di attacchi indiscriminati e di crimini contro la popolazione civile. Secondo il bilancio dell’Ondus, tra i morti a partire dal marzo del 2011 vi sono anche 52.077 soldati governativi, 35.235 membri di varie milizie armate lealiste, 41.201 miliziani curdi e di formazioni ribelli, 2.551 soldati disertori e 3.258 persone non identificate.
Per quanto riguarda gli stranieri, 37.010 sono quelli morti mentre combattevano nelle file dell’Isis, del Fronte al Nusra (la branca siriana di Al Qaida) e in vari altri gruppi armati islamisti sunniti. Altri 4.366 erano invece membri di milizie sciite provenienti da Paesi arabi e asiatici schierati con il governo di Damasco. Tra questi figurano 971 miliziani sciiti libanesi di Hezbollah.

sabato 17 ottobre 2015

Strategia di potere

La manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus». Il manifesto, 15 ottobre 2015
Con la legge di stabilità, il governo Renzi vuole varare un’operazione ambiziosa. Non sottovalutiamola. Da un lato si tratta di una legge dal chiaro sapore elettorale. Una lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese. Vere e proprie midterm elections in salsa italiana. Appuntamento dagli esiti non scontati per Renzi, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali. A dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele.
Dall’altro lato la manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus.
Nello stesso tempo per Renzi è necessario aggirare i paletti posti da Bruxelles. I censori europei hanno già mostrato i denti a Rajoy. E’ da vedere quindi quale benevolenza otterrà Renzi dai propri padroni e sodali, visto che il suo governo ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle elite economiche e politiche europee.
Da qui la centralità della cosiddetta riforma fiscale, definita con la consueta modestia una “rivoluzione copernicana”. A quanto riferisce la stessa Repubblica, non certo un organo antigovernativo, i proprietari di 75mila case di lusso e palazzi, ne trarranno ampi benefici, almeno 2800 euro in media a testa. Non importa se a farne le spese sarà la Sanità o altri istituti dello stato sociale. Un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere.
Per questo la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana. Il vecchio leader di Arcore almeno ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata a l’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche. Invece Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo. Confortato anche dai propositi del leader di Rignano di intervenire di autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire.
Qui si scende negli inferi del diabolico. Il taglio dell’Ires verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità.
Renzi vuole durare. Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci. Vuole e deve risolvere la dicotomia di cui parlava Niklas Luhmann, su cui forse gioverebbe tornare a riflettere per capire le derive del presente. Quella tra potere e complessità sociale. La seconda viene compressa e strozzata dalle controriforme costituzionali, istituzionali e elettorali in atto (che speriamo di potere smantellare con gli opportuni referendum). Il primo va al di là di quel “mezzo di comunicazione”, di quel “sottosistema” autonomizzato di cui parlava Luhmann nella sua polemica con Habermas. In quanto articolazione di un potere superiore, quello espresso dagli organi a-democratici della Ue, diventa strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista e contemporaneamente di inclusione/corruzione di strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva. Cioè il conflitto.

venerdì 16 ottobre 2015

Tre segnali evidenti che confermano che l'intero sistema sta cambiando

La vecchia struttura del mondo - un sistema dominato dal governo degli Stati Uniti, le banche degli Stati Uniti, e il dollaro - è finita
Nei primi anni '80, gli Stati Uniti erano la superpotenza dominante indiscussa nel mondo.
Il dollaro USA era imponente, non era mai stato così forte e la sua forza era sostenuta da qualcosa di reale. L'economia americana era forte. Il debito era basso.
Con il crollo dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti mersero come i vincitori della guerra fredda.
Il potere geopolitico, economico, finanziario e militare era completamente incontrastato. E sarebbe rimasto così per anni.
Ora è una storia completamente diversa. L'intero sistema sta cambiando.
E mentre gli Stati Uniti possono ancora essere la potenza leader nel mondo, il loro dominio si sta rapidamente sgretolando
Qui ci sono tre grandi esempi che abbiamo visto solo nelle ultime settimane:
1) La forza internazionale dominante nel Medio Oriente è ora ... la Russia.
C'è stato un gran parlare da parte del governo degli Stati Uniti sulla Siria nel corso degli ultimi anni, incluse promesse circa un'azione militare se Assad avessse attraversato la famosa "linea rossa"
Assad probabilmente l'avrà anche attraversata eppure non vi è stata alcuna risposta militare degli Stati Uniti.
Invece, Vladimir Putin ha effettivamente aiutato a sostenere il governo siriano, così come ha bombardato obiettivi dell'ISIS nella regione.
E il governo cinese ha inviato le proprie navi da guerra in Siria.
Nel frattempo, l'Iran ha appena testato un nuovo missle a lungo raggio, una cosa che può benissimo violare i termini dell'accordo nucleare appena annunciato.
Tutto questo va completamente contro la volontà del governo degli Stati Uniti. E tuttavia non hanno assolutamente intenzione di fare qualcosa al riguardo.
Gli Stati Uniti possono ancora avere l'esercito più letale al mondo. Ma anche la forza di combattimento più potente è inefficace se il governo è troppo debole per ricorrere ad essa.
2) La Cina ha lanciato una propria rete bancaria internazionale competitiva
Per più di sette decenni, il sistema bancario degli Stati Uniti ha sostenuto il sistema bancario globale.
Pagamenti bancari per il commercio globale che transitano dal Bangladesh al Brasile, per esempio, sono in genere instradati tramite il sistema bancario degli Stati Uniti a New York, in dollari USA.
Gli Stati Uniti hanno abusato di questa posizione di fiducia più e più e più volte.
La Cina si è finalmente stancata. E, qualche anno fa ha iniziato a lavorare su un sistema alternativo in cui i pagamenti internazionali necessari non più per cancellare attraverso gli Stati Uniti.
Si chiama China International Payments System (o CIPS). Ed è stato lanciato lo scorso giovedi.
CIPS è appena stato lanciato in fase di sperimentazione in via provvisoria; 11 banche su 19 che lo utilizzano sono cinesi (e di proprietà dello Stato).
Ma molte grandi banche, soprattutto in Europa, hanno già aderito.
In caso di successo, CIPS potrebbero togliere quota di mercato al sistema bancario americano, dando a banche e governi sempre meno ragione di tenere dollari e il debito degli Stati Uniti.
3) C'è una rivoluzione epica nel sistema finanziario globale
Sette anni fa, le banche centrali di tutto il mondo hanno coordinato la politica per impostare i tassi di interesse allo 0% (o addirittura negativo) e hanno fatto apparire migliaia di miliardi di dollari, yen, renminbi, euro, ecc dal nulla.
Intorno allo stesso tempo, la tecnologia dei pagamenti digitali nota come Bitcoin è stato inventata.
Bitcoin ha rappresentato una rivoluzione digitale nella finanza.
La tecnologia ora permette di eliminare completamente le banche in qualità di intermediario, un intermediario finanziario altamente centralizzato tra voi e il vostro denaro.
A questo punto è possibile inviare e ricevere fondi, trasferire denaro a livello internazionale, cambiare valute estere, prendere in prestito denaro, e investire i risparmi, in un modo migliore, più veloce e più conveniente che mai, e tutto senza l'utilizzo di una banca.
Le banche sono state alcune delle istituzioni più potenti del mondo per oltre sette secoli. Ora il loro dominio è sfidato da una tecnologia che procede ad ritmo forsennato
Questa tecnologia essenzialmente crea un ponte tra il vecchio sistema finanziario e il nuovo sistema finanziario, suggerendo, molto chiaramente, che unarivoluzione finanziaria è in corso.
Tutti e tre di questi segni confermano che il sistema sta cambiando.
La vecchia struttura del mondo - un sistema dominato dal governo degli Stati Uniti, le banche degli Stati Uniti, e il dollaro - è finita.
Gli Stati Uniti sono in declino. Il governo degli Stati Uniti è sovraccarico di debito. Il sistema finanziario americano sta perdendo la sua posizione dominante. E anche le istituzioni bancarie stanno perdendo rilevanza.
Questa non è una cattiva notizia. E' tremendamente eccitante.
La storia dimostra che queste cose cambiano. Nessuna nazione mantiene il ° posto nel mondo. Nessuna valuta di riserva internazionale dura per sempre.

giovedì 15 ottobre 2015

L’Italia cresce, gli italiani scappano. Qualcosa non torna

Qualcosa non torna. Matteo Renzi dichiara che l’Italia “sta stupendo il mondo” 1, grazie alle sue riforme; la crescita sembrerebbe alle stelle, il Paese starebbe uscendo lentamente dalla crisi, dalla palude in cui è precipitato dal 2008.
La notizia sarebbe fantastica, se non fosse in netta controtendenza con un dato emerso in tutti i quotidiani e telegiornali di mercoledì 7 ottobre: l’emigrazione italiana sta toccando vette mai viste, e di conseguenza il Paese si sta spopolando. Riflettendo, le due cose non sono conciliabili: se il Paese sta tornando a crescere, nessuno dovrebbe scappare via dalla povertà, o dalla mancanza di prospettive. Invece, il Rapporto Migrantesparla chiaro: gli italiani sono in fuga dalla crisi, cercano sempre più lavoro lontano dall’Italia.
Se prendiamo come campione la città di Padova, ex ricco nord – est locomotiva d’Italia, nell’ultimo anno i nuovi iscritti all’AIRE (l’anagrafe degli italiani all’estero) sono 2310, con una media di 192 persone al mese. Il Veneto registra 43.131 persone. E si intende sempre quelle registrate, perché, le “non”, sono ben 351.4122
Tra l’altro, vi sono varie sfaccettature di emigrazione: dai giovani senza futuro (20 – 35enni), ai pensionati, i quali con la loro misera pensione non riescono ad arrivare a fine mese, e lasciano il Paese per andare a vivere in Tunisia o altre località ove addirittura riescono a risparmiare parte del loro avere.
Ad andarsene quindi abbiamo: celibi, coniugati, vedovi, divorziati, tutti attratti da mete che al momento riescono ad offrire più dell’Italia “di propaganda” renziana. Sempre prendendo in esame una realtà come il Veneto, gli antichi legami migratori vedono Brasile e Argentina come località di approdo preferiti.
D’altronde, molti veneti hanno diversi parenti ancora oggi nei Paesi dell’America latina, e possono contare almeno in qualche appoggio logistico, se non su quell’antica rete di “mutuo soccorso” in voga nelle famiglie durante l’emigrazione dei secoli scorsi. Poi annoveriamo: Svizzera, Francia, Germania, Regno Uniti, Belgio, Stati Uniti, Austria. Tutte queste nazioni in questo momento offrirebbero più del Belpaese, sebbene il Governo indichi l’esatto contrario.
Un’altra emergenza, tra l’altro mai contrastata da nessun Governo succedutosi negli anni, è la fuga di cervelli. E se prima si trattava solamente di ricercatori con alto profilo di specializzazione, ora si parla anche di laureati, non sempre con dottorati in tedesca, ma desiderosi di mostrare il frutto dei loro studi in un Paese che consenta loro l’autorealizzazione.
Perché scegliere la via della propaganda, se la realtà è triste, i centri storici si stanno spopolando (sia di attività produttive che di persone), le aziende continuano a chiudere?
Il Rapporto Migrantes parla chiaro: gli italiani stanno scappando, lasciando magari il posto ad altri che lavoreranno a prezzi di gran lunga inferiori, distruggendo un tessuto sociale e di relazioni umane che dura da secoli.
Perché è giusto ricordare che emigrare, è una tragedia per coloro che scappano da guerre e carestie, ma anche per quelli che debbono lasciare tutto ciò che aveva costituito la loro cultura e le loro esperienze fino a quel momento.
Una grande cosa potrebbe cercare di attuare il Governo Renzi: riportare una parte dei nostri emigrati all’estero in Patria. Quelli che ancora credono nelle opportunità offerte dal nostro Paese, e che lo hanno lasciato piangendo perché esse non avevano alcuna garanzia di realizzazione. Quello, potrebbe essere un gran merito.

mercoledì 14 ottobre 2015

La liquidazione della politica

La frase corre da tempo, almeno a far data da Tangentopoli. Quando la configurazione politica della cosiddetta Prima Repubblica crollò di schianto sotto il maglio delle inchieste giudiziarie, che provavano a mettere uno stop a un regime di corruzione evidente, sfrontato, indifendibile.
Venne dunque la stagione (ormai ultraventennale, non proprio un momento di passaggio...) della “discesa in campo della società civile”, che ci ha consegnato Berlusconi e Renzi, un'esplosione delle dimensioni della corruzione legata all'amministrazione pubblica ad ogni livello, la scomparsa di ogni “spirito pubblico” tanto nell'”elettorato” quanto nelle figure che vengono elette o più spesso nominate sulle poltrone dell'amministrazione, un degrado universale sia nella qualità che nel numero dei servizi. Le “facce nuove” che hanno fatto irruzione nelle cariche politico-amministrative neppure più nascondono un istinto predatorio esaltato dal mantra delle privatizzazioni, che – regalando di fatto all'imprenditoria privata pezzi consistenti del patrimonio costruito dall'intervento statale – favorisce la “trattativa privata” tra neo-amministratori inesperti e sapienti “compratori a basso prezzo”. Inutile ribadire che tutto il capitolo degli appalti pubblici ha seguito esattamente la stessa parabola, tra “emergenze”, commissariamenti, “semplificazioni procedurali”, ecc,
Cose risapute, ridette. È vero. Ma la fine patetica di Ignazio Marino sembra aver scoperchiato un punto molto debole del regime renziano. È stato fatto fuori, certamente, perché incapace di governare una grande città. È stato fatto fuori anche se aveva applicato in tutto e per tutto le direttive provenienti da Palazzo Chigi (ovvero da Bruxelles) sul “patto di stabilità”, il taglio della spesa e dei servizi, persino del salario dei dipendenti pubblici, sposato in pieno il clima di vandea contro i lavoratori (ad esempio quelli del Colosseo in “assemblea autorizzata” o contro i tranvieri).
Ma questa incapacità è anche il tratto comune di tutti gli amministratori locali e/o centrali selezionati nella stagione della “società civile”. Certo, nelle grandi città questa incapacità diventa più evidente.
Bene. Pare ora che in vista delle elezioni amministrative di primavera, che investono molte grandi amministrazioni comunali (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Salerno, Cagliari, Rimini, Caserta, Latina, ecc), ci sia un fuggi fuggi davanti alla possibilità di essere candidati alla poltrona di sindaco per il Pd. Strano, non è vero?
Di sicuro c'è della normale vigliaccheria. Un sindaco, di questi tempi, ha pochi o nulli strumenti per amministrare. Il “patto di stabilità” lo inchioda alla ricerca del pareggio di bilancio e/o alla riduzione del debito. Il taglio delle tasse sulla casa ne prosciugherà le entrate certe e li farà dipendere in tutto e per tutto dai trasferimenti decisi dal governo centrale. La loro autonomia operativa è insomma ridotta a zero, ma al tempo stesso la cittadinanza li individua – anche solo per motivi di prossimità, di “raggiungibilità” - come l'interlocutore che dovrebbe risolvere tutti i problemi sociali (dalle buche sulle strade ai servizi di trasporto, dall'istruzione al welfare in dismissione, alla sanità), senza a star lì a sottilizzare su cosa sia di competenza del Comune e cosa di altri livelli amministrativi (Regione, ministeri, ecc).
Parafulmini senza possibilità di scarico a terra, insomma. Una condizione di solitudine, tra il martello popolare e l'incudine governativa, che li espone al rischio di fare tutti la fine di Marino. Rimossi per decisione governativa (agendo sulla maggioranza in giunta) e “ricercati” dalla cittadinanza, anche se una piccola parte continua a sostenerli.
Comprensibile dunque che tutti facciano un passo indietro con un “no, grazie”.
Ma questa “solitudine” degli amministratori mette in luce un processo molto più generale relativo alla sfera della politica e alla selezione della classe politica stessa. L'irruzione della “società civile” ha coperto il parallelo svuotamento dei partiti politici “ideologici”, ovvero portatori di un pogetto complessivo di governo della società giunta a un determinato stadio di sviluppo. Liberali, comunisti, socialisti, democristiani – per dire solo gli schieramenti principali – rappresentavano contemporaneamente interessi sociali ben individuabili e programmi politici per realizzare quegli interessi. In altre parole, la prevalenza di uno o l'altro degli schieramenti, o della composizione dei governi di coalizione, poteva portare a cambiamenti politici, sociali, strutturali anche molto diversi tra loro. Sia al livello dell'amministrazione dello Stato che negli enti locali.
Era il campo privilegiato del riformismo. Che poteva essere anche un po' reazionario, conservatore o moderatamente progressista, ma era sempre riformismo dell'esistente. Gestione orientata progettualmente, insomma.
Tutto questo non è più possibile. La politica di bilancio – la distribuzione e impiego delle risorse nazionali – è dettata dall'Unione Europea. Ed anche le singole misure fiscali che determinano il raggiungimento degli obiettivi di bilancio sono sottoposte all'approvazione Ue. Il “patto di stabilità” è un filo a piombo che parte da Bruxelles e di dirama fino all'ultimo comune sperduto della penisola.
Non c'è insomma più scelta tra soluzioni diverse che rispondono a interessi sociali diversi. Al massimo, si può scegliere tra il consentire alcuni diritti civili oppure no (tengono banco in queste ore le “unioni civili”, con relativi diritti di adozione), che in fondo sono misure gratuite, “senza onere per lo Stato”. A differenza dei diritti sociali come istruzione, sanità, pensioni...
Ma se non c'è più scelta non c'è più politica come rappresentanza di interessi sociali specifici in relazione ad altri interessi sociali. Non c'è dunque necessità né spazio per la “composizione” tra i diversi interessi, ma solo imposizione dell'interesse dominante deciso “in alto”.
Servono sgherri, non politici. Commissari governativi, prefetti, plenipotenziari, non costruttori di consenso intorno a progetti differenti.
Lo stesso Renzi, di fatto, non ha alcun progetto politico proprio. Interpreta più efficacemente di altri un programma continentale: la distruzione del “modello sociale europeo”, di cui la Costituzione italiana era interprete quasi “estremista”, e la creazione di un ambiente favorevole alle irruzioni temporanee del capitale multinazionale. Senza resistenze sindacali e/o popolari.
Il suo cosiddetto partito, il Pd, non assomiglia più in nulla a un partito politico. È un grande comitato elettorale in cui viene selezionata la corte che ha accesso alla presenza del Capo. Non viene richiesta alcuna professionalità politica pregressa, nessuna formazione o esperienza amministrativa. Solo disponibilità a mentire in pubblico e obbedire agli ordini.
Sembra un dispositivo di potere fenomenale, ma è debolissimo, come dimostra la vicenda dei sindaci (vi ricordate, c'era addirittura un “movimento dei sindaci”, molto tempo fa – tre o quattro anni...).
Ovvio che la “spallata” non arriverà mai dall'interno, neanche se si dovesse affermare l'unico comitato elettorale per ora estraneo a questa logica, ovvero i “grillini”.
Ci vuole un movimento popolare vero, rabbioso e informato. A partire dall'informazione fondamentale: il cuore del potere oggi sta nell'Unione Europea. Se non si rompe questa, non ci può esser alcun cambiamento reale. Basta chiedere ai greci...
Non c'è alcun vuoto di potere, anzi... C'è un vuoto di rappresentanza e di classe politica all'altezza. In questo vuoto, di solito, germogliano le dittature.

martedì 13 ottobre 2015

A Oriente e a Occidente

Se i simboli hanno ancora un significato nell’essenza di un Paese, oggi più che mai la Russia può essere rappresentata dall’Aquila bicipite, che nel 1993 Boris Eltsin decise di ripristinare come simbolo della Federazione, dopo gli anni dell’Unione Sovietica. Due teste, una che volge lo sguardo a Oriente e una che volge lo sguardo a Occidente, e che identificano pienamente la scelta strategica di Mosca di considerarsi il vero fulcro del mondo euroasiatico, soprattutto in un mondo che vede di nuovo la contrapposizione con il mondo atlantico. Se le due testa indicano le sfere di interesse del Cremlino sulle vicende del mondo, le due testa sono anche lo sguardo attento che la Russia deve avere ed ha negli ultimi tempi sui suoi vicini. E mentre l’Oriente è rappresentato dall’Isis e della Siria, dagli alleati iraniani e dall’appoggio ad Hezbollah, l’Occidente della Russia è oggi rappresentato dai movimenti militari che la NATO sta attuando sul territorio confinante con la Russia, dal Baltico all’Ucraina. Negli ultimi tempi infatti si susseguono notizie sicuramente allarmanti per la rete strategica di difesa della Russia.
La NATO il primo settembre ha annunciato l’apertura di ben sei nuove basi militari in Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Bulgaria e Polonia (ma saranno, a detta degli uffici centrali, pienamente operative solo nella prossima estate) e ha reso effettivo l’impegno ad aumentare la presenza di soldati della coalizione nordatlantica da 13mila a 40mila unità su tutto il territorio. Nel frattempo, mentre la flotta russa del Mar Caspio bombarda le postazione dell’Isis in Iraq e Siria, il Regno Unito annuncia l’invio di un piccolo contingente nel Baltico e la Marina militare americana ha appena inviato un cacciatorpediniere nel porto di Odessa allo scopo di svolgere attività congiunte con la marina ucraina. Lo scacchiere internazionale per la Russia vede quindi due focolai attivi e pericolosissimi ai suoi confini, due centri di interessi fondamentali e accomunati da un destino comune, perché le azioni in uno scenario si riverberano sull’altro. Se infatti gli Stati Uniti e la NATO si sono lasciati sorprendere dalla sagace tattica dello Zar Putin a sud del Caucaso, dall’altro, in Ucraina come nel Mar Baltico, si sono da subito attivati per rendere la vita difficile alla Russia e posizionarsi in una situazione di possibile vantaggio nel continente europeo. Perciò, mentre Putin sta vincendo la partita contro l’Occidente trasformando il conflitto contro l’Isis in una grandiosa prova di forza del proprio esercito e della propria strategia internazionale, con la Mezzaluna sciita pronta a sostenerlo nella lotta contro il Califfato e nella resistenza alla distruzione del terrorismo internazionale finanziato dai petroldollari sauditi e del golfo persico, nello scenario europeo rischia di rimanere col fianco scoperto per i colpi inferti dalle sanzioni economiche, dal dispiegamento delle forze militari occidentali e dal problema del Mar Nero.
Tuttavia, anche in questo caso, l’Occidente si trova di fronte a un avversario ben più attivo e furbo di quanto avesse sospettato. Ancora una volta quindi l’Aquila bicipite ha osservato ben vigile i due fronti, e ancora una volta, non si è fatta sorprendere. Denis Pushilin e Vladislav Deinego, i rappresentanti delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk hanno infatti comunicato a Kiev che le elezioni locali in programma nelle due regioni tra ottobre e novembre saranno posticipate al 2016. Una mossa, quella dei separatisti filorussi, sicuramente appoggiata dal Cremlino, che sa di apertura verso il cosiddetto Quartetto Normandia e che ha certamente spiazzato il governo di Kiev, soprattutto se paragonato alla mossa, chiaramente ostile, con cui il Parlamento ucraino ha approvato una legge che prevede la possibilità dell’arruolamento nell’esercito regolare di cittadini stranieri, per i filorussi, una legalizzazione dei mercenari. La mossa delle repubbliche popolari allenta quindi la tensione e permette alla Russia di raffreddare le acque del Mar Nero e permette ancora una volta di concentrare gli sforzi nel rafforzamento del proprio ruolo di guida del fronte dei paesi non-allineati con la rete di alleanze occidentali.

lunedì 12 ottobre 2015

I governi occidentali criticano l’intervento russo in Siria e difendono gli assassini definendoli “oppositori”

In questi giorni, di fronte all’intervento russo in Siria che sta colpendo decisamente i centri vitali dei gruppi dei terroristi takfiri che infestano il paese, la reazione del governo USA e dei suoi alleati è quella di chiedere a Mosca di sospendere i suoi attacchi che vengono tacciati di un possibile effetto di “aggravamento” della situazione nel paese e si accusa Mosca di colpire, oltre all’ISIS, gli “oppositori” del regime di Al-Assad.
A queste accuse, che vengono rilanciate anche da Londra, da Parigi e da Ankara, le capitali dei paesi che fanno parte della coalizione anti terrorismo che, per un anno e più, in Siria ed in Iraq, ha segnato il passo senza avere alcun effetto contro i terroristi, si aggiunge il coro dell’apparato mediatico occidentale che in questi anni ha deformato e manipolato le notizie sulla Siria ed ancora oggi prosegue nell’opera di propaganda e disinformazione.
Si commisera la sorte degli “oppositori” del regime siriano, trascurando il fatto che questi denominati “oppositori” appartengono ai gruppi come il “Fronte Al Nusra” e la “Ahrar al Sham”, organizzazioni queste di stampo terroristico (definite in tal modo anche dall’ONU e dalla stessa Amministazione USA in precedenza) composte da tagliagole jihadisti che si sono macchiati dei peggiori crimini, uccidendo e torturando persone inermi, condannate per non essersi volute convertire alla fede islamica professata dai miliziani.
Appare incredibile l’ipocrisia dei governi occidentali che, non soltanto hanno appoggiato ed inviato tonnellate di armi a questi gruppi terroristi con l’idea che potessero rovesciare il governo di Assad ma non hanno neppure mosso un dito per difendere la popolazione siriana dai tagliagole.
I governi occidentali hanno fatto di più: hanno imposto un blocco totale all’invio di aiuti alla popolazione siriana, generi di necessità e medicinali compresi. Tanto meno si sono mossi gli stessi governi occidentali per difendere le comunità cristiane, drusi e sciite che sono rimaste vittime della violenza brutale dei miliziani jihadisti ed oggi sono gli stessi che, accompagnati dal coro mediatico, versano “lacrime amare” sui “poveri oppositori” bombardati dagli aerei russi e stretti nella morsa dall’Esercito siriano.
I dirigenti occidentali hanno fatto vaghe referenze circa quello che intendono per “opposizione moderata” che il presidente Obama ha invocato in una conferenza stampa per Venerdì. In realtà appare chiaro che le forze sul terreno, che gli USA ed i loro alleati stanno difendendo e cercando di proteggere dagli attacchi aerei russi, sono il Fronte Al Nusra, il ramo siriano di Al Qaeda e Ahrar al Sham, l’altro gruppo estremista takfiri che coopera con Al Nusra.
L’opinione pubblica europea dovrebbe vedere dal vero chi sono questi ” oppositori moderati” e osservare attentamente i video in cui i miliziani di Al Nusra crocifiggono i cristiani, tagliano la testa e sgozzano e bruciano vivi i prigionieri, torturano donne e bambini che fanno parte delle minoranze confessionali ed altre brutalità, per poter poi avere il diritto di “sputare in faccia” (metaforicamente) ai personaggi come Francois Hollande, il ministro francese Manuel Valls, Davide Cameron e gli altri che fanno oggi il “coro del pianto ” per convincere della necessità di fermare l’attacco russo che sta annientando i gruppi miliziani jiadisti.

domenica 11 ottobre 2015

Iraq, prove tecniche di liberazione dagli Usa

È arrivata persino la benedizione dalle autorità religiose. L’alleanza tra Iraq, Siria, Iran e Russia rappresenta un “passo nella giusta direzione”. A scriverlo in un comunicato è stato il capo del Consiglio supremo islamico iracheno, Ammar al Hakim, in riferimento alla creazione di un Centro per il coordinamento “’intelligence quadripartito istituito a Baghdad” per coordinare la loro campagna militare contro lo Stato islamico. Inoltre la presidente della Camera alta del Parlamento di Mosca,Valentina Matviyenko, citata dall’agenzia di stampa Ria, ha fatto sapere che sarà valutata la possibilità di estendere all’Iraq gli attacchi aerei che sta compiendo in Siria nel caso in cui ricevesse esplicita richiesta dal premier sciita Haider Al Abadi. Di fatto, a quattro anni dal ritiro dei militari della Nato, si fa sempre più concreto il raffreddamento dei rapporti tra il governo iracheno e gli Stati Uniti, il quale sta entrando progressivamente sotto la sfera di influenza degli Ayatollah. Già Nouri Al Maliki, predecessore dell’attuale primo ministro, condusse la resistenza contro Saddam Hussein proprio da Teheran, città nella quale strinse solidi rapporti con il clero e il governo iraniano.
Ma c’è un segnale ancora più indicativo – passato sottotraccia nei giornali italiani – che conferma l’allontanamento dell’Iraq dalla sfera d’influenza statunitense. Al Abadi ha annunciato domenica che la “Green Zone” di Baghdad è stata aperta al pubblico per la prima volta in 12 anni, anche se con molte restrizioni rimanenti. “È una delle misure che avevamo promesso al popolo”, ha detto il premier iracheno. Occupata dopo l’invasione del 2003 da parte delle forze statunitensi, quest’area situata nel cuore della capitale, di fianco al fiume Tigri, ha una superficie di 10 km2, ospita la sede del governo e di diverse ambasciate (tra cui quella nordamericana) ed è circondata da muri di cemento alti rinforzati dal filo spinato, protetti da carri armati, veicoli corazzati e membri di un corpo d’elite di sicurezza. Pur essendo tornata sotto il controllo delle autorità irachene dopo il ritiro statunitense la “Green Zone” è sempre stata il simbolo dell’occupazione americana. Non a caso è stata più volte presa di mira nel corso degli anni, soprattutto al culmine della guerra civile tra il 2006 e il 2008. Inoltre questa è diventata sinonimo di scollegamento tra le élite e il popolo iracheno.
Alcuni reporter l’hanno infatti descritta come la riproduzione in piccola scala di una grande metropoli occidentale: un’area protetta con le sue ville di lusso, mentre fuori la gente comune subisce la violenza della quotidianità. Nella sua dichiarazione, Al Abadi ha presentato la riapertura parziale della zona come parte del percorso di riforme. Un’iniziativa che però non è piaciuta a Washington: “Abbiamo più volte espresso le nostre preoccupazioni circa l‘allentamento delle restrizioni” avrebbe affermato il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner, nel corso di una conferenza stampa. Aggiungendo: “Monitoreremo attentamente le condizioni di sicurezza e continueremo ad adattare l’apparato di sicurezza della nostra ambasciata se necessario”.

venerdì 9 ottobre 2015

La farsa dell'accordo Tpp di "libero scambio"

Mentre i negoziatori e i ministri degli Stati Uniti e degli altri 11 paesi del Pacifico si incontrano ad Atlanta per definire i dettagli dell’accordo senza precedenti noto come Accordo Trans-Pacifico (‪#‎TPP‬), un’analisi più seria si rende necessaria. L’accordo più importante della storia sul commercio e gli investimenti non è come sembra.
Si sentirà parlare molto dell’importanza del Tpp per il “libero scambio”. La realtà è che si tratta di un accordo che punta a gestire i rapporti commerciali e di investimento tra i suoi membri – e a farlo per conto e nell’interesse delle più potenti lobby di ciascun paese. Badate bene: è evidente, considerando le principali questioni sulle quali i negoziatori stanno ancora contrattando, che il Tpp non ha niente a che fare con il “libero” scambio.
La Nuova Zelanda ha minacciato di abbandonare l’accordo a causa del modo in cui il Canada e gli Stati Uniti gestiscono il commercio dei prodotti lattiero-caseari. L’Australia non è soddisfatta di come gli Usa e il Messico gestiscono il commercio dello zucchero. E gli Stati Uniti non sono contenti di come il Giappone gestisce il commercio del riso. Questi settori sono sostenuti da una significativa quota di elettori nei loro rispettivi paesi. Ed essi rappresentano solo la punta dell’iceberg del modo in cui il Tpp porta avanti il suo programma, che nella realtà contrasta il libero commercio.
Per cominciare, consideriamo quello che prevede l’accordo per estendere i diritti di proprietà intellettuale delle grandi compagnie farmaceutiche, come è emerso dalle notizie trapelate sul testo oggetto dei negoziati. La ricerca economica dimostra chiaramente che tali diritti di proprietà intellettuale promuovono una ricerca che nella migliore delle ipotesi risulta debole. In realtà è proprio vero il contrario: quando la Corte Suprema ha annullato il brevetto di Myriad sul gene Brca, questo ha portato a una grande innovazione che ha condotto a test migliori e a costi più bassi. In realtà, le disposizioni contenute nel Tpp limiterebbero la libera concorrenza e aumenterebbero i prezzi per i consumatori negli Stati Uniti e in tutto il mondo – un anatema per il libero commercio.
Il Tpp gestirà il commercio nel settore farmaceutico attraverso una varietà di modifiche di norme apparentemente arcane su questioni come “protezione dei brevetti” “esclusività dei dati” e “biologia”. Il risultato è che le società farmaceutiche avrebbero di fatto il permesso di prolungare – a volte quasi indefinitamente – il loro monopolio sui farmaci brevettati, di tenere i generici più economici fuori dal mercato e impedire ai concorrenti “bioequivalenti” di introdurre nuovi farmaci per anni. Questo è il modo in cui il Tpp gestirà il commercio del settore farmaceutico se gli Stati Uniti andranno avanti per la loro strada.
Allo stesso modo, consideriamo come gli Stati Uniti sperano di usare il Tpp per gestire il commercio nell’industria del tabacco. Per decenni, le società statunitensi del tabacco hanno utilizzato meccanismi di aggiudicazione degli investitori esteri creati da accordi simili al Tpp al fine di combattere le normative tese a contenere la piaga sociale del fumo. In base a questi sistemi di regolazione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS), gli investitori stranieri acquisiscono nuovi diritti per citare in giudizio i governi nazionali, ricorrendo ad arbitrati privati vincolanti sui regolamenti che a loro avviso diminuiscono la redditività dei loro investimenti.
Gli interessi delle società internazionali promuovono l’IDSD come un sistema necessario per proteggere i diritti di proprietà laddove manca uno Stato di diritto e dei tribunali attendibili. Ma questo argomento non ha senso. Gli Stati Uniti stanno cercando di introdurre lo stesso meccanismo in un mega-accordo dello stesso tipo con l’Unione europea, L’Accordo transatlantico per il commercio e gli investimenti, anche se non ci sono dubbi circa la qualità dei sistemi giuridici e giudiziari europei.
Certamente, gli investitori – a qualsiasi stato appartengano – meritano tutela contro l’espropriazione o le norme discriminatorie. Ma l’ISDS va ben oltre: l’obbligo di risarcire gli investitori per le perdite dei profitti attesi può ed è stato applicato anche laddove le regole non sono discriminatorie e i profitti sono realizzati causando un danno sociale.
La Philip Morris è attualmente in causa contro l’Australia e l’Uruguay (che non è membro del TPP) che richiedono che siano poste delle avvertenze sui pacchetti di sigarette. Il Canada, minacciato di una denuncia simile, ha fatto marcia indietro sull’introduzione di un’etichetta dello stesso tipo pochi anni fa.
Dato il velo di segretezza che circonda i negoziati TPP, non è chiaro se il tabacco verrà escluso da alcuni ambiti dell’ISDS. In entrambi i casi, rimane la questione principale: queste disposizioni rendono difficile ai governi di svolgere le loro funzioni basilari – proteggere la salute e la sicurezza dei propri cittadini, garantire la stabilità economica e salvaguardare l’ambiente.
Immaginate cosa sarebbe successo se tali disposizioni fossero state in vigore quando sono stati scoperti gli effetti letali dell’amianto. Invece di far cessare l’attività e costringere i produttori a risarcire coloro che erano stati danneggiati, sotto la regolamentazione dell’ISDS i governi avrebbero dovuto pagare i produttori per fare in modo che non causassero la morte dei propri cittadini. I contribuenti sarebbero stati colpiti due volte – prima pagando i danni alla salute causati dall’amianto, e poi risarcendo i produttori per la perdita di profitto una volta che il governo fosse intervenuto per regolamentare il prodotto pericoloso.
Non dovrebbe sorprendere nessuno il fatto che gli accordi internazionali dell’America creino un commercio gestito invece che un libero commercio. Questo è ciò che accade quando il processo decisionale è precluso alle parti portatrici di interessi non-commerciali, per non parlare dei rappresentanti eletti dal popolo al Congresso.

giovedì 8 ottobre 2015

2015: fine delle menzogne americane

Il 2015 verrà ricordato sui libri di storia come un anno fondamentale nell’avventura del genere umano su questa terra: l’anno in cui la menzogna americana s’è mostrata a tutti per quello che è. Nuda, senza più veli, perché altro non poteva più fare.
Sono anni, decenni, secoli addirittura, che l'America taglieggia, deruba, preda, attacca e distrugge (per "ricostruire"!), usando la più grande macchina di raggiro mai messa in piedi: i cosiddetti "mass media".
Anche solo mantenendoci a questi ultimi anni (non sia mai detto che la nostra "liberazione" venga messa in discussione!), ne abbiamo sentite di tutti i colori pur di giustificare le intenzioni malvagie degli Usa: "armi di distruzione di massa", "esportazione della democrazia", "violazioni dei diritti umani", "brogli elettorali", "intervento umanitario", "bombardamenti chirurgici". La lista dei pretesti escogitati dall'America per attaccare a destra e a manca è praticamente senza fine, perché senza fine è la brama di sottomettere e sfruttare tutto e tutti.
Troppe autorizzazioni da chiedere, gli USA vogliono un'area Shengen per i tank
Una serie inesauribile di frottole con tanto di teatrino (come quella sull'antrace iracheno) che tutto il mondo a loro sottomesso ha dovuto fagocitare a colazione, pranzo e cena, quando per un'inveterata quanto nociva abitudine ci si piazza davanti ad un telegiornale.
Col passar del tempo, effettivamente, sono sempre più quelli che qualche dubbio sulle amorevoli e filantropiche intenzioni americane se lo sono posto (la favola dell'11/9 è troppo grossa), ma in qualche modo, coi loro giochi da illusionisti della politica e della "comunicazione" (si pensi alla carta del "presidente di colore"), sono riusciti ancora a tirarsi dietro un certo consenso.
Ma è bastato l'inizio dei raid aerei russi in Siria a far saltare il tappo sul pentolone delle bugie dell'America. Un pentolone dal quale è uscito di tutto e di più: "Mosca attacca i nemici di Assad" (e cosa dovrebbe fare, di grazia???); "la Russia deve coordinarsi con la Comunità internazionale" (che coraggio, detto da chi fa da sempre come gli pare); "i raid russi provocano vittime civili, tra cui bambini" (ma guarda un po', all'improvviso sono diventati dal cuore tenero!).

Il culmine di questa fuoriuscita di liquami nauseabondi (perché questo è l'odore dell'essenza, del concentrato dell'impostura) è stato il senatore McCain, che ha strillato — subito ripreso da tutte le solerti agenzie occidentali, senza più una stilla di senso del ridicolo: "La Russia attacca i ribelli finanziati dalla Cia!".
Il cerchio si chiude: a forza di menzogne si finisce per dire la verità.
Un momento che prima o poi doveva arrivare. Quello in cui i peggiori delinquenti, ladri e truffatori che la storia umana abbia mai visto confermano le stesse identiche cose che un'informazione cosiddetta "alternativa" — che ovviamente, anche se letta da tutti, non ha diritto di cittadinanza sui "grandi media" — ripete incessantemente da anni.
A credere (per contratto) alle panzane americane sono davvero rimasti solo certi giornalisti ed il loro contorno di politicanti da strapazzo di un'Italia che, anche solo a giudicare dai commenti dei lettori di qualsiasi testata, sta con Putin e la Russia, ma che rischia di essere trascinata nel baratro nel quale, assieme alle sue menzogne, finirà presto l'America.

mercoledì 7 ottobre 2015

Il vero scontro non è tra la Russia e l’Isis, ma tra la Russia e l’Occidente

Il futuro a breve termine potrebbe riservarci scenari fino a poco tempo fa improbabili. Come quello di una Russia egemone e padrona indisturbata del Medio Oriente, dove l’immobilismo di Usa ed Europa stanno producendo solo vantaggi per la politica estera di Mosca. Direttamente dalla Giordania, dove è in visita assieme a una delegazione ufficiale di parlamentari per discutere di cooperazione economica e militare, il presidente del Consiglio della Federazione russa, Valentina Matvienko, ha fatto sapere che la Russia potrebbe esaminare l’ipotesi di una serie di attacchi aerei militari contro i militanti dello Stato islamico in Iraq, qualora dovesse ricevere dal governo di Baghdad una richiesta in tal senso. «Nel caso di una richiesta ufficiale dell’Iraq alla Federazione Russa – ha detto Matvienko – la leadership del paese prenderà in considerazione la fattibilità politica e militare del coinvolgimento delle nostre forze aeree in operazione sul campo. Tale richiesta non è stata ancora fatta, dunque vi prego di non specularci sopra».
Nel frattempo caccia da combattimento russi, Sukhoi Su-25, Su-24M e bombardieri Su-34, hanno cominciato raid aerei intorno alla città di Palmira, nella Siria centrale. A renderlo noto è stata la tv di stato siriana, secondo la quale l’aviazione russa ha iniziato a bombardare l’area che una volta era la sede di uno dei principali siti archeologici del paese, rasa al suolo dalla foga dai terroristi islamici.
Il vero scontro in queste ore, però, non è tra la Russia e l’Isis, ma tra la Russia e l’Occidente. La Nato oggi, attraverso il segretario generale Stoltenberg, è tornata ad accusare Mosca di colpire i civili e non i militanti del califfato. «Chiedo alla Russia di evitare nuove tensioni con la Nato», ha detto Stoltenberg, definendo inaccettabile la violazione dello spazio aereo turco da parte dei jet russi. Un’accusa, quella del diplomatico norvegese, che a Mosca non ha affatto gradito. “Giusto l’altro giorno la Nato ha bombardato un ospedale pieno di civili a Kunduz e ora ci vengono a fare la morale”, è il ragionamento che fanno dalle parti del Cremlino.
La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, è tornata ad attaccare i media occidentali, accusandoli di aver orchestrato «una forte campagna anti-russa contro le operazioni di Mosca in Siria», mentre Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino, ha dichiarato che la Russia sta lavorando esclusivamente per colpire i gruppi terroristi presenti sul territorio siriano. «Più volte sia il presidente della Russia che i militari – ha detto Peskov - hanno sottolineato che l'obiettivo degli attacchi sono le organizzazioni e i gruppi terroristici che si trovano sul territorio della Siria e che stanno attaccando le forze armate e le città di questo Paese. Lì di questi gruppi ve ne è un gran numero».
Intanto a sparigliare ancora di più le carte potrebbe arrivare volontari russi che hanno combattuto nell’ultimo anno e mezzo a fianco dei separatisti del Donbass, in est Ucraina. Vladimir Komoyedov, presidente della Commissione Difesa del Parlamento russo, non ha escluso una ipotesi del genere dopo le dichiarazioni del presidente ceceno, Razman Kadyrov, che aveva annunciato di essere pronto, ma solo dopo un eventuale via libera di Putin, ad inviare forze in Siria per operazioni speciali. «Sicuramente, unità di volontari russi combattenti saranno tra le file dell'esercito siriano», ha fatto sapere Komoyedov. Secondo fonti russe, sono tra 2.500 e 5mila i 'foreign fighters' russi che potrebbero presto sbarcare in Siria. Il Cremlino ha chiarito che non ha intenzione di inviare truppe di terra in Siria, proseguendo esclusivamente con i raid aerei a sostegno delle forze di Assad.

martedì 6 ottobre 2015

Il feticcio Marchionne travolto dagli operai americani

Gli operai delle fabbriche FCA degli Stati Uniti hanno bocciato la proposta di rinnovo del contratto quadtriennale di lavoro presentata dall’UAW e da Marchionne. Una dopo l’altra dalle grandi fabbriche è arrivata la conferma, nonostante l’insistenza dell’UAW di non ammettere la sconfitta. I margini sono rilevanti, dal 72 per cento di no degli operai di linea e al 65 per cento degli specializzati a Sterling Heights (3 mila dipendenti), all’87 e rispettivamente l’80 per cento di Toledo (5 mila dipendenti), al 77 e 65 per cento di Kokomo/Tipton con livelli che acquistano il significato di un’ondata di protesta liberatoria. L’ultima fabbrica, su cui l’UAW contava per evitare la disfatta, è stata Belvidere con 6 mila votanti: 65 per cento no tra gli operai di linea e 70 tra gli specializzati.
Il contratto avrebbe dovuto introdurre elementi che Marchionne ha definito trasformativi. In realtà la portata trasformativa è nascosta nelle pieghe della proposta, e riguarda i punti sui quali gli operai, nelle assemblee, hanno più insistito: ‘equal work, equal pay’, e ‘alternative work schedules’. Se l’UAW fosse riuscito a mettere una pietra tombale nei termini della proposta su queste due rivendicazioni di fondo, l’una salariale, l’altra relativa alle condizioni di lavoro, il proposito trasformativo di Marchionne si sarebbe realizzato.
Eguale lavoro, eguale paga è una richiesta pressante. Si tratta di eliminare i due livelli salariali che dividono i “veterans” dai lavoratori “in progression”. Al primo livello i ‘veterans’ assunti prima del 2007 hanno un salario di 28 dollari all’ora; al secondo livello i lavoratori ‘in progression’, 15-16 dollari, per lo stesso lavoro dei veterans. L’accordo bocciato prevede per i primi un aumento del salario del 3 per cento subito e di un altro 3 per cento al terzo anno, più 4 per cento una tantum al secondo e al quarto anno; per i secondi una progressione salariale da 17 a 25 dollari in sei anni.
La portata trasformativa perseguita da Marchionne e denunciata dai lavoratori, sta nel fatto che la proposta non solo realizza l’obiettivo del salario eguale per eguale lavoro, ma conduce ad un abbassamento generalizzato dei salari, quando i veterans vanno, magari incentivati, in pensione.
Nell’accordo contrattuale del 2011 questa possibilità era ben presente al sindacato, tanto che per evitarla aveva imposto un limite al numero di lavoratori al secondo livello. Nella proposta di accordo questo limite non c’è più.
Finora il limite per la Chrysler era del 40 per cento (anche se è giunta al 43). Con questo contratto era previsto che sarebbe stato portato al 25, all’incirca allineato alla Ford e alla GM (29 e 20 per cento). Questo limite già costringe la Ford ad ogni nuova assunzione a passare un dipendente dal secondo al primo livello. Se alla Chrysler fosse stato introdotto il limite di 25, circa 7 mila lavoratori avrebbero dovuto passare al prinmo livello.
Sul piano salariale ci sono altri problemi irrisolti. Per i lavoratori della Mopar che si occupano dei pezzi di ricambio è previsto un terzo livello slariale, di 22 dollari. Inoltre, non vengono reintrodotti vari elementi salariali aggiuntivi sospesi con gli accordi precedenti, come l’adeguamento del costo della vita, che ora sarebbero assorbiti da premi di produttività commisurati ai margini annuali di profitti realizzati nel Nord America.
Sul miglioramento delle condizioni di lavoro non c’è traccia nell’accordo. Si dà per scontato l’attuale generalizzato sistema di turnazioni 3-2-120, a proposito del quale nelle assemblee si erano levate proteste: aumenta lo sfruttamento al limite della sostenibilità fisica, e scardina le relazioni sociali fuori dall a fabbrica.
Le giornate lavorative di 10 ore (più mezz’ora di pausa non retribuita) si succedono su quattro giorni. Nell’arco della giornata due turni su orari complementari, l’uno di giorno l’altro di notte, assicurano l’efficienza continua degli impianti dal lunedì al sabato. Nei due turni tre gruppi di lavoratori realizzano 120 ore settimanali, senza lavoro straordinario. Un gruppo lavora di giorno da lunedì a giovedì, un altro di notte da mercoledì a sabato, un terzo gruppo lavora di giorno venerdì e sabato e di notte lunedì e martedì della settimana successiva. L’orario di lavoro diurno va dalle 6 alle 16.30, quello notturno dalle 18 alle 4.30 del giorno dopo. Alla domenica il lavoro è obbligatorio, ma retribuito come straordinario.
Quello delle condizioni di lavoro è un punto che il Detroit News del 25 settembre segna tra quelli che hanno generato insoddisfazione. La proposta di contratto infatti non se ne occupa se non per annunciare che il sabato sarà pagato un quarto in più. Viceversa annuncia che commissioni congiunte UAW e FCA verificheranno in ogni fabbrica le condizioni di competitività per migliorare la qualità e l’efficienza, superando nei fatti la divisione di competenze tra ciò che di norma è oggetto del master agreement e rispettivamente dei local agreements a livello di fabbrica.
L’UAW, a differenza del passato, rinuncia con questa proposta di contratto a negoziare l’assetto produttivo della Chrysler. Marchionne ha promesso investimenti per 5,3 miliardi di lire, ed ha fatto sapere che intende trasferire in Messico la produzione delle autovetture, lasciando agli stabilimenti statunitensi sono suv, pick-up, e jeep. E’ prevista anche una riallocazione di alcune linee di produzione tra questi stabilimenti. Il costo del lavoro nel Nord America si aggira sui 60 dollari all’ora, in Messico è meno di 10. Tutto questo è stato comunicato dall’UAW verbalmente nelle assemblee di fabbrica, e la mancanza di indicazioni contrattuali circa la sicurezza occupazionale sembra, in alcuni contesti, aver pesato non poco sulla decisione di voto.
Infine c’è un altro grosso tema che desta preoccupazioni. Il passaggio del sistema sanitario dalle competenze dell’azienda a quelle di un costituendo ente mutualistico gestito dall’UAW. E’ una soluzione che dovrebbe rientrare tra i propositi trasformativi di Marchionne. Con una cessione una tantum al neo costituendo ente si libererebbe del peso crescente del sistema sanitario, che attualmente grava sul bilancio aziendale per 600 milioni. L’UAW si troverebbe a gestire il nuovo ente mutualistico su cui dovrebbero confluire i lavoratori occupati di tutte e tre le case automobilistiche di Detroit. Si affiancherebbe all’altro ente mutualistico, noto come Veba, dei lavoratosi in pensione, con l’obiettivo di abbassare i costi degli interventi.
L’iniziativa è collegata all’entrata in vigore nel 2018 dell’Affordable Care Act con cui Obama ha generalizzato l’assicurazione sanitaria, facendo ricadere l‘onere su coloro che si avvalgono dei cosidetti Cadillac plans, che erogano prestazioni i cui costi sono superiori a 10.200 dollari nel caso di individui e 27.500 nel caso di famiglie. Le eccedenze di costo rispetto a questa cifra sono soggette ad una tassa del 40 per cento, ed è la situazione in cui si trovano i lavoratori Chrysler di primo livello.
Nel 2013 molti dirigenti sindacali avevano avvertito Obama che la legge, allora in discussione, avrebbe smantellato diritti conquistati dai lavoratori. L’UAW si era invece schierata con Obama. “Cieca ideologia politica”, come venne scritto, o prospettiva di più lungo periodo?
La costituzione del nuovo ente mutualistico è una delle top priorities del contratto, ha dichiarato Dennis Williams, presidente dell’UAW, al Detroit Free Press il 22 agosto scorso. Con 140 mila lavoratori e d’intesa con l’ente mutualistico dei pensionati che conta 900 mila iscritti, potrebbe comprimere i costi dell’assistenza al di sotto della soglia Cadillac. Lo stesso Williams non è certo di riuscirci, ma per l’UAW è un'altra struttura economica di rilevante importanza, e per Marchionne un modo per liberarsi, con una qualche somma forfettaria ancora non definita, di un costo di 600 milioni che va crescendo. La proposta di contratto è una delega in bianco richiesta ai lavoratori da Marchionne e dall’UAW, che non ha preso in considerazione altre possibili alternative contrattuali.
Dennis Williams e Marchionne insieme hanno dato l’annuncio dell’intesa contrattuale convocando una conferenza che la stampa ha definito senza precedenti. Hanno dato rassicurazioni circa la soluzione dei problemi di fondo ed hanno riaffermato l’allineamento degli interessi del sindacato e dell’azienda, dando per scontata l’approvazione dei lavoratori. Marchionne ha anche inviato loro un messaggio personale, sottolineando l’importanza di un loro maggiore e più diretto coinvolgimento per la costruzione del comune futuro, confermando in particolare il superamento dei due livelli salariali e il rilievo della costituzione del nuovo ente mutualistico per la salute dei dipendenti.
Ma la proposta di contratto è bocciata. Che cosa potrebbe succedere? Norwood Jewell, vice presidente dell’UAW che si occupa della Chrysler, aveva detto agli operai: “Sul tavolo non c'erano altro che questi soldi. Se pensate un minuto che Chrysler possa continuare ad investire in questo paese per aumentare i nostri salari così tanto da non poter competere, i conti non tornano”.
La caparbietà di Marchionne è nota, ed è improbabile che voglia abbassare ulteriormente la credibilità dell’UAW mettendo sul piatto altri soldi. Del resto, “perché dovrebbe aver fretta di sedersi e discutere di un contratto ancora più costoso?” si chiede un analista di Detroit Free Press il 25 settembre. ”Marchionne è ampiamente considerato come un negoziatore scaltro che sa come usare la pressione come leva”. La risposta dimentica che questa volta c’è la possibilità di smuoverlo con uno sciopero. L’ultima volta che i lavoratori della Chrysler hanno scioperato fu nel 2007, ed era uno hollwood strike. L’UAW ha già il mandato per dichiararlo, ma si troverebbe in una situazione davvero imbarazzante, considerata la complessità dei rapporti con Marchionne.
Potrebbe ancora schierarsi con Marchionne e mantenere in vita l’attuale contratto. Avrebbe il vantaggio di tener legati i lavoratori all’UAW e incassare le loro quote, dal momento che la legge del Michigan e dell’Indiana che hanno recepito il principio del right to work è applicabile solo a partire dal nuovo contratto. Fino ad allora i dipendenti della Chrysler devono, salvo complesse procedure, stare iscritti all’UAW pena il licenziamento.
L’abbraccio del presidente dell’UAW con Marchionne è stato oggetto di ripetute rappresentazioni. E’ un messaggio dato ai propri iscritti nel tentativo di erigere Marchionne a feticcio, rassicurandolo della capacità del sindacato di mantenere nelle fabbriche la disciplina e di contenere i costi. “Stanno nello stesso letto”, è stato osservato. Ma nell’amplesso con Marchionne l’UAW ha perso il rapporto con i lavoratori.

L’amplesso si è stretto il 20 gennaio 2014 quando l’ente mutualistico dei lavoratori pensionati controllato dall’UAW ha venduto alla Fiat il 41,5 per cento della proprietà dell’azienda, che deteneva dal 2009 in base agli accordi legati alla bancarotta. Ha incassato 4,35 miliardi di dollari, meno di quello che aveva fino a quel momento energicamente preteso. Era sembrato un cedimento, in realtà un mese dopo Marchionne ha versato all’ente mutualistico in un’unica soluzione altri 5 miliardi di dollari, quelli che, in base agli accordi legati alla bancarotta, avrebbe potuto rateizzare fino al 2023.
Con un accordo separato ma contestuale, ha anche garantito direttamente al sindacato, da anni in crisi finanziaria, altri 700 milioni di dollari, in 4 rate annuali di 175 milioni, la prima subito, le altre all’inizio dei tre anni successivi fino al 2017. Come contropartita l’UAW si è vincolata a collaborare con il management delle fabbriche nell’implementazione dei programmi di World Class Manufacturing, partecipando attivamente alle attività collegate di benchmarking e contribuendo al raggiungimento del piano industriale.
Il rifiuto della proposta di contratto indica che la pace sociale in fabbrica, che l’UAW ha pensato di poter svendere a Marchionne, è un obiettivo socialmente non negoziabile.
L’ultimo affare che l’UAW ha messo in campo con Marchionne è la creazione del nuovo ente mutualistico. Ma l’intesa tra Marchionne e l’UAW potrebbe non fermarsi qua. Marchionne punta alla fusione con General Motors e l’UAW Retiree Medical Benefit Trust è il più importante investitore istituzionale della General Motors, di cui detiene l’8,9 per cento delle azioni. Non gli è data, in base a vincoli esistenti, la possibilità di agire in favore di Marchionne, ma su Automotive News del 21 settembre è ventilata l’ipotesi che Exor, la finanziaria che possiede FCA, potrebbe acquistarle e farne la punta di diamante per la conquista della General Motors.