domenica 31 maggio 2015

Mentre l'Isis occupa Ramadi, la seconda città dell'Iraq, e il giorno dopo Palmira nella Siria centrale, uccidendo migliaia di civili e costringendone alla fuga decine di migliaia, la Casa Bianca dichiara «Non ci possiamo strappare i capelli ogni volta che c'è un intoppo nella campagna contro l'Isis» (The New York Times, 20 maggio)
La campagna militare, «Inherent Resolve», è stata lanciata in Iraq e Siria oltre nove mesi fa, l'8 agosto 2014, dagli Usa e loro alleati: Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e altri. Se avessero usato i loro cacciabombardieri come avevano fatto contro la Libia nel 2011, le forze dell'Isis, muovendosi in spazi aperti, sarebbero state facile bersaglio. Esse hanno invece potuto attaccare Ramadi con colonne di autoblindo cariche di uomini ed esplosivi. Gli Usa sono divenuti militarmente impotenti? No: se l'Isis sta avanzando in Iraq e Siria, è perché a Washington vogliono proprio questo.
Lo conferma un documento ufficiale dell'Agenzia di intelligence del Pentagono, datato 12 agosto 2012, desecretato il 18 maggio 2015 per iniziativa del gruppo conservatore «Judicial Watch» nella competizione per le presidenziali 1.
Esso riporta che «i paesi occidentali, gli stati del Golfo e la Turchia sostengono in Siria le forze di opposizione che tentano di controllare le aree orientali, adiacenti alle province irachene occidentali», aiutandole a «creare rifugi sicuri sotto protezione internazionale». C'è «la possibilità di stabilire un principato salafita nella Siria orientale, e ciò è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l'opposizione, per isolare il regime siriano, retrovia strategica dell'espansione sciita (Iraq e Iran)». Il documento del 2012 conferma che l'Isis, i cui primi nuclei vengono dalla guerra di Libia, si è formato in Siria, reclutando soprattutto militanti salafiti sunniti che, finanziati da Arabia Saudita e altre monarchie, sono stati riforniti di armi attraverso una rete della Cia (documentata, oltre che dal New York Times2, da un rapporto di «Conflict Armament Research»).
Ciò spiega l'incontro nel maggio 2013 (documentato fotograficamente) tra il senatore Usa John McCain, in missione in Siria per conto della Casa Bianca, e Ibrahim al-Badri, il «califfo» a capo dell'Isis 3.
Spiega anche perché l'Isis ha scatenato l'offensiva in Iraq nel momento in cui il governo dello sciita al-Maliki prendeva le distanze da Washington, avvicinandosi a Pechino e Mosca.
Washington, scaricando la responsabilità della caduta di Ramadi sull'esercito iracheno, annuncia ora di voler accelerare in Iraq l'addestramento e armamento delle «tribù sunnite». L'Iraq sta andando nella direzione della Jugoslavia, verso la disgregazione, commenta l'ex segretario alla difesa Robert Gates. Lo stesso in Siria, dove Usa e alleati continuano ad addestrare e armare miliziani per rovesciare il governo di Damasco. Con la politica del «divide et impera», Washington continua così ad alimentare la guerra che, in 25 anni, ha provocato stragi, esodi, povertà, tanto che molti giovani hanno fatto delle armi il loro mestiere. Un terreno sociale su cui fanno presa le potenze occidentali, le monarchie loro alleate, i «califfi» che strumentalizzano l'Islam e la divisione tra sunniti e sciiti. Un fronte della guerra, al cui interno vi sono divergenze sulla tattica (ad esempio, su quando e come attaccare l'Iran), non sulla strategia.
Armato dagli Usa, che annunciano la vendita (per 4 miliardi di dollari) all'Arabia Saudita di altri 19 elicotteri, per la guerra nello Yemen, e a Israele di altri 7400 missili e bombe, tra cui quelle anti-bunker per l'attacco all'Iran.

sabato 30 maggio 2015

Ma quale ripresa

Un nuovo fantasma ha preso a spaventare il mondo: il declino della crescita cinese. Negli ultimi due decenni la potenza asiatica ha fatto da motore per la crescita globale, insieme alla sua controparte statunitense, arrivando ad una crescita del Pil a doppia cifra e diventando a partire dagli anni ’80 la fabbrica del pianeta. Grazie alle riforme di Deng Xiaoping la Cina è diventata la seconda potenza economica, tanto da fare parlare nei primi anni 2000 dell’ascesa del “secolo cinese”. Eppure, in anni non sospetti, diversi esperti hanno manifestato evidenti preoccupazioni riguardo la crescita cinese, paventando una continua alterazione dei conti da parte del regime di Pechino, oltre che la presenza di una gigantesca bolla immobiliare (le famose metropoli vuote costruite nel nulla). Alcuni negli anni passati erano arrivati a teorizzare un possibile “hard landing” per l’economia del dragone, con tassi di crescita addirittura inferiori al 3%. Una possibilità che potrebbe diventare reale nel biennio 2015/16, dato che i segni di rallentamento continuano a moltiplicarsi con riflessi su tutte le economie dell’estremo oriente, dal Giappone che vede sparire gli effetti del suo QE, alla Corea del Sud che incomincia ad avvicinarsi alla recessione.
Ad Occidente il quadro non migliora affatto a causa delle continue turbolenze causate dal dramma greco all’interno della area Euro, il quale sta assumendo aspetti tragicomici con dichiarazioni e contro-dichiarazioni da parte delle autorità elleniche e dei creditori europei, i quali non sono riusciti ancora a raggiungere un accordo, con il rischio plausibile di una Grexit e della reversibilità dell’Euro, come testimoniato di recente da Mario Draghi. A questo si aggiungono i venti gelidi provenienti dal governo inglese di Cameron, il quale forte della rielezione e fiutato il momento favorevole, sta spingendo nella direzione dell’abbandono dell’Unione europea, nonostante gli spauracchi lanciati dalle banche presenti nella City di Londra. Gli stessi Stati Uniti registrano una crescita sempre più anemica con trimestri leggermente positivi e un’economia che mostra più ombre che luci. Nonostante il raggiante proclama di Obama all’inizio dell’anno “La crisi è finita”, la realtà dimostra tutto il contrario, tanto che molte autorità ai più alti livelli sono spaventate dal fatto che la “recovery” sia stata così estremamente lenta e debole. Alcuni settori bancari incominciano a chiedersi quali potrebbero essere le “soluzioni” da usare nel caso di una nuova devastante crisi finanziaria, viste le profonde anomalie presenti nel Sistema. Ormai da 5 anni i tassi della Fed sono inchiodati allo 0,25%, cosa mai capitata prima negli scorsi decenni, mentre quasi tutte le maggiori banche centrali planetarie sono impegnate in massicce iniezioni di liquidità. I debiti pubblici dei vari Stati sono esplosi e non lasciano ulteriore margine nel caso di un revival della Grande Recessione, mentre l’impoverimento del ceto medio diventa sempre più evidente con gravi ripercussioni su i consumi.
A questo scenario opaco si aggiunge l’allarme lanciato dalla famigerata banca di investimento Goldman Sachs, la quale avverte che l’eccessivo indebitamento nelle economie più avanzate si sta avviando verso un’insostenibilità diffusa a causa dell’aumento delle aspettative di vita e quindi un netto invecchiamento della popolazione, mentre scarseggiano le giovani generazioni che dovrebbero ripagare l’immenso debito. Anche in questo caso però si osserva il continuo occultamento del segreto di Pulcinella, ovvero che il debito pubblico e privato non potrà mai essere ripagato. Ma mentre questi segnali di allarme diventano sempre più inquietanti, una delle maggiori economie dell’Unione Europea continua a mostrare leader perennemente sorridenti, con il presidente di Confindustria che “non ha da chiedere niente al governo”, fino alla patetica relazione buonista del governatore della Banca d’Italia. Sogni d’oro nel Belpaese…

venerdì 29 maggio 2015

Pregare per la pace mentre si intraprende una guerra permanente?

Il Giorno della Memoria , in base a una legge federale, è un giorno di preghiera per la pace permanente. Ma è possibile pregare onestamente per la pace mentre il nostro paese è di gran lunga il numero uno al mondo nel dichiarare guerra, per la presenza militare, per spese militari e vendita di armi in tutto il mondo?
Guerra permanente
Iran (1980, 1987-1988), Libia (1981, 1986, 1989, 2011), Libano (1983), Kuwait (1991), Iraq (1991-2011, 2014-oggi), Somalia (1992-1993, 2007-oggi), Bosnia (1995), Saudi Arabia (1991, 1996), Afghanistan (1998, 2001- oggi), Sudan (1998), Kosovo (1999), Yemen (2000, 2002-oggi), Pakistan (2004-oggi) e ora la Syria. In questo emisfero, le forze armate statunitensi hanno invaso Grenada (1983) e Panama (1989) e hanno fatto sbarcare 20,000 soldati ad Haiti (1994).
La macchina da Guerra globale degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti hanno 1,3 milioni di persone nelle forze armate e un altro milione è di servizio nelle riserve militari. Gli Stati Uniti hanno oltre 700 basi militari in 63 paesi in tutto il mondo e vi impiegano oltre 255.000 dipendenti militari. Il Dipartimento della Difesa gestisce ufficialmente 555.000 edifici situati sulle 4.400 proprietà negli Stati Uniti e oltre 700 proprietà in tutto il mondo. Gli Stati Uniti hanno oltre 1.550 testate nucleari strategiche; oltre 13.000 velivoli militari; tantissimi sottomarini, molti dei quali trasportano armi nucleari: e 88 cacciatorpediniere.
Danni globali
Quasi 7.000 militari statunitensi sono morti come conseguenza delle guerre intraprese dagli Stati Uniti fin dal 2011. Fatto ugualmente importante, in Iraq oltre 216.000 combattenti, la maggior parte di loro, civili, sono morti fin dall’invasione del 2003. Nessuno ha neanche contato le morti dei civili in Afghanistan per i primi cinque anni della nostra guerra in quel paese. I nostri attacchi con i droni hanno ucciso centinaia di bambini e civili adulti in Pakistan e molti di più in Yemen.
Leader mondiale per le spese militari
Le spese militari degli Stati Uniti sono circa uguali al totale delle spese militari delle otto più grandi nazioni messe insieme, cioè, più di Cina, Russia, Arabia Saudita, Francia, Regno Unito, India and Germania messe insieme.
Fin dal’11 settembre le spese degli Stati Uniti per le forze armate sono ammontano ben oltre 3 trilioni di dollari. I costi dei combattimenti diretti e della ricostruzione per le guerre in Afghanistan e in Iraq fin dall’11 settembre, sono costate ufficialmente ai contribuenti statunitensi, 1,6 trilioni di dollari, secondo il Servizio di Ricerca del Congresso. Altri miliardi sono stati spesi per aumentare il bilancio del Pentagono, e per gli aumentati attuali e futuri benefici per la salute e la disabilità per i reduci.
Le forze armate statunitensi si prendono il 55% delle nostre spese nazionali discrezionali e le spese per i benefici per i reduci sono un altro 6%. Fin dall’11 settembre le spese militari sono aumentate del 50%, mentre altre spese discrezionali interne sono aumentate del 13%, secondo il Progetto Nazionale per le Priorità.
Grosse aziende che traggono profitti dalle guerre
Con questi trilioni di dollari spesi per le guerre, ci sono anche legioni di grosse aziende che ne traggono profitto.
L’azienda che è al primo posto tra quelle che profittano delle guerre è laLockeed Martin, secondo il giornale USA Today, con vendite di armi annuali di 36 miliardi di dollari. Non c’è da meravigliarsi che la Lockheed Martin spenda oltre 14 milioni di dollari all’anno per fare pressioni sulle persone che prendono decisioni suquanto denaro sarà speso per le armi e su quali armi saranno acquistate. Il loro amministratore delegato è pagato oltre 15 milioni di dollari, in base al loro rapporto sugli azionisti del 2015; nel loro consiglio di amministrazione c’è James Ellis, un ex ammiraglio e comandante in capo del Comando aereo strategico degli Stati Uniti, che viene pagato oltre 277.000 dollari per suo lavoro part-time, e James Loy, ex Vice
Segretario per la Difesa Nazionale che prende oltre 260.000 dollari per il suo lavoro part-time. La Lockheed riceve fondamentali contratti governativi che, in base a un calcolo ammontano a oltre 260 dollari che ogni famiglia paga per le tasse negli Stati Uniti. Hanno tali diritti, che un’indagine speciale condotta nel 2014 dal Dipartimento statunitense per l’Energia, ha scoperto che la Lockheed ha usato i fondi dei contribuenti per fare pressione per avere altri fondi di quel tipo.
Il numero due dei profittatori della guerra è la Boeing, con vendite annuali di armi di 31 miliardi. La Boeing spende oltre 16 milioni di dollari all’anno per fare pressioni a proprio favore. Il resto delle prime 10 grosse aziende che traggono profitto dalla guerra, comprendono i sistemi BAE, la General Dynamics, la Raytheon, l’EADS, la Finmeccanica, la L-3 Communications e la United Technologies. Si possono far risalire i loro contributi a membri del Congresso, specialmente ai politici che fanno parte dei Comitati di Appropriazione della Camera e del Senato, su Open Secrets.
Mentre la maggior parte del denaro ottenuto con il lobbismo è andato ai Repubblicani, tutti i mercanti di armi assumono i lobbisti che possono influenzare i Democratici e i Repubblicani, secondo il Centro per la Politica Relativa.
E questi profittatori della guerra non soltanto vendono armi al governo degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno venduto più di 26 milioni di dollari di armi a nazioni straniere e sono stati il numero uno per lungo tempo, sebbene di recente quel titolo abbia fatto avanti e indietro con la Russia.
Che cosa fare
Il 4 aprile 1967, nel suo famoso discorso nella chiesa di Riverside, Martin Luther King Jr. ha detto che il governo degli Stati Uniti è stato il maggior di violenza nel mondo. Come reazione a questo, chiedeva una vera rivoluzione di valori. Questa rivoluzione ci invita a mettere in dubbio la correttezza e la giustizia di molte nostre politiche passate e presenti, compresa la guerra e il contrasto tra ricchezza e povertà nel nostro paese e in tutto il mondo.
Quando ha lasciato l’incarico, l’ex presidente e generale Dwight Eisenhower, ha avvertito i cittadini che del crescente complesso militare-industriale. Ha visto l’influenza della macchina di guerra e ha esortato tutti i cittadini di stare all’erta e di costringere “l’enorme di difesa industriale e militare” a rispondere alla democrazia e al desiderio di pace delle persone.
Che cosa dobbiamo fare? Per prima cosa dobbiamo apprendere i fatti e affrontare la verità che gli Stati Uniti sono i maggiori autori di guerra nel mondo. Secondo, dobbiamo impegnarci e organizzare gli altri per una vera rivoluzione di valori e affrontare le grosse aziende e i politici che continuano a spingere la nostra nazione in guerra e a gonfiare il bilancio militare con l’aria calda della perpetua creazione della paura. Terzo, dobbiamo ammettere che il nostro paese ha fatto cose sbagliate e che dobbiamo fare ammenda della violenza che gli Stati Uniti hanno portato in tutti i paesi di tutto il mondo. Quarto, dobbiamo ritirare le nostre forze armate da tutti gli altri paesi, ridurre enormemente le nostre forze armate, e impegnarci realmente a difendere il nostro paese. Quinto, dobbiamo lavorare per soluzioni pacifiche e giuste del conflitto, qui in patria e in tutto il mondo. Soltanto quando lavoriamo in vista del giorno in cui gli Stati Uniti non saranno più il paese leader mondiale delle guerre, avremo il diritto di pregare per la pace nel Giorno della Memoria.

giovedì 28 maggio 2015

La coalizione anti ISIS evita di attaccare i punti chiave dell’ISIS

Anche i giornali statunitensi iniziano a rilevare le “stranezze” di questa coalizione militare.
La denominata coalizione comandata dagli Stati Uniti , formatasi per combattere l’ ISIS (Stato Islamico) non ha attaccato intenzionalmente alcuni dei loro principali centri di comando delle bande dei takfiri in Iraq ed in Siria, secondo una informativa pubblicata dal giornale USA The New York Times.
Non abbiamo attaccato i loro centri a Raqqa e tutte le vie di comunicazione tra Siria ed Iraq continuano ad essere intatte ed i camion con i rifornimenti possono circolare liberamente.
I funzionari statunitensi dell’intelligence hanno identificato i sette edifici nella città siriana di Raqqa, ubicata a 550 Kilomentri al nord di Damasco (la capitale), come” sedi principali” dell’ISIS, ha indicato una informativa del giornale USA, pubblicato questo Martedì.
“Non abbiamo attaccato i loro centri di comando a Raqqa, tutte le vie di comunicazione tra Siria ed Iraq continuano ad essere intatte ed i camion con i rifornimenti possono circolare liberamente”, ha aggiunto di seguito il pilota.
Il giornale ha anche segnalato che i terroristi ben armati dell’ISIS sono sfilati la settimana scorsa per le strade di Ramadi, capitale della provincia occidentale irachena di Al-Anbar, senza essere oggetto di alcun attacco da parte delle forze degli Stati Uniti.
Questo chiaro rifiuto di abbattere i terroristi si viene a conoscere nonostante che, d’accordo con la pubblicazione, “gli aerei da guerra statunitensi e quelli dei loro alleati sono equipaggiati con l’arsenale aereo più preciso che si conosca”.
Alcuni alti comandi militari iracheni sostengono che Washington sta permettendo ai terroristi dell’ISIS di muoversi liberamente attraverso il campo di battaglia con troppa frequenza.
“L’alleanza internazionale non sta fornendo un appoggio sufficiente in comparazione con le capacità dell’ISIS sul terreno ad Al-Anbar”, critica Mohamad al-Dulaimi, un ufficiale iracheno nella provincia di Al-Anbar.
“Gli attacchi aerei statunitensi ad Al-Anbar non aiutano le nostre forze di sicurezza perchè queste abbiano la capacità di resistere e di affrontare gli attacchi dell’ISIS”, ha affermato per poi sottolineare: “abbiamo perso gran parte del territorio ad Al-Anbar per causa della inefficacia degli attacchi aerei della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti”.
Tuttavia il giornale evidenzia che gli ufficiali americani cercano di giustificare questa inazione dichiarando che sono preoccupati che gli attacchi contro l’ISIS possano causare danni collaterali.
In ogni caso, gli attacchi della coalizione hanno già causato parecchie perdite civili. In accordo con l’Osservarorio Siriano dei Diritti Umani (OSDH), almeno 52 civili siriani, tra loro sette bambini, hanno perso la vita in conseguenza dei bombardamenti della coalizione negli ultimi giorni.
Da Settembre del 2014, Washington, assieme ad alcuni dei suoi alleai regionali, sta realizzando attacchi contro l’ISIS all’interno della Siria senza una autorizzazione da parte di Damasco o delle Nazioni Unite.
Questi attacchi sono iniziati dopo che la coalizione comandata dagli USA aveva iniziato nell’Agosto del 2014 i suoi attacchi al suolo nell’Iraq, con la presunzione di mettere fine all’ISIS.

mercoledì 27 maggio 2015

Strage di Brescia, l'ultima possibilità per identificare e condannare le mani assassine

E' l'ultima occasione, dopo undici processi, per stabilire a chi apparteneva quella mano che il 28 maggio del 1974, pose in un cestino dei rifiuti di Piazza della Loggia, a Brescia, un ordigno che provocò otto morti e oltre 100 feriti durante una manifestazione antifascista per denunciare l'escalation di attentati che si erano verificati in città.
A quasi 41 anni dalla strage, le inchieste hanno portato a Ordine Nuovo, di cui l'allora ispettore per il Triveneto, il medico veneziano Carlo Maria Maggi, sarà alla sbarra a Milano martedì prossimo con l'ex collaboratore dei Servizi segreti Maurizio Tramonte, dopo che la Cassazione ha annullato la loro assoluzione, disponendo un nuovo processo.
Processo che si terrà davanti alla Corte d'assise d'appello di Milano perché‚ Brescia ha una sola Corte d'assise d'appello che ha già giudicato i due imputati. Il dibattimento, però, rischia di interrompersi subito perché‚ Maggi, nei giorni scorsi, tramite il suo legale, ha depositato un'istanza per la sospensione del processo a causa delle sua condizioni fisiche che non sarebbe in grado di partecipare in modo adeguato alle udienze e ha presentato la certificazione medica relativa alle sue patologie. I giudici dovrebbero quindi disporre una perizia e decidere la sospensione del processo fino all'esito degli accertamenti, oppure stralciare la posizione di Maggi e proseguire il dibattimento per il solo Tramonte.
Le parti civili vedono comunque a rischio l'ultima possibilità di scoprire la verità su quell'eccidio che più sentenze hanno stabilito essere stato ideato negli ambienti di Ordine Nuovo senza, però, mai individuare fisicamente mandanti e esecutori materiali. Maggi, infatti, è la persona "a carico della quale esistono gli indizi più gravi", secondo la Suprema Corte, spiega il presidente dell'Associazione dei famigliari delle vittime, Manlio Milani, e un processo a carico del solo Tramonte risulterebbe monco anche se l'accusa sembra voler chiedere per l'ex Fonte Tritone dei Servizi una rinnovazione del dibattimento sulla scorta di nuovi elementi.

martedì 26 maggio 2015

La scomparsa del démos. Sul Renzismo e lo spirito del tempo

Vi sono individui che si situano a cavallo di un’epoca, riassumendone i tratti. Essi non sono la causa o i creatori delle temperie del dato frammento storico, ma ne rappresentano spiritualmente il carattere. Gli anni 80 di Reagan e Craxi in Italia, il Blairismo, il Neue Mitte di Gerhard Schröder, il berlusconismo… Essi promuovono e incarnano una certa “forma del mondo” e si adoperano, nei casi più carismatici, a sostituirla con quella precedente inaugurando un nuovo tempo. Matteo Renzi si situa al culmine della parabola liberista-libertaria originata nel ’68 e sancita storicamente dal crollo del Muro nell’89. Almeno per quanto riguarda la storia italiana, Renzi esprime pienamente i mutamenti di una borghesia e di un capitalismo che ha chiuso definitivamente con la forma moderna dei rapporti di forza. Se il capitalismo italiano si basava su piccole e medie imprese, sulla dimensione familistica, relazionale e nazionale, ora il sistema economico (tradotto: la competizione con macro-attori in termini di produttività sul piano internazionale) impone uno scenario trans-nazionale. Ciò che ci interessa mettere in luce, sono alcuni aspetti socio-culturali che questo nuovo scenario comporta e che Renzi ci pare rappresentare. Il renzismo esige una nuova classe media, non più identificata con il proprio territorio e con la propria comunità, come poteva essere la piccola-borghesia elogiata dal Longanesi di Ci salveranno le vecchie zie?.
Renzi punta a rappresentare quel ceto europeo-transnazionale che ha sostituito alla casa, come Heimat, la liquidità del viaggio di lavoro, espressione di una costitutiva a-topia. Il nuovo italianoeuropeo dovrà essere un punto interscambiale: occhiale da designer, camicia bianca, corsi di leadership e life coaching. Ciò che si mira a colpire maggiormente è lo “spazio pubblico”, cioè la partecipazione alla dimensione politica e non individualistica dell’esistenza. Tesi: la condizione minima perché vi sia démos è che vi sia radicamento; altrimenti vi è solo molteplicità, sommatoria. La contrapposizione è tra popolo (organismo) e massa (molteplicità indistinta). L’identità del singolo non pre-esiste alla comunità, ma si costruisce nel suo rapporto all’interno di essa; la sua esistenza è già da sempre ek-stasis, proiezione verso l’Altro, trascendimento del proprio (ego)centro. In termini pratici, l’individuo trae dal proprio contesto di appartenenza il proprio ruolo sociale e le norme di comportamento. Anche là dove egli si dovesse distanziare dal gruppo-comunità, egli ne sarebbe comunque ancora in rapporto – d’altronde, la comunità non può mai essere immutabile e atemporale, ma è sempre storica, altrimenti verrebbe ipostatizzata tramutandosi in regime-gabbia. Con un linguaggio hegeliano, potremmo dire che l’”io” è un momento del “noi”.
Ora non si vuole qui operare una sorta di Reductio ad Hitlerum contro Renzi. Il punto politico è la consapevolezza di quest’ultimo dei cambiamenti del tempo. Vale a dire l’esigenza di portare avanti un riassetto delle istituzioni e della rappresentanza eliminando corpi intermedi e legami sociali. Il paradosso di questo tempo – la sfida che Renzi cerca di raccogliere – è quello di rimanere all’interno di una formale cornice democratica, ma svuotata di senso: una democrazia senza spirito democratico. Omologazione senza totalitarismo. E, come in ogni paradigma economico di successo, il luogo in cui operare precipuamente è l’antropologia. Da qui il nuovo ceto medio di cui sopra. Un nuovo italiano cosmopolita (quindi a-politico, disinteressato al proprio contesto) che mastica l’inglese, professionalizzato nella sua specifica mansione tecnica, incapace di visione sistemica e di un pensiero critico rispetto ai processi politici in cui è immerso. Un italiano imbevuto di una retorica tutta incentrata sul futuro – il passato è un limite in quanto luogo delle responsabilità e delle continuità storiche – e condannato ad una ricerca incessante del nuovo, il quale si rivela, in ultima istanza, ripetizione del Medesimo (non è un caso che l’azione politica di Renzi riproponga alla fin fine modelli di una stagione politica precedente come il laburismo liberista di Blair, oppure a tentativi di riforma cercati nell’era berlusconiana).
Il legame sociale deve essere distrutto semplicemente perché funziona, in termini psicoanalitici, come memento del “limite” al godimento e alla volontà soggettiva, e quindi come ostacolo alle nuove forme biopolitiche del capitalismo. Se Hegel aveva posto il buon funzionamento di una comunità politica nell’incontro tra libertà soggettiva (che potremmo ritradurre come quello spazio individuale che la modernità ha meritoriamente fatto emergere) con la libertà oggettiva (i doveri derivanti dal contesto comunitario dei costumi e delle prassi condivise), il nuovo spirito del tempo assolutizza il primo lato e sostituisce il secondo con il modello della libera circolazione di uomo-merce. La massa, in un contesto a-democratico come quello descritto, non può che decadere al rango di spettatore votante. Nel momento in cui viene meno il rapporto di solidarietà tra prossimi, si instaura quello che Alain De Benoist ha definito come «il fantasma di auto-generazione», cioè l’idea che ognuno può bastare a se stesso e creare la sua vita dal niente. E quando ciò avviene, ne consegue paradossalmente la distruzione delle differenze, ridotte ad un’unica misura quantitativa; un modello di vita politica che si traduce nell’indifferenza reciproca, sintetizzato dall’espressione di Pietro Barcellona «Essere figli di se stessi, disporre di tutto».
Le critiche riguardanti quanto Renzi sia liberista o meno rimangono sulla superficie del discorso politico. Il problema rimane situato in quell’eliminazione dei corpi intermedi prima accennata che ricalca lo schema uno a uno dello Stato moderno, in cui vi è una relazione diretta tra individui indifferenziati e potere centrale. Bisogna capire allora che lo stato assistenziale non è l’opposto dello stato moderno liberale, ma ne è una correzione originata dalla necessità di sopperire in qualche modo all’antropologia individualista e all’ideologia del successo. L’alternativa socialdemocratica è destinata a rimanere fallimentare finché ricalca un certo modello politico di democrazia in cui le forme di vita sono le stesse di quello liberale, entrando poi in quel loop di crisi dei costi del pubblico. In altre parole, nel momento in cui la solidarietà naturale viene meno, lo Stato deve farsi interamente carico dell’assistenza sociale in origine operata dalle strutture comunitarie. Laddove il legame sociale è debole, lo Stato sarà centralizzato e forte.
Nell’Italia di Renzi, su ogni livello si segue una logica verticistica e non più organica. Pensiamo soltanto all’Italicum e al fastidio per la mediazione del parlamento; o alla Buona Scuola, dove tramite la figura del dirigente-caporale e con l’introduzione dei bonus dei privati verrà distrutto il concetto di scuola pubblica come corpo partecipato, come organismo. (Perché è ovvio che un privato non andrà a mettere soldoni – che significa poi sponsorizzarsi, non è certo pia carità – nella scuola disagiata, ma finanzierà quella già di fascia alta)
Questa nuova Italia, infine, non poteva che essere sancita da una rottura simbolica di rilievo. Si pensi al caso dell’Inno per l’inaugurazione dell’Expo. Quel “siam pronti alla vita” non è solo l’ipertrofia di un Presidente del Consiglio che non conosce rispetto per la tradizione storica del Paese, ma, ancor di più, è la rimodellazione di un orizzonte di senso. Tutto viene fatto giocare secondo analogie infantili vita-bene, morte-male, eludendo il senso della morte e del sacrificio come negazione del proprio particolarismo. Quell’esperienza della morte – non necessariamente come reale annullamento – che permette l’universalizzazione del proprio Sé e, quindi, l’accesso ad una dimensione pubblica dell’esistenza, non rinchiusa esclusivamente nella propria gabbia privata. In alcuni modelli politici ellenico-repubblicani la figura dell’anziano (il senatore) era considerato il più adatto alla vita politica, proprio in virtù di quella vicinanza alla morte che lo distaccava dall’interesse egoistico. La Nuova Italia, adeguandosi al corso storico, non ha più bisogno né di proletari né di borghesi né di “vecchie zie”, ma soltanto di operatori internazionali made in Italy.

lunedì 25 maggio 2015

Draghi senza freni «Solo in azienda si salva il lavoro

Il presidente della Bce sponsorizza il modello Marchionne
Anche Mario Dra­ghi attacca il con­tratto nazio­nale di lavoro. Il pre­si­dente della Bce rilan­cia il suo appello alle riforme strut­tu­rali con un deciso endor­se­ment alla con­trat­ta­zione azien­dale: chiede che l’economia fles­si­bile entri nel Dna degli euro­pei, al punto da dare all’Ue i poteri di gover­nance sulle riforme oggi appan­nag­gio dei governi nazionali.
A Sin­tra, Por­to­gallo, Dra­ghi pre­siede la seconda edi­zione del sim­po­sio Bce dedi­cato quest’anno a infla­zione e disoc­cu­pa­zione: ine­vi­ta­bile toc­care libe­ra­liz­za­zioni, mer­cato del lavoro, velo­ciz­za­zione della pub­blica ammi­ni­stra­zione. Ma Dra­ghi que­sta volta allarga il campo. E per la prima volta entra nei mec­ca­ni­smi con­trat­tuali, con parole che, in Ita­lia, paiono un endor­se­ment al decen­tra­mento della con­trat­ta­zione sala­riale di cui la Fiat di Ser­gio Mar­chionne è stata alfiere. L’esempio della Ger­ma­nia (che negli anni ’90 ha radi­cal­mente reso più fles­si­bile il mer­cato del lavoro) mostra, secondo i dati della Bce, che durante le crisi le imprese che appli­cano la con­trat­ta­zione azien­dale «hanno ridotto gli occu­pati meno di quelle vin­co­late dalla con­trat­ta­zione cen­tra­liz­zata». Una rivo­lu­zione coper­ni­cana per Paesi, come l’Italia, dove la con­trat­ta­zione col­let­tiva è dominante.
Susanna Camusso, segre­ta­rio gene­rale della Cgil, non replica sul punto ma si limita a osser­vare che la pre­vi­sione di ripresa di Dra­ghi sia «facile dopo sette anni tutti di arre­tra­mento», e che in Ita­lia «la disoc­cu­pa­zione con­ti­nua ad essere a due cifre (13% con­tro il 4,7% della Ger­ma­nia, ndr)».
Chi invece replica a Dra­ghi sulla con­trat­ta­zione è il lea­der della Uil, Car­melo Bar­ba­gallo. «Le con­si­de­ra­zioni del pre­si­dente della Bce a pro­po­sito dei due livelli di con­trat­ta­zione ci lasciano per­plessi», dice. «La Uil ha defi­nito una pro­po­sta di riforma del sistema con­trat­tuale che pre­vede un sostan­ziale neces­sa­rio raf­for­za­mento della con­trat­ta­zione azien­dale, ma non esclude la con­trat­ta­zione nazio­nale come rife­ri­mento comune a tutti i lavo­ra­tori di ogni sin­gola cate­go­ria»

domenica 24 maggio 2015

Giannini, la ministra dei «concetti» proibiti su Expo

Gli hac­ker ita­liani sono tre­mendi: sem­bra che nei giorni scorsi abbiano preso il con­trollo non solo del sito dell’Expo ma per­fino di quello del Mini­stero dell’Istruzione, Uni­ver­sità e ricerca. Su entrambi i siti, infatti, com­pare un testo uguale, desti­nato alle scuole, dove si legge che all’interno del sito espo­si­tivo mila­nese «non è con­sen­tito intro­durre qual­siasi tipo di mate­riale stam­pato o scritto, con­te­nente pro­pa­ganda a dot­trine poli­ti­che, ideo­lo­gi­che o reli­giose, asser­zioni o con­cetti diversi da quelli espli­ci­ta­mente auto­riz­zati dalle Auto­rità di Pub­blica Sicurezza».
Dice pro­prio così: «asser­zioni o con­cetti diversi da quelli espli­ci­ta­mente auto­riz­zati dalle Auto­rità di Pub­blica Sicu­rezza», il che impli­che­rebbe che miste­riose Auto­rità di Pub­blica Sicu­rezza pos­sie­dano una lista di «asser­zioni e con­cetti auto­riz­zati» e pas­sino il loro tempo a con­fron­tarla con tutte le innu­me­re­voli asser­zioni che pro­li­fe­rano su Face­book o Twit­ter, per veri­fi­carne la con­gruenza. Baste­rebbe Sal­vini a riem­pire le loro gior­nate lavo­ra­tive, figu­ria­moci se poi si volesse con­trol­lare ciò che viene detto o scritto nelle scuole ita­liane che, com’è noto, con­ten­gono circa un milione di inse­gnanti e parec­chi milioni di studenti.
Que­sta impro­ba­bile paro­dia di uno stato tota­li­ta­rio, dove occorre imba­va­gliare ogni stu­dente che mani­fe­sti un «mor­boso inte­resse per le que­stioni poli­ti­che e sociali» (come reci­tava la moti­va­zione dell’espulsione di Gian­carlo Pajetta da tutte le scuole del Regno, anno 1927) sem­bra però che esi­sta dav­vero e che non sia opera di hac­ker per­ché è stata fatta pro­pria niente meno che da Maria Elena Boschi. Il Mini­stro per le riforme isti­tu­zio­nali, pale­se­mente non ren­den­dosi conto di ciò che diceva, ha soste­nuto alla Camera che «Expo Spa è una società pri­vata» e quindi «ai sensi dell’articolo 1341 del codice civile, chiun­que voglia acce­dere ad Expo deve sot­to­stare al rego­la­mento», com­preso il divieto dei con­cetti non pre­ven­ti­va­mente autorizzati.
Pec­cato che Expo non sia una società pri­vata poi­ché i soci sono tutti pub­blici, come ha rico­no­sciuto espli­ci­ta­mente il Con­si­glio di Stato in una sen­tenza del 4 feb­braio scorso. E pec­cato che in Ita­lia esi­sta ancora un liber­colo (che il ducetto male­du­cato e Maria Elena vor­reb­bero abro­gare ma che per il momento resta ancora in vigore) dove all’art. 21 si spe­ci­fica: «Tutti hanno diritto di mani­fe­stare libe­ra­mente il pro­prio pen­siero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di dif­fu­sione». Si chiama Costi­tu­zione della Repub­blica Italiana.
Il che signi­fica che se i deliri dell’Expo e del Miur, pale­se­mente ispi­rati ai testi di gol­pi­sti cileni o argen­tini sono reali, ci sareb­bero parec­chie per­sone che dovreb­bero pren­dersi una lunga vacanza alle Antille: da Giu­seppe Sala (com­mis­sa­rio del governo e ammi­ni­stra­tore dele­gato di Expo) a Ste­fa­nia Gian­nini (mini­stro dell’Istruzione) fino alla già citata Boschi che ignora non solo la natura giu­ri­dica dell’Expo ma per­fino l’abc del libretto su cui ha giu­rato entrando in carica il 22 feb­braio 2014.

sabato 23 maggio 2015

"BUONA SCUOLA": UN PRESIDE MAGNACCIA CON FUNZIONI DI DEPISTAGGIO

Una notizia della prima settimana di maggio ha avuto uno scarso rilievo mediatico, sebbene fosse direttamente attinente all'attuale progetto governativo di "riforma" della Scuola. Il TAR del Lazio ha accolto un ricorso del sindacato SNALS contro la riduzione delle ore di laboratorio negli Istituti tecnici e professionali decisi dalla "riforma" Gelmini di sei anni fa. Il TAR ha riconfermato una sentenza di condanna dell'operato del Ministero dell'Istruzione già emessa nel 2013 e, constatando che il MIUR non aveva dato seguito alle decisioni della magistratura amministrativa, ha commissariato lo stesso MIUR con un commissario ad acta.
Gli effetti pratici della sentenza sono tutti da verificare; anzi, dati i precedenti, c'è da dubitare che gli effetti vi siano. Il TAR ha preso atto del controsenso di un'istruzione tecnica che non assicura l'istruzione tecnica, e quindi ha salvato ufficialmente la faccia; ma, con gli opportuni tempi giudiziari, ha anche consentito che il nuovo sistema previsto dalla "riforma" Gelmini andasse a regime. La notizia è comunque istruttiva, poiché dimostra che la "riforma" Gelmini non aveva affatto delineato un nuovo modello di Scuola, ma si era limitata a svuotare il modello precedente frodando famiglie e studenti, e obbligandoli a rivolgersi all'Università per accedere ad un'istruzione tecnica, ovviamente a pagamento.
Non si trattava quindi di una riforma, ma di una semplice operazione di lobbying universitario, e anche del lobbying bancario connesso al business dei prestiti agli studenti. Mentre lo spazio mediatico era a suo tempo occupato da diversivi come il grembiulino o il "seppellimento del '68", silenziosamente il governo liquidava uno dei capisaldi del modello di istruzione italiana - l'istruzione tecnica - che risaliva ai tempi post-unitari, e persino pre-unitari. Persino il termine "riforma" costituiva esso stesso un diversivo rispetto ai veri obiettivi, dato che la cosiddetta riforma non proponeva alcuna nuova forma. Si tratta di una logica da pubbliche relazioni caratteristica del lobbying, per la quale un business sordido viene ammantato di motivazioni ideali, spesso contenenti altri risvolti di possibile distrazione rispetto al quadro reale.
Non sussiste un serio motivo per ritenere che le cose stiano diversamente per ciò che riguarda la "Buona Scuola" di Renzi, il quale, tra i politici degli ultimi anni, è quello che denota più chiaramente le caratteristiche antropologiche del lobbista puro. I media sono occupati dalle discussioni sulla figura del cosiddetto "preside sceriffo", un epiteto che costituisce un vero nonsenso, dato che non corrisponde minimamente al testo del DDL, né al contesto in cui tale tipo di dirigente scolastico dovrebbe operare. Viene il sospetto che l'espressione "preside sceriffo" sia stata un'imbeccata mediatica organizzata per intossicare la comunicazione delle opposizioni, ed anche per compiacere gli istinti vendicativi contro gli insegnanti che si annidano nella parte peggiore dell'opinione pubblica, quella che va in euforia ogni volta che avverte il tanfo di macelleria sociale.
In base al DDL di Renzi, la figura di preside che viene fuori, appare più come quella di un prosseneta, di un magnaccia che può usare il ricatto del posto di lavoro per avviare alla prostituzione il personale della Scuola a pro delle gerarchie ministeriali desiderose di finanziare a spese del contribuente i propri vizi privati. Visti i precedenti, ci sarà sicuramente anche questo; ma potrebbe anche darsi che questa figura di dirigente scolastico sia stata creata a scopi di distrazione e depistaggio rispetto ad altri obiettivi affaristici. Si commette un delitto per coprirne un altro, come nel film "Match Point" di Woody Allen. Una "Scuola-Azienda" che si dimostri una Scuola-lupanare, può dare anche vita a tanti scandali giudiziari e mediatici che distoglieranno negli anni a venire l'attenzione dell'opinione pubblica da quanto accade effettivamente nella Scuola. Quando si tratta di distrarre, nulla funziona bene come il sesso.
Questa tattica della confusione da parte del governo mette in ombra il fatto che il DDL di Renzi, all'articolo 21, contenga una delega in bianco al governo per decidere delle sorti della Scuola nei prossimi mesi e nei prossimi anni, lasciando spazio ad operazioni inconfessabili di lobbying bancario. Era accaduto anche con il cosiddetto "Jobs Act". La "libertà di licenziare", ed anche la libertà di mobbing (cioè il "demansiomanento", la possibilità di spostare il lavoratore ad incarichi meno qualificati) appaiono come crimini tanto mostruosi da distrarre dallo scopo principale del "Jobs Act", quello di aprire al business delle agenzie di lavoro interinale, oggi ribattezzate pomposamente come "agenzie di somministrazione del lavoro", cioè il parassitismo di un caporalato istituzionalizzato.
Le agenzie di somministrazione del lavoro sono inoltre abilitate a loro volta a mediare l'indebitamento dei lavoratori con banche ed agenzie finanziarie. La condizione di precarietà rende i lavoratori particolarmente vulnerabili alla seduzione dei "servizi finanziari", cioè della schiavitù per debiti.
Ma anche nella Scuola si registra un'invasione del lobbying bancario. Dietro l'alibi della sedicente "alternanza Scuola-lavoro", i governi nell'ultimo decennio hanno riservato una pioggia di denaro pubblico ad imprese private, soprattutto banche. La banca che pare più attiva in questo momento è Unicredit, la quale, a spese del contribuente, sta usando le scuole per pubblicizzare e vendere i suoi prodotti finanziari a famiglie e studenti, abbindolati con la promessa di un'inesistente professionalizzazione.

venerdì 22 maggio 2015

La via d’uscita dal debito? Tassare i grandi patrimoni

Da dove viene l’enorme debito pubblico italiano? Davvero l’unica cosa da fare, di fronte all’austerity imposta dalla finanza internazionale, è pagare, pagare, pagare? Una riflessione di brutale onestà e provocatorio pragmatismo intorno alla questione più urgente dell’agenda politica di ogni democrazia occidentale. Il debito pubblico italiano è enorme. L’intera Europa teme il collasso degli stati più fragili. Nessuna delle democrazie occidentali sembra avere più le risorse necessarie per reggere sui mercati finanziari. Ma da dove viene questo debito incombente e inestinguibile? E davvero l’unica cosa che si può fare è stringere la cinghia, obbedire ai diktat della finanza internazionale, e pagare, pagare, pagare? Francesco Gesualdi ricostruisce anzitutto la storia del fenomeno, mostrando come il debito non nasca da una serie di sfortunate circostanze e di errori di pianificazione, ma da una precisa e per lungo tempo condivisa strategia, orientata a contenere il conflitto sociale e a rafforzare la posizione di rendita di un apparato bancario e finanziario dall’appetito insaziabile. Alla lunga quella strategia ha mostrato la corda, com’era prevedibile e previsto. A quel punto le forze della inanza globale l’hanno denunciata come la disinvolta iniziativa di governi inclini allo sperpero. E soprattutto l’hanno duramente sanzionata, imponendo il ricorso a misure di austerity destinate a impoverire ulteriormente larghi strati della popolazione. Se le cose stanno così, che senso ha chiedere alla gente di onorare questo debito? Non si tratta di un ricatto che il più forte impone al più debole, dopo averlo costretto a indebitarsi in nome delle proprie ragioni e dei propri interessi? Non sarebbe più giusto e anche più praticabile costruire concrete e circostanziate strategie politiche anziché puramente finanziarie? Non sarebbe ora di ristrutturare, anziché onorare ciecamente, il debito degli stati sovrani?

giovedì 21 maggio 2015

Il lavoro esce a pezzi dal rapporto annuale Istat

Sette milioni di disoccupati, anzi, di senza-lavoro, aumento vertiginoso del part time, rigorosamente involontario, e fuga di cervelli che diventa sempre più intensa. Anche se i professoroni dell’Istat usano eufemismi e giri di parole, è il lavoro il capitolo che più esce con le ossa rotte dal rapporto annuale dell’Istat. Il Bel Paese presenta un quadro che dire drammatico è davvero dire poco. Ci sono contraddizioni e incoerenze del tutto evidenti,che entrano nel lessico della politica con la strana categoria della flessibilità, ma che ci parlano di un paese che nemmeno arranca più. Sembra una comunità trascinata alla deriva su una zattera all’apparenza sicura ma pronta a rovesciarsi alla prima onda atlantica. "Si ignora che siamo a tre milioni di disoccupati di lunga durata e a un tasso di disoccupazione al 12,5%. Questi sono segni che dicono che la ripresa non ha un fondamento strutturale di risoluzione del problema vero del Paese che si chiama disoccupazione", dice Susanna Camusso, leader della Cgil.
Viene da chiedersi, ma su che statistiche i politici fanno le leggi? Una è quella che riguarda la precarietà. L’Istat certifica che la media della permanenza in un lavoro senza diritti è di cinque anni. E quindi che senso ha, come fa il Jobs act, imporre un altro tunnel afflittivo di tre anni? Misteri del renzismo. Ma non è finita. L’altro dato interessante è quello che riguarda il part time. Aumenta in modo costante. ''L'unica forma di lavoro che continua a crescere quasi ininterrottamente dall'inizio della crisi è proprio il part time'', che raggiunge 4 milioni di lavoratori nel 2014 (il 18% del totale e 784 mila in più che nel 2008). Nel 63,3% dei casi è part time involontario, un livello molto superiore alla media Ue (24,4%). Possibile che a nessuno sia venuto in mente che in realtà si tratta di lavoro nero? No! E sapete perché? Perché gli stessi professoroni dell’Istat hanno certificato che il lavoro nero è al 12,6 per cento! Ah, se lo dicono loro! A leggere questi numeri viene davvero da pensare che la matematica sia tornata ad essere una “opinione”. Va detto che qui viene esibita una valutazione molto “statistica” del lavoro, e quindi molto lontana dalla realtà. Basti pensare che prima della crisi le valutazioni comuni nelle ricerche, anche delle varie commissioni di inchiesta parlamentari, parlavano di un tasso di lavoro nero tra un quinto e un quarto del pil.
Un altro fenomeno in crescita è la 'fuga dei cervelli', anche se l'Istat usa la formula 'mobilità intellettuale'. "Tre mila dottori di ricerca del 2008 e 2010 (il 12,9%) vivono abitualmente all'estero" spiega l'Istat nel rapporto annuale, sottolineando: "La mobilità verso l'estero è superiore di quasi sei punti a quella della precedente indagine (7% dei dottori di ricerca delle coorti 2004 e 2006)". Guardando alle specializzazioni, la spinta ad andare fuori confine risultapiù forte per fisici, matematici e informatici

mercoledì 20 maggio 2015

La crisi ha portato più di mille miliardi dai salari ai profitti.

Soltanto nel 2013 la crisi ha bruciato 1.218 miliardi di dollari di salari in tutto il mondo, una cifra pari all'1,2% della produzione mondiale ed al 2% dei consumi. Di questi, più di un terzo, 485 miliardi di dollari, si sono persi nella Ue e nei paesi industrializzati. E' quanto risulta dai dati contenuti nel Rapporto sulle prospettive occupazionali e sociali nel mondo 2015 presentato oggi a Ginevra.
Non solo: nei paesi dove i dati sono disponibili (pari all'84 per cento della manodopera globale) solo 25 lavoratori su 100 ormai hanno un rapporto di lavoro stabile e più della metà lavora senza avere affatto un contratto di lavoro. Certo, la maggior parte di quel 60% che lavora senza contratto è nei paesi in via di sviluppo e svolge un lavoro autonomo o contribuisce a un'attività familiare. Tuttavia, anche tra i lavoratori dipendenti, meno della metà (il 42 per cento) ha un contratto a tempo indeterminato ed un'altra tendenza rilevata dal rapporto è l'aumento del lavoro a tempo parziale, soprattutto fra le donne.

Complessivamente, nella maggior parte dei Paesi infatti, tra il 2009 e il 2013 i posti di lavoro a tempo parziale sono aumentati più di quelli a tempo pieno. Un altro dato significativo: a livello mondiale, il 52 per cento dei lavoratori dipendenti è iscritto a un sistema pensionistico, contro il 16 per cento dei lavoratori autonomi e quasi l'80 per cento dei lavoratori con un contratto a tempo indeterminato è iscritto a un sistema pensionistico, rispetto ad appena il 51 per cento dei lavoratori con contratto a tempo determinato.
"I nuovi dati indicano una crescente diversificazione del mondo del lavoro", spiega Guy Ryder, direttore Generale dell'ILO, e "in alcuni casi, le forme atipiche di lavoro possono aiutare le persone ad accedere al mercato del lavoro. Ma questi nuovi cambiamenti riflettono anche la diffusione di una insicurezza che colpisce oggi numerosi lavoratori in tutto il mondo". E' quindi necessario, dice ancora l'Ilo, che le politiche tengano in considerazione i cambiamenti per adattare la regolamentazione per garantire un'adeguata sicurezza del reddito per tutti i lavoratori, non solo per quelli con contratti stabili, perchŠ "una regolamentazione adeguata contribuirà anche alla crescita economica e alla coesione sociale". Non a caso l'Ilo stima che per l'effetto moltiplicatore dell'aumento dei salari, dei consumi e dei livelli di investimento, colmando il divario occupazionale mondiale, il PIL globale aumenterebbe di 3.700 miliardi di dollari, pari ad un aumento della produzione mondiale del 3,6 per cento.

martedì 19 maggio 2015

BUSH E I “VERY SERIOUS PEOPLE

Jeb Bush sicuramente ci ha fatto un favore: i suoi tentativi di glissare sul passato hanno finito con il riportare in auge una discussione che molte persone cercavano, al contrario, di evitare – e dalla quale cercano tutt’ora di sottrarsi con una lotta serrata, oppure ricorrendo alla falsa ipotesi del "se avessimo saputo quello che sappiamo ora".
Questa formulazione rappresenta già di per sé una chiara evasione dal problema, come hanno sottolineato Josh Marshall [qui], Greg Sargent [qui], e Duncan Black [qui] – ognuno dei quali ha fatto al riguardo delle leggere ma fondamentali distinzioni.
In primo luogo, come ha detto Josh, quello sull'Iraq non è stato un errore in buona fede. Bush e Cheney non sedettero intorno ad un tavolo con la comunità dell'intelligence, chiedendole la miglior valutazione sulla situazione, per poi concludere a malincuore che la guerra era l'unica opzione. Avevano deciso fin dall'inizio – prima che la polvere del 9/11 si fosse finanche posata – di usare l’attacco terroristico come una scusa per perseguire un regime laico che, per quanto malvagio potesse essere, non aveva nulla a che vedere con quell'attacco.
Per portare avanti l’idea della “splendida piccola guerra” che si aspettavano di combattere, essi hanno deliberatamente ingannato la popolazione, ipotizzando un caso, essenzialmente falso, di WMD [Armi di Distruzione di Massa] – perché le armi chimiche, che molti credevano fossero in possesso di Saddam, non erano che una piccola cosa rispetto alle armi nucleari sulle quali quel regime, a loro dire, stava lavorando – arrivando ad insinuare, falsamente, che Saddam era l’ispiratore dei fatti del 9/11.
In secondo luogo, come ha detto Greg, non siamo davanti al classico “senno del poi”. Era decisamente chiaro, in quei momenti, quanto quel “caso di guerra” fosse un falso – Dio sa quanto io abbia pensato che lo fosse [falso], e quanto abbia cercato di dirlo alla gente – e quanto fosse ovvio che il tentativo di creare un governo filo-americano in Iraq, dopo l'invasione, non era destinato ad essere che un costoso fallimento. La domanda, per coloro che sono stati sostenitori della guerra in Iraq, non dovrebbe essere: “lo sareste ancora, sapendo quello che sappiamo ora?”. Dovrebbe essere, al contrario: “perché non vedeste, allora, quello che invece era così evidente?”.
Infine, e qui entra in gioco Atrios, una parte della risposta è che un sacco di “Very Serious People” [VSP, termine coniato da Krugman per definire l’establishment conservatore statunitense era coinvolto in modo molto pesante nella menzogna. Anche queste persone erano in attesa della “splendida piccola guerra”, oppure erano desiderose di lustrare le loro credenziali non-hippie al grido di: “Hey, guardate, anche io sono un guerrafondaio”; oppure erano timorose di riconoscere quelle ovvie bugie perché il farlo sarebbe stato considerato un atto non patriottico e si vantavano, per concludere, di essere dei “centristi”. E ora, naturalmente, sono molto ansiose di non dover rivisitare i loro comportamenti dell’epoca.
Possiamo pensare al dibattito economico nello stesso modo? Senz’altro sì, anche se l’argomento, senza alcun dubbio, non è altrettanto forte. Si consideri il lungo periodo nell’ambito del quale Paul Ryan è stato considerato come “modello” stesso di un serio ed onesto conservatore. Era evidente fin dall'inizio, se foste stati disposti a fare giusto un po' di compiti a casa, che si trattava di una frode, e che la sua presunta preoccupazione per il deficit era solo una copertura per il suo vero obiettivo: lo smantellamento dello stato sociale.
Anche la follia riguardo l’inflazione [ovvero la preoccupazione di una sua forte crescita, palesemente senza alcuna evidenza empirica] può essere meglio spiegata in termini di agenda politica: il popolo di destra era furioso contro la Fed perché questa, a suo dire, sbarrava la strada alla crisi fiscale che esso invece voleva per giustificare la crociata anti-assicurazione-sociale, ovvero per far pressione sulla Federazione [USA] perché la smettesse di fare il suo lavoro.
E i “Very Serious People” tutto questo lo hanno impedito [palese l’ironia dell’Autore], nella stessa misura in cui hanno impedito il verificarsi della situazione drammatica in cui si trova l’Iraq.
Ma tornando all’Iraq: la cosa importante da capire è che l'invasione non è stata un errore, ma un crimine. Ci hanno mentito, riguardo quella guerra. E noi non dobbiamo permettere che quest’orribile verità venga dimenticata.

lunedì 18 maggio 2015

La disoccupazione strutturale

Affermare che la disoccupazione oggi, a metà degli anni ottanta, si presenta come il problema più grave che le economie industriali dell'Occidente si trovano a dover affrontare non significa ribadire un luogo comune, ma indicare il primo punto all'ordine del giorno dell’ agenda della politica economica e delle parti sociali. È ormai chiaro che la disoccupazione ha caratteri strutturali e che i comportamenti e le politiche chiamati a combatterla non possono basarsi su strumenti tattici di natura congiunturale, ma debbono porre in atto strategie di più ampio respiro. Questa idea, purtroppo, stenta a farsi strada, per cui, anzichè a un'azione congiunta delle forze politico-sociali volta al raggiungimento di un obiettivo che non può non essere comune — pena la destabilizzazione politica e la caduta dei livelli di democrazia — si assiste da tempo a una frantumazione degli sforzi, anche all'interno del sindacato, che disperde le energie e fa perdere di vista l’obiettivo fondamentale. (…)
L'esperienza storica ci mostra con molta chiarezza che in un clima recessivo, o di stagnazione dell'attività produttiva, l'occupazione non può che regredire, e che tutti gli sforzi volti a sostenerla sono effimeri. La creazione di un clima espansivo non può essere affidata ne interamente al mercato ne interamente alle politiche. Contare unicamente sul mercato significa essere disposti a pagare costi molto elevati sul piano economico-sociale: lo sviluppo della domanda nelle direzioni appropriate a una crescita stabile del reddito nazionale non è garantito da nessun meccanismo automatico, e questa verità storica non può essere smentita da nessuno slogan neoliberista più o meno alla moda. Contare unicamente sulle politiche significa d'altro canto ignorare la realtà di un'economia di mercato, ed essere disposti a pagare costi molto elevati sul piano dell'efficienza.

domenica 17 maggio 2015

A Scuola di Renzi

Ddl scuola alla camera. Pre-annuncio di precettazione per i docenti contro il blocco degli scrutini da parte del garante sugli scioperi. Bernocchi (Cobas): «Pretestuoso. La precettazione la può fare solo il prefetto. E' perfettamente lecito scioperare per due giorni consecutivi, poi ci sono sanzioni pecuniare, non precettazioni». Alle 16,30 al Pantheon a Roma grande assemblea dei sindacati. L’appello rivolto ai parlamentari: «Venite in piazza con noi e manifestiamo insieme»
Da un governo con­fuso, e messo alle corde dallo scio­pero gene­rale della scuola del 5 mag­gio e dal suc­cesso della pro­te­sta con­tro l’Invalsi indetta dai Cobas e dagli stu­denti, arri­vano rea­zioni scom­po­ste e minacciose. L’avvertimento ai docenti che potreb­bero ade­rire allo scio­pero degli scru­tini (non ancora dichia­rato, ma ipo­tiz­zato da Cobas e Snals) è par­tito ieri dalle colonne de Il Sole 24 ore: il pre­si­dente della com­mis­sione di gara­zia sugli scio­peri Roberto Alesse ha pre­an­nun­ciato la pre­cet­ta­zione dei docenti. Poi, in gior­nata, ha pre­ci­sato che, al momento, non c’è alcuna comu­ni­ca­zione «uffi­ciale» e «anzi ci sono segnali inco­rag­gianti dal governo e dai sin­da­cati più respon­sa­bili». Una distin­zione che non trova cor­ri­spon­denza nella realtà, visto che la stra­grande mag­gio­ranza dei sin­da­cati sono uniti con­tro il Ddl Renzi-Giannini-Pd sulla scuola che ieri ha ini­ziato l’iter finale alla Camera con una pro­lu­sione della mini­stra dell’Istruzione Gian­nini. In una nota Alesse ha invi­tato a un «punto di con­ver­genza» per evi­tare «azioni ille­git­time che dan­neg­ge­reb­bero gli stu­denti e le fami­glie». Lo «scio­pero degli scru­tini è ille­git­timo e dan­noso e la con­cer­ta­zione è la via maestra».
Pronta è stata la rispo­sta di Piero Ber­noc­chi dei Cobas che ieri hanno anche dif­fuso un «vade­me­cum» sul blocco degli scru­tini. «Un inter­vento a spro­po­sito - ha com­men­tato Ber­noc­chi - Il suo ruolo è solo quello di giu­di­care la con­gruità degli scio­peri con­vo­cati con la legge cape­stro 146/90, a suo tempo defi­nita “anti-Cobas” e “anti-sciopero”: le pre­cet­ta­zioni spet­tano even­tual­mente ai pre­fetti». La legge sostiene che è lecito scio­pe­rare per due giorni con­se­cu­tivi durante gli scru­tini, senza coin­vol­gere le ultime classi dei corsi di stu­dio. Oltre i due giorni sono pre­vi­ste san­zioni pecu­niare, ma non le pre­cet­ta­zioni. I Cobas hanno rivolto un appello ai sin­da­cati mag­giori per con­vo­care due giorni con­se­cu­tivi di scio­pero dopo la fine delle lezioni da arti­co­lare su base regio­nale e poi con­sul­tare docenti e personale Ata sulle moda­lità per pro­se­guire il con­flitto con il governo. I Cobas pro­pon­gono un incon­tro durante la mobi­li­ta­zione a Mon­te­ci­to­rio tra il lunedì 18 e mer­co­ledì 20, giorno in cui il Ddl scuola dovrebbe essere appro­vato dalla Camera. C’è anche la pro­po­sta di con­vo­care una mani­fe­sta­zione nazio­nale dome­nica 7 giu­gno per chie­dere il «ritiro del Ddl».
Fibril­la­zioni, ner­vo­si­smo, ansia. Man mano che si avvi­cina l’ora X alla Camera i toni si fanno più duri. Chissà cosa acca­drà al Senato. Oggi dalle 16,30, a piazza del Pan­theon a Roma, i sin­da­cati della scuola Flc-Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda di Roma e Lazio - il fronte che ha orga­niz­zato lo scio­pero gene­rale del 5 mag­gio - hanno pro­mosso l’assemblea pub­blica sulla riforma della scuola alla quale sono stati invi­tati i par­la­men­tari di Camera e Senato. La prima rispo­sta è arri­vata da Arturo Scotto di Sel che in que­ste ore sta affron­tando, con Ven­dola, un duro con­fronto sulla riforma senza esclu­sioni di colpi con i custodi del verbo ren­ziano nel Pd: «Da Renzi la scuola subirà un colpo e gli inse­gnanti ver­ranno rele­gati ad un ruolo mar­gi­nale». All’assemblea par­te­ci­perà l’ex vice­mi­ni­stro del governo Letta Ste­fano Fas­sina che ha annun­ciato di volere lasciare il Pd «se non ci saranno modi­fi­che radi­cali». «Il pro­blema è l’impianto ver­ti­ci­stico della gover­nance della scuola pre­vi­sto dal Ddl - sostiene Fas­sina rife­ren­dosi al «pre­side mana­ger» o «sce­riffo» - e un piano plu­rien­nale di assun­zione per i docenti abi­li­tati pre­cari. Su que­sto non ci siamo».
Toni duris­simi dal Movi­mento 5 Stelle che avverte: «La situa­zione è grave, fuori e den­tro la Camera - sostiene il capo­gruppo in Com­mis­sione Cul­tura Simona Valente - Anche se il voto non è for­mal­mente una fidu­cia, que­sto è un altro atto anti-democratico di un governo che vuole zit­tire il par­la­mento e che gioca sulla pelle della scuola». I Cin­que Stelle vole­vano ripre­sen­tare 700 emen­da­menti alla «Buona Scuola». «Segna­le­remo i nostri 246, anche in que­sta occa­sione ci è stata impo­sta una tagliola». La «let­te­rina» e il «video» dif­fusi da Renzi per sen­si­bi­liz­zare sulle ragioni della sua riforma sono stati defi­niti «ridi­coli» da Ales­san­dro Di Bat­ti­sta (M5S). Come la Lega e Sel, i Cin­que Stelle pre­sen­te­ranno una mozione di sfi­du­cia con­tro la mini­stra Giannini.
L’intervento di quest’ultima ieri alla Camera, come le dichia­ra­zioni al Gr Rai, hanno cer­cato di smi­nuire o dele­git­ti­mare l’ampio fronte della pro­te­sta: «Il preside-sceriffo? Non ho visto pistole. Resti­tuiamo al diri­gente sco­la­stico la respon­sa­bi­lità delle sue deci­sioni» ha detto Gian­nini che ha cele­brato una «svolta cul­tu­rale per il paese». Quella del sogno di un’autonomia imma­gi­nata a misura di uno solo: il diri­gente, appunto. E poi: «Non siamo pala­dini dei pre­cari \[della scuola\], ma eli­mi­niamo il pre­ca­riato». Dichia­ra­zioni anti­pa­tiz­zanti che con­fon­dono il «pre­ca­riato» da abo­lire con i «pre­cari» che ne faranno le spese. Una stra­te­gia che fino ad oggi ha raf­for­zato l’opposizione.
Caro Renzi, ecco perché respingo la sua lettera
di Valerio Cuccaroni
Gen­ti­lis­simo Pre­si­dente del Con­si­glio, ritengo la sua let­tera, reca­pi­ta­taci mer­co­ledì, una forma di pro­pa­ganda, che, ammessa e com­pren­si­bile per un segre­ta­rio di par­tito in calo di con­sensi, non è ammis­si­bile né com­pren­si­bile per un Pre­si­dente del Con­si­glio, che ha tutti i mezzi per espri­mersi, senza dover inva­dere le caselle postali dei cit­ta­dini per con­vin­cerli a forza della bontà di un prov­ve­di­mento che man­tiene osti­na­ta­mente molti lati oscuri.
Al punto 1 della sua let­tera, in effetti, dimo­stra di igno­rare le richie­ste dei sin­da­cati, quindi dei rap­pre­sen­tanti di noi lavo­ra­tori della scuola, che chie­diamo in migliaia di stral­ciare dal dise­gno di legge il capi­tolo assun­zioni, per inse­rirlo in un appo­sito decreto legge che con il suo carat­tere d’urgenza darebbe la sicu­rezza delle assun­zioni. Per­ché tenerlo nel ddl, allora? Si tratta di un’evidente arma di ricatto, con cui il suo Governo cerca di divi­dere il fronte della protesta.
Al punto 4 dimo­stra di igno­rare ciò che avviene nei Paesi a cui dice di rifarsi. In Fran­cia il merito è pre­miato con scatti di car­riera, ma que­sti scatti sono deter­mi­nati da con­corsi pub­blici, non da chia­mate dirette di que­sto o quel pre­side. La Mini­stra Ste­fa­nia Gian­nini cono­sce come fun­zio­nano Capes e Agre­ga­tion in Fran­cia: per­ché non ha pro­po­sto un mec­ca­ni­smo con­cor­suale simile?
Al punto 5 non chia­ri­sce la più con­te­stata delle que­stioni, quella del pre­side, ma non rie­sce a con­te­nersi e alla fine della let­tera rivela la verità: Lei non demorde, con­ti­nua a insi­stere affin­ché il pre­side sia chia­mato a sce­gliere «tra vin­ci­tori di con­corso, in un ambito ter­ri­to­riale ristretto». Pre­si­dente, ma si rende conto? Crede che siamo dav­vero dei bab­bei? Chi è il pre­side per deci­dere quali sareb­bero i migliori inse­gnanti in tutte le disci­pline, un tut­to­logo? E chi garan­ti­sce sulla sua capa­cità di scegliere?
Lei ha per­sino l’ardire, Pre­si­dente, di umi­liarci, men­tre invade ino­pi­na­ta­mente le nostre caselle di posta, affer­mando che «la buona scuola c’è già. Siete voi. O meglio: siete molti tra voi, non tutti voi». Ammet­tiamo pure che sia vero: non tutti gli inse­gnanti sono bravi. A parte l’ovvietà della con­sta­ta­zione - tutti gli uomini sono forse alti, belli e forti? - essa afferma una verità che vale anche per i pre­sidi. Non tutti i pre­sidi sono bravi. Per la legge dei grandi numeri, però, è più facile tro­vare un inse­gnante bravo che un pre­side bravo, gen­ti­lis­simo Pre­si­dente. Rifletta su que­sto sem­plice dato. E se a sce­gliere gli inse­gnanti fosse un pre­side inca­pace? Chi risar­ci­rebbe gli inse­gnanti esclusi? Lei?
Ai punti 6 e 7 parla prima di coin­vol­gi­mento dei ragazzi nelle aziende, poi di edu­ca­zione alla cit­ta­di­nanza, dimo­strando come nella sua visione del mondo il com­pito di for­mare i cit­ta­dini debba essere assunto da una scuola azien­da­liz­zata, con i ragazzi che dovreb­bero essere per un certo periodo al ser­vi­zio delle aziende, pie­gan­dosi sin dall’età della for­ma­zione ai rap­porti di potere, men­tre un cit­ta­dino con­sa­pe­vole potrebbe anche con­te­stare que­sto ordine delle cose, imma­gi­nando un mondo, in cui sono le aziende che vanno a impa­rare nelle scuole come si governa in maniera col­le­giale un’organizzazione.
In ultimo, a «ognuno» di noi chiede di discu­tere: ora? Men­tre state varando la riforma? Ora Lei vor­rebbe farci cre­dere che ascol­terà «ognuno» di noi? Insomma, que­sto è troppo. Lei in que­sta let­tera dimo­stra di aver perso la bus­sola. È ora che lasci spa­zio a qual­cun altro che sap­pia rap­pre­sen­tare meglio quella «potenza super­cul­tu­rale» — ma forse voleva scri­vere «super­po­tenza cul­tu­rale», come ha soste­nuto nel video? — che è l’Italia.
Non le auguro buon lavoro, per­ché sarei un ipo­crita, visto che le ho appena chie­sto di dimettersi.
Con molta indignazione.

venerdì 15 maggio 2015

Legge sulla tortura: Italia lontana da Strasburgo e vicina al partito della polizia

La legge sulla tortura approvata il 9 aprile scorso dalla Camera è gradita al "partito della polizia" (la definizione è di Marco Preve). È netta la valutazione che Lorenzo Guadagnucci, giornalista, vittima dell'irruzione poliziesca alla scuola Diaz-Pertini di Genova nel luglio 2001 e autore per Altreconomia di “sTortura”, ha riproposto lunedì sera al convegno milanese “Dal sangue della Diaz al reato di tortura?”. Con lui al tavolo sono intervenuti anche Valerio Onida, presidente emerito della Consulta, Enrico Zucca, sostituto procuratore a Genova e pm al processo Diaz e Vittorio Agnoletto.
Il provvedimento approvato dopo l’inequivocabile sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sui fatti della Diaz dell’aprile scorso rischia infatti di non comprendere fatti analoghi alla macelleria del G8. Un potenziale epilogo paradossale che Guadagnucci ha addebitato non solo all’ingiustificato timore patito dalla politica nei confronti dei corpi delle forze dell’ordine -prova ne sono state le audizioni svolte in Parlamento, che non hanno mai dato spazio alle vittime o ai legali delle vittime- ma anche alle organizzazioni della società civile, intrappolate nel compromesso ricattatorio del "meglio di niente".
"No, è meglio niente", ha detto Guadagnucci, lanciando anche un appello pubblico per cercare di riaprire la discussione parlamentare nel merito. Troppe le manchevolezze del testo della Camera, che si discosta profondamente dalla Convenzione Onu cui invece avrebbe dovuto rifarsi. Su tutte, la natura generica del reato e la cattiva qualificazione della condotta.
“Occorre chiamare le cose con il loro nome” ha affermato poi il pm Zucca, richiamando l’attenzione sulla recente dichiarazione di Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, che si è spinto a dirsi “indignato dopo la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo”, aggiungendo che “i fatti della Diaz sono vergognosi, ma le indagini su quei fatti hanno consentito di individuare le responsabilità, anche dei vertici, senza bisogno del reato di tortura”. Parole “inquietanti” secondo Agnoletto che sono in netto contrasto con quelle evidenze fotografate e sanzionate -all’unanimità- dalla Corte europea.
E se Zucca è giunto ad affermare che questo reato di tortura, così come è impostato, con tutti quei distinguo finalizzati a “non spaventare la polizia”, porta a non spaventare nemmeno le parti insane della Polizia -quando invece dovrebbe farlo, come indica la sentenza della Cedu e nonostante Cantone-, la discussione al Senato, in commissione Giustizia -il relatore è Buemi-, va in tutt’altra direzione. E cioè di una censura al testo della Camera perché ritenuto punitivo nei confronti della divisa. A certificarlo sono i resoconti sommari delle sedute dei commissari di Palazzo Madama, in modo particolare quella del 5 maggio scorso. Dalle “forti perplessità” espresse dal senatore Palma (Forza Italia), che della commissione è presidente, il quale ha invitato i colleghi “a considerare l'opportunità di svolgere un ciclo di audizioni”, alle “perplessità” di Giuseppe Lumia (Pd), secondo cui il testo della Camera “rischia di limitare l'applicazione del reato, sotto il profilo soggettivo, esclusivamente nei confronti dei pubblici ufficiali”. Sulla stessa linea Giovanardi (Ncd-Udc), espressione di un partito di governo, che ha anticipato la propria “indisponibilità a votare il testo con le modifiche apportate dalla Camera, che non appaiono condivisibili”, Orellana (Misto), “il testo iniziale del Senato era più equilibrato”, Malan (Forza Italia), “un testo come quello in esame (può) essere strumentalmente utilizzato per intralciare l'attività delle Forze dell'ordine”, Stefani (Lega Nord), il testo “finisce per incidere nei confronti delle funzioni svolte dalle Forze dell'ordine con il rischio di limitarne e condizionarne l'azione” e Buccarella (M5s), per il quale “la formulazione proposta con riferimento al delitto di tortura dalla Camera si caratterizza per la sussistenza di un dolo specifico idoneo a restringere in maniera eccessiva l'ambito oggettivo di applicazione della fattispecie ed a prestare il fianco al rischio di strumentalizzazione”.
L’unica voce registrata fuori dal coro è stata quella della senatrice Ginetti (Pd), che ha segnalato il rischio insito nel testo della Camera che il reato di tortura possa “risultare inapplicabile a casi analoghi a quelli verificatisi alla scuola Diaz”.
Sta di fatto che oggi, martedì 12 maggio, partiranno le prime audizioni informali volute dal presidente Palma. Anche in questo caso, l’ordine prioritario delle voci da raccogliere non pare cambiato: il capo della Polizia, il comandante generale dell'arma dei carabinieri, il capo Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il comandante generale della Guardia di finanza, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati e il presidente dell’Unione camere penali. Nessuna ombra della Diaz, com’è stato per la Camera.
Ora il rischio è che l’ennesimo rallentamento porti con sé un frutto avvelenato. E cioè una svolta decisionista che conduca all’approvazione di una legge “sbagliata” e “dannosa” (Guadagnucci). Lontana da Strasburgo e vicina al partito della polizia.

giovedì 14 maggio 2015

La Thatcher è per sempre? Conseguenze delle elezioni britanniche

La Gran Bretagna negli ultimi anni, per la sinistra italiana istituzionale o di movimento ha fatto notizia soprattutto per i riot. Quelli che si svolgono a debita distanza dall’Italia e che quindi, a differenza dei nostri, possono essere tranquillamente evidenziati come indice della crisi sociale provocata dal liberismo. Qualche parola sulle elezioni del 7 maggio non fa invece male, specie se si esce dalla chiacchiera elettorale e si entra nelle questioni politiche.
Prima di tutto anche queste elezioni sono state difficili da prevedere. Fino a poche ore dallo spoglio dei seggi l’incertezza regnava in ogni genere di previsione. Non è la prima volta, le europee italiane del 2014 lo mostrano, che ad un certo punto l’imprevedibilità dei comportamenti prende il sopravvento su ogni tipo di analisi. Questo per dire che l’analisi previsionale, in politica, cambia strumenti, tipo di complessità tecnologica e rimane lo stesso in ampie zone d’ombra. Se non cambiasse strumenti la politica istituzionale non potrebbe capire la società. Specie in un mondo dove l’evoluzione tecnologica è processo di indirizzo delle trasformazioni sociali. Ma, allo stesso tempo, per quanto debba entrare in questi processi tecnologici che indirizzano le trasformazioni sociali, la polica istituzionale non riesce ugualmente a prevedere i comportamenti sociali. Il caso e il caos non solo facili da domarsi.
Il dato più propriamente politico sta in una vittoria dei conservatori che, socialmente parlando, rappresentano più del 36% scarso ottenuto a elezioni col la solita alta astensione. I conservatori, dalla Thatcher in poi, sono infatti l’agenda politica della Gran Bretagna degli ultimi trentacinque anni. Gli stessi laburisti si sono fatti conservatori, sotto le insegne del new labour di Blair, per sopravvivere nella politica britannica. Tra il consenso al liberismo della Thatcher e quello al liberismo di Cameron ci sono delle differenze d’epoca non trascurabili. Quello della Thatcher saldava populismo della piccola proprietà azionaria diffusa con le esigenze di ristrutturazione del big business. Quello di Cameron è espressione di un paese il cui Pil è per metà espressione diretta dei servizi finanziari. In questo senso il Quantitative Easing della Banca di Inghilterra, più aggressivo di quello di Draghi nel continente, e la bolla immobiliare hanno fatto più consenso, in un paese dove i servizi finanziari producono una sterlina su due esistenti, di qualsiasi critica sociale. In modo da assorbire persino il populismo Ukip, grazie anche ai temi del referendum sull’Ue previsto da Cameron per il 2017. Anche perché, come per l’Italia, per il populismo ci vuole il popolo ovvero una certa affluenza. Infatti ad astensione alta, perlomeno rispetto a parametri italiani, Ukip alla fine ha ceduto il passo. Come, in maniera meno netta, in Francia il fronte nazionale della LePen. Meno persone votano, come in una società fortemente classista come quella britannica, più i temi populisti faticano a conquistare l’elettorato. In alcuni momenti la protesta funziona, vedi Ukip alle europee 2014 con alta astensione, ma alla prova decisiva l’elettorato, se la base dei votanti è ristretta, chiede risposte più tecniche, narrazioni meno pittoresche e una politica più vicina all’idea corrente di amministrazione piuttosto che allo spettacolo. La riduzione delle aspettative, luhmaniana prognosi per la politica delle società successive al fordismo, continua così a mantenere radici. In veste di società duale: metà legata ai servizi finanziari, metà esclusa, metà entro il gioco della politica istituzionale metà sideralmente lontana dalla politica.
Resta da dire che la Gran Bretagna del 7 maggio pone due problemi all’Europa e quindi a noi. Il primo è legato alla difficoltà degli scambi tra UK e resto d’Europa entro la stessa economia europea. Si leggono diverse analisi che parlano di economie divergenti o che comunque per l’economia inglese, l’Unione Europea rappresenta uno scambio ineguale. Queste convinzioni sono destinate a pesare nel prossimo futuro nel dibattito inglese rispetto all’europa. E possono diventare, specie se si acuisce la crisi greca, qualcosa di centrifugo per tutta l’Unione Europea. C’è poi la questione di ciò che vorrebbe, veramente, esportare verso l’Ue il governo Cameron. Si tratta dei servizi finanziari che la Borsa di Londra, prima piazza finanziaria d’Europa, tende a clonare nel continente. Anche questo può essere un problema per la Ue e non solo per le collocazioni in borsa del Dax di Francoforte. Può esserlo in vista di una compiuta unione europea dei capitali, prevista da Bruxelles nel 2018, che può cambiare la faccia dell’europa liberista quanto l’introduzione dell’Euro.
Ma una Londra debole nello scambio economico con l’Ue non è compatibile con una Londra forte nell’unificazione capitali, e dei servizi finanziari. Non c’è da dubitare che tutte queste contraddizioni si riverseranno su una Ue forte solo nella retorica.
Altra questione è il riemergere dell’indipendentismo scozzese pochi mesi dopo la sconfitta del referendum. La composizione elettorale scozzese non è toccata dalla finanziarizzazione del Pil inglese, per quanto proprio il timore di perdere il contatto con la City abbia fatto la differenza nel referendum del 2014. Oltretutto l’indipendentismo scozzese scommette su una integrazione con l’Ue, per favorire l’interscambio con continente, mentre Cameron, nella prossima stagione politica, sembra promettere turbolenze proprio con l’Unione Europea.
E c’è anche da giurarci che le esigenze di Londra, differenziarsi dall’Ue economicamente e far valere il proprio peso finanziario (sterilizzando la questione scozzese) peseranno sulle trattative legate al trattato sul commercio transatlantico. Tutto questo sembra lontano ma può anche diventare vicino, con il suo carico di criticità, se la questione greca di radicalizza. Non a caso la Banca di Inghilterra, pur dal suo punto di vista liberista, una volta eletto Tsipras ha fatto notare che l’Europa non poteva permettersi l’austerità. Tutte questioni, con nuovo voto conservatore, destinate a riemergere come critiche. Grazie ad un voto di destra ad una società che, ma solo ad occhi superficiali, sembra thatcheriana per sempre.

mercoledì 13 maggio 2015

Le patetiche giustificazioni della Casa Bianca sulla morte di Bin Laden

La risposta del Dipartimento della Difesa: "Ci sono troppe imprecisioni da rendere noioso individuarle riga per riga"
Ciò che è ancora più incredibile del'ultimo articolo di Seymour Hersh sulle presunte menzogne raccontate dalla Casa Bianca riguardo alla morte di Bin Laden è il patetico tentativo del governo americano di negarlo, scrive Michael Krieger sul suo blog. I funzionari stanno fondamentalmente rispondendo con affermazioni del tipo "non penserete mica che il governo vi mentirebbe", e "ci sono troppe inesattezze per rispondere a tutte".
Ad esempio, Politico riporta che:
L'ex portavoce della CIA: "Se si dovesse credere a Sy si dovrebbe credere a questa enorme cospirazione: che il presidente Obama, Robert Gates, Leon Panetta, e Mike Morell stanno tutti mentendo", ha detto Bill Harlow, ex portavoce dell'agenzia, riferendosi ai due ex segretari della Difesa e un ex direttore ad interim della CIA. "Non ha assolutamente alcun senso."
La storia di Politico diventa quindi ancora più surreale, e imbarazzante. Il portavoce per la Sicurezza Nazionale della Casa BIanca afferma:
"Ci sono troppe inesattezze e affermazioni infondate in questo pezzo per controllarle tutte", il portavoce della Casa Bianca per la sicurezza nazionale, Ned Price, ha detto in una dichiarazione ai giornalisti. Più tardi, durante il briefing quotidiano alla Casa Bianca, il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest è intervenuto, dicendo che la ricostruzione di Hersh era piena di "inesattezze e falsità."
Non sarebbe stato più convincente controllare ogni passaggio e offrire la prova delle imprecisioni per ripristinare la fiducia nell'America in generale?
Ma Price non è stato il solo ad adottare questa tattica. Anche il Dipartimento della Difesa ha fatto ricorso a trucchi mentali Jedi, ironizza Krieger:
"Ci sono troppe imprecisioni da rendere noioso individuarle riga per riga", ha detto il Colonnello Steve Warren, un portavoce del dipartimento, ai giornalisti del pezzo Hersh, badate apparso sulla rivista London Review of Books. "Ma non ci dovrebbe essere alcun dubbio che questo è stato un atto unilaterale ed è stato condotto in conformità a tutte le leggi in vigore dei conflitti armati. La documentazione pubblica sull'operazione è chiara. Il presidente l'ha annunciata entro 24 ore dal completamento, e non c'è niente da aggiungere a quello che il presidente ha già detto. Questo articolo sembra in gran parte un'invenzione. Sono troppo occupato per sprecare il mio tempo così. "

martedì 12 maggio 2015

La finanza vuole (ed ha già imposto) un governo fantoccio per l’Italia

Nell’indifferenza generale proseguono le sconcertanti dichiarazioni sia da parte dei politici che da parte delle agenzie di rating sulla situazione italiana. Quelle che mi hanno colpito di più in questi giorni in cui, con l’approvazione dell’italicum, si è surrettiziamente modificata la forma di governo del paese sono quattro.
La prima certamente è stata quella di Alfredo D’Attorre, deputato PD, il quale in un’intervista trasmessa su LA7 ha candidamente affermato (davanti ad un muto e rassegnato Mario Adinolfi) che Renzi sta facendo interessi stranieri e che la disoccupazione è mantenuta alta volontariamente.
Neppure il tempo di rabbrividire per l’ammissione, ampiamente scontata per me e per gli amici di scenari economici, ed ecco arrivare tre dichiarazioni semplicemente incredibili, da parte di Renzi, Moody e del sempre presente (purtroppo) Mario Monti, una calamità perenne per il Paese.
Renzi, prima dell’approvazione dell’italicum, è saltato fuori con uno strepitoso “potete mandarci a casa ma non potete fermarci”.
Nessuno ovviamente ha pensato di chiedere all’abusivo inquilino di Palazzo Chigi chi è il soggetto che non può essere fermato ma tanto la risposta l’aveva già data D’Attorre: Renzi ovviamente si riferiva agli interessi della finanza.
Il “noi” che ha usato assomiglia tremendamente al “noi” che usano i tifosi sportivi quando la propria squadra vince.
Entrambi non contano nulla ed a vincere sono altri. Ma Renzi è fiero del suo ruolo che lo pone ad essere il capo degli schiavi.
L’agenzia di rating Moody, altrettanto incredibilmente, ha ribadito che l’Italia non è più sovrana ed indipendente (come se ci fosse bisogno di rimarcarlo ancora), affermando con la consueta spudoratezza che la sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni è una “sconfitta”. Ancora una volta è lecito domandarsi per chi. La risposta è sempre la stessa, è una sconfitta per la finanza che Moody rappresenta.
Il pagamento di pensioni più alte è un atto infatti che va nella direzione opposta alla distruzione dei consumi interni del paese e della deflazione che invece gli avversari della democrazia vogliono per cancellare gli ultimi barlumi di libertà.
Moody ha poi parlato dell’italicum e chiaramente il giudizio è stato fortemente positivo a patto che venga abolito anche il Senato elettivo e che dunque effettivamente un solo partito possa porsi al controllo della Nazione attraverso l’occupazione di tutti gli organismi istituzionali, occupazione assai semplice quando si ha la maggioranza assoluta nell’unica Camera.
Maggioranza che uno zoccolo d’uro di un centinaio di parlamentari eletti in base alle nomine dirette del partito rendono ancora più salda e sostanzialmente soggetta ad un vincolo di mandato indirettamente costituito.
Moody definisce la dittatura che consegue a tale nuova forma di governo con il termine “stabilità”.
L’agenzia dunque avrebbe certamente dato un ottimo voto anche al fascimo ed alla Legge Acerbo che consolidò la dittatura nel 1923. Anzi forse avrebbe espresso qualche dubbio, la legge Acerbo era troppo democratica, aveva le preferenze!
Con l’italicum la Repubblica Parlamentare cessa di esistere ed il potere legislativo e giudiziario vengono per sempre subordinati a quello esecutivo.
L’Italia diventa un protettorato in cui un governo fedele alla finanza non avrà più alcun problema ad eseguire gli ordini di volta in volta assegnati, senza fastidiosi ritardi.
Il bersaglio grosso è ovviamente giungere all’abrogazione della Costituzione che con i suoi principi fondamentali immutabili (quella italiana è una Costituzione rigida) rimane una spina nel fianco per il completo smantellamento dell’Italia come nazione sovrana ed indipendente.
Ma non è finita, poteva stare zitto in tutto questo Mario Monti? Certamente no.
Monti si è lanciato in una critica alla Corte Costituzionale per l’ineccepibile sentenza sulle pensioni. d’altronde è una sentenza che lo ha punto sul vivo poiché è stato uno dei provvedimenti di distruzione della domanda interna più efficaci del suo governo illegittimo.
Tale critica rappresenta, ancora una volta, il preludio ideologico a ciò che con l’italicum sarà possibile fare, ovvero nominare una Corte politica che non fermerà la distruzione della carta costituzionale.
Infatti con Parlamento e Presidente della Repubblica in mano alla maggioranza si potrà procedere a superare definitivamente la Costituzione senza timori di essere fermati dalla Corte preposta a difenderla.
Già si dice che la sentenza sulle pensioni sia stata emessa con un solo voto di scarto a favore dell’incostituzionalità. Ciò significa che sei giudici della Corte sono già pesantemente influenzati dalle volontà politiche perché davvero l’incostituzionalità era manifesta a chiunque. Sei giuristi di quel livello, se in buona fede o comunque liberi da condizionamenti, non potevano non accorgersene.
Ma torniamo alla dichiarazione. Precisamente Monti ha affermato: “La Corte Costituzionale guarda uno spicchio significativo di un intero problema, e cioè il blocco delle indicizzazioni delle pensioni, e forse non da altrettanto rilievo ad altri valori di pari rilievo costituzionale come per esempio il vincolo del pareggio in bilancio” e poi ha demenzialmente rincarato “Ma lassù, più in alto, c’è il mondo augusto e distaccato delle Corti Costituzionali”.
Il plurale, come per Renzi, non è un caso. Monti, quale uomo di spicco della finanza, odia tutte le Corti Costituzionali che ostacolano le cessioni di sovranità degli Stati, dunque non solo la Corte italiana.
Monti come di consueto è peraltro in malafede, altrimenti sarebbe un ignorante di proporzioni cosmiche e sappiamo molto bene che così non è.
Mentre Renzi certamente non è una cima e forse poco comprende di alcune dinamiche, Mario Monti è certamente un uomo dei poteri forti in grado sufficientemente elevato per avere chiaro il disegno complessivo.
Infatti è impossibile ritenere che Monti non sappia che i principi fondamentali della Costituzione ed i diritti inalienabili sono valori di rango costituzionale ben superiori all’insignificante pareggio in bilancio che addirittura non è compatibile con essi.
In una Repubblica fondata sul lavoro il pareggio in bilancio, peraltro introdotto proprio da Monti con un colpo di mano palesemente eversivo dell’ordine costituzionale, contrasta con la necessità di eseguire politiche di piena occupazione che inderogabilmente richiedono un deficit di bilancio nel lungo periodo.
L’art. 47 Cost. coerentemente con i principi fondamentali impone alla Repubblica di tutelare ed incoraggiare il risparmio in tutte le sue forme. Il risparmio, ovviamente, è matematicamente possibile solo con politiche di deficit. Se lo Stato tassa quanto spende, o addirittura di più (conseguendo l’avanzo primario che ci contraddistingue da vent’anni) è evidente a qualsiasi persona dotata di intelletto che il risparmio diviene matematicamente impossibile perché ogni anno la moneta che circolerà nell’economia reale diverrà sempre meno.
Il pareggio in bilancio rende dunque impossibile la crescita nel lungo periodo ed impedisce alla Repubblica di adempiere ai propri obblighi fondanti. Non potendo contrastarsi l’effetto del vincolo con il potenziamento delle esportazioni e ciò è sempre vero soprattutto nel lungo periodo.
Al contrario di quanto dice Monti la Corte, in futuro, non dovrà dunque preoccuparsi di analizzare questo vincolo per farlo prevalere sui principi fondamentali, ma anzi dovrà fare l’esatto opposto.
Attraverso una rimissione ad hoc, che spero possa arrivare già a luglio da parte del Tribunale di Genova nella causa da me intrapresa contro la Presidenza del Consiglio per le illegittime cessioni di sovranità compiute, chiarire il ruolo giuridico del deficit e della moneta mettendo fine, e questa volta per sempre, al crimine del pareggio in bilancio.
Esiste un solo limite quantitativo alla crescita economica ed è quello naturale, ovvero la presenza materiale sul pianeta di risorse sufficienti. Questo limite ovviamente non sarebbe superabile neppure per la tutela del lavoro, in quanto sarebbe materialmente impossibile.
Peraltro non si vede come non dovrebbe essere possibile evolvere con politiche ecologicamente sostenibili in campo economico. Farlo è possibile, basterebbe togliere il controllo a chi ha interessi opposti per ragioni di mero profitto. Guarda caso un’azione che la nostra Costituzione consentirebbe!
La linea da prendere dunque è semplicissima: basta fare il contrario di quello che chiede la Troika. Non serve nemmeno sforzarsi, ciò che loro dicono essere buono è per noi male e viceversa.
Quando i limiti dello sviluppo non dipendono dalla terra ma da scelte umane quali quella di rendere finito un bene per definizione infinito com’è la moneta, allora le ragioni sono unicamente politiche. Pertanto il bilanciamento dei valori costituzionali deve portare alla prevalenza dei principi fondanti dell’ordinamento.
Chi antepone la vita al pareggio in bilancio dovrebbe avere una casa molto specifica, quella circondariale (il carcere).
La Corte Costituzionale peraltro si è già espressa in questo senso con la sentenza n. 238/14 nella quale ha affermato la superiorità dei principi fondamentali e dei diritti inalienabili dell’uomo anche nei confronti dei Trattati UE che sono poi l’origine del pareggio in bilancio e più in generale della crisi economica.
Evidentemente questa sentenza non è sfuggita a Monti che sa bene che il successo del suo disegno criminoso che ha sposato passa necessariamente dal controllo sulla Corte Costituzionale.
Tali ragionamenti portano a concludere che la riforma dell’art. 81 Cost. voluta ed attuata dallo stesso nel 2012 rappresenta, in tutto e per tutto, un attentato alla costituzione perché ne ha tradito i valori e dunque Mario Monti e tutti coloro che consapevolmente hanno votato la riforma sono punibili ai sensi e per gli effetti dell’art. 283 c.p.
Vero che dopo l’assurda riforma del codice penale del 2006 l’attentato alla Costituzione o il mutamento della forma di governo (che è poi quanto accaduto surrettiziamente con l’italicum) sono puniti solo se compiuti con la violenza, ma è concetto ampiamente noto in giurisprudenza che la violenza sussiste anche quando vi è coercizione attraverso la cooptazione della volontà.
Lo strumento di coercizione con cui si è mutata la Costituzione e la forma di governo del Paese è ovviamente la crisi economica, crisi che sempre Monti ha dichiarato essere lo strumento migliore, specialmente se la crisi è grave, per obbligare i popoli a cedere la propria sovranità. Infatti l’ex presidente del consiglio (tutto rigorosamente minuscolo) ci ha ricordato che senza gravi crisi i popoli rifiuterebbero le cessioni per il proprio senso di appartenenza nazionale.
C’è bisogno di aggiungere altro?
Il disegno criminale di smantellamento della democrazia costituzionale è in corso (e quasi compiuto) ed il fatto che la finanza voglia un governo fantoccio per il paese ormai è ammesso da una serie di dichiarazioni sempre più folli.

lunedì 11 maggio 2015

ABOLIZIONE VITALIZI PARLAMENTARI CONDANNATI

Partiamo dai fatti. Come annunciato ieri da Madama Boldrini, gli uffici di presidenza di Camera e Senato hanno approvato la proposta di abolire l’assegno vitalizio per i parlamentari condannati in via definitiva per reati di particolare gravità: reati di mafia, terrorismo e contro la pubblica amministrazione, con pene superiori ai due anni. Nell’ultima fattispecie è però escluso l’abuso d’ufficio.
Il vitalizio verrà sospeso agli ex deputati e senatori condannati in via definitiva per più di due anni per i reati che prevedano una pena edittale di 6 almeno anni mentre non sarà sospeso nel caso in cui il parlamentare riceva la riabilitazione.
“Esprimo grande soddisfazione – si pavoneggiava ieri Madama Boldrini – per il voto con cui oggi l’Ufficio di Presidenza della Camera ha deciso lo stop ai vitalizi per gli ex parlamentari condannati in via definitiva per reati gravi. E’ un segnale netto ed inequivocabile di moralizzazione della politica. Non è giusto continuare ad erogare denaro pubblico a quanti, con il loro comportamento, non hanno tenuto fede all’impegno di “disciplina e onore” richiesto dalla Costituzione a chi ricopre cariche pubbliche. Sono queste le risposte che la buona politica deve ai tanti cittadini che esigono correttezza, rigore e onestà dai loro rappresentanti“.
ABOLIZIONE VITALIZI PARLAMENTARI CONDANNATI, LA FARSA

Ma è davvero tutto oro quel che luccica? Noi abbiamo avuto forti sospetti perché quando di mezzo ci sono i parlamentari è sempre vero il contrario di quel che dicono. E allora siamo andati a spulciare tra le pieghe del provvedimento ed è venuto fuori che l’abolizione è tutta una farsa.
I primi a lanciare il segnale d’allarme sono stati i 5 Stelle, che hanno abbandonato l’ufficio di presidenza della Camera: “Questa delibera è solo una farsa, che salva la stragrande maggioranza dei politici condannati, tutti i loro amici di tangentopoli, e colpisce solo una piccola cerchia“, hanno attaccato.
ABOLIZIONE VITALIZI PARLAMENTARI CONDANNATI, CHI VIENE COLPITO
Tra i pochi colpiti ci sono alcuni nomi illustri, che fanno chiaramente da specchietto per le allodole, seppur – detto con grande franchezza – è una goduria sapere che Marcello Dell’Utri (condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa), Cesare Previti (condannato a 6 anni per corruzione in atti giudiziari), Totò Cuffaro (condannato a 7 anni per favoreggiamento alla mafia), Toni Negri (condannato a 12 anni per complicità con le Brigate Rosse), Massimo Abbatangelo (condannato a 6 anni per detenzione di esplosivo) e dulcis in fundo Silvio Berlusconi (condannato 4 anni di reclusione, tre coperti da indulto, per frode fiscale).
Ma qui iniziano a sorgere i primi dubbi: cosa succederà a partire dal 2018 quando Berlusconi potrà fare richiesta per la riabilitazione penale?
Basta leggere il testo della delibera approvata dall’Ufficio di presidenza per capire l’inghippo: “Le norme non si applicano qualora sia intervenuta la riabilitazione”. Questo significa che, se riabilitato, al deputato viene ripristinata l’erogazione dei vitalizi “con decorrenza dalla data dell’istanza di riabilitazione“.
Tempo un paio d’anni e il “povero” Silvio avrà di nuovo il suo vitalizio.
Ma le scappatoie non finiscono qui: le norme contenute nella delibera infatti “non si applicano agli assegni e pensioni di reversibilità spettanti ai familiari superstiti, laddove il deputato cessato il suo mandato sia deceduto in data anteriore all’entrata in vigore” della delibera e le misure “sono adottate dall’Ufficio di presidenza previo accertamento dei relativi presupposti“.
ABOLIZIONE VITALIZI PARLAMENTARI CONDANNATI, CHI SI SALVA
Con questi presupposti anche uno come Marcello de Angelis, condannato a 5 anni per banda armata e associazione sovversiva come elemento di spicco del gruppo neofascista Terza Posizione, riesce a salvarsi perché riabilitato.
Ma sono tanti i nomi illustri di quanti riescono a farla franca grazie a questa delibera “al ribasso”.
L’ex ministro Paolo Cirino Pomicino continuerà a prendere oltre 5.000 euro di vitalizio nonostante la condannato per la maxi tangente Enimont e quindi per finanziamento illecito ai partiti: si salva perchè ha dovuto scontare meno della soglia minima di due anni e perché riabilitato.
Anche Domenico Nania, parlamentare di lungo corso di Alleanza nazionale anche con incarichi di governo, continuerà a percepire quasi 6.000 euro al mese di vitalizio, seppur abbia scontato dieci giorni di carcere e sia stato condannato a 7 mesi per lesioni personali legate ad attività violente nei gruppi giovanili di estrema destra all’inizio degli anni Settanta.
Sulla stessa scialuppa di salvataggio salta anche Roberto Maroni, condannato a quattro mesi e 20 giorni per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale quando impedì ai poliziotti di entrare nella sede della Lega.
Esultano i socialisti, quasi tutti salvi. A partire dall’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, che continuerà a percepire poco più di 4.500 euro al mese nonostante il coinvolgimento nell’inchiesta Enimont, con sentenza definitiva di otto mesi. Stesso discorso per Gianni De Michelis, vitalizio di 5.174,79 euro, condannato a 4 anni in primo grado, poi ridotti con il patteggiamento a un anno e sei mesi, per l’inchiesta sulle tangenti per le autostrada del Veneto, cui si aggiungono i sei mesi per l’affare Enimont: salvo perché sotto la soglia dei due anni.
Persino l’agente Betulla, alias Renato Farina, riesce a sfangarla: l’ex agente dei servizi segreti condannato a sei mesi per favoreggiamento nel sequestro dell’imam egiziano Abu Omar, manterrà il suo vitalizio.
Altro nome eccellente salvo è quello di Giorgio La Malfa, vitalizio da 5.759,87 euro nonostante la condanna a sei mesi per finanziamento illecito ai partiti.
Chiudiamo con il cognato di di Bettino Craxi, l’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, condannato a quattro anni e sei mesi per ricettazione e finanziamento illecito ai partiti e un vitalizio da 2.906,11 euro al mese. Si salva perché riabilitato.
Ma sapete qual è la notizia più surreale di tutte e che riduce – per chi ancora nutre dei dubbi – la sceneggiata di ieri ad una farsa totale? Per un’azione del genere, per togliere quindi i vitalizi ai parlamentari condannati servirebbe una legge, non una delibera dell’ufficio di presidenza di Camera e Senato. Ecco perché, molto probabilmente, sarà cassata dalla Corte Costituzionale. Ma intanto il Pd di Renzi potrà sventolarla in campagna elettorale.

domenica 10 maggio 2015

LA CRISI DEL CAPITALISMO

Se da un lato l’opinione di molti esperti diverge sulle cause, le conseguenze e le soluzioni da applicare in merito alla crisi economica attuale; dall’altro un fattore li accomuna: il sistema capitalistico è in crisi. Come ha affermato il sociologo, scrittore e docente italiano Luciano Gallino nel suo libro Finanzcapitalismo – La civiltà del denaro in crisi “la crisi economica (ma anche culturale e politica) che stiamo vivendo è la crisi di questa civiltà-mondo dominata dal sistema finanziario.” Ma come si è arrivati a questa situazione in cui il sistema finanziario, come afferma Gallino, domina la nostra civiltà? E cosa si intende, esattamente, per “finanzcapitalismo”? Prima di tutto cominciamo definendo cosa si intende per “capitalismo”, più precisamente con “economia di tipo capitalistico”. L’economia capitalista è un’economia di mercato, basata cioè sulla produzione e la vendita di grandi quantità di merci. Il principio guida di tale organizzazione è il profitto, ovvero l’accumulazione attraverso le attività di mercato di un surplus finanziario rispetto al capitale originario, impiegato per la produzione e/o la commercializzazione delle merci.
In un periodo nel quale ci si interroga sulla crisi di tale sistema torna sicuramente attuale il pensiero di un filosofo dell’Ottocento che di questo sistema aveva previsto il crollo: Karl Marx. Il filosofo tedesco definisce il capitale come un accaparramento illecito di denaro a danno dei lavoratori: più precisamente il modo di produzione capitalistico, inteso come un enorme produzione e raccolta di merci, è finalizzato non al consumo, bensì al profitto. Infatti a un’economia di consumo tipica della società mercantile, sintetizzata dalla formula M-D-M (dove “M” sta per merce, “D” per denaro), è subentrata un’economia di profitto, data dallo schema D-M-D’ (dove D’ è maggiore di D). In questo secondo tipo di economia, finalizzata all’aumento di denaro, anche il lavoro diventa merce, che viene comprata in cambio di un salario calcolato sul minimo necessario per la sussistenza e, quindi, solo in base a una parte del lavoro impiegato dall’operaio: ciò genera plusvalore e quindi profitto per il capitalista. Tuttavia il capitalista, per poter dirigere la fabbrica e abbattere la concorrenza, è costretto a investire anche in impianti, macchine e materie prime (ovvero il cosiddetto “capitale costante”) pertanto il saggio (o tasso, percentuale) di profitto, che nasce dal rapporto tra plusvalore e la somma tra capitale variabile (salari) e capitale costante, subirà una tendenziale caduta. Con la conseguente concentrazione del capitale in poche mani a causa del fallimento di numerose industrie, la massa dei proletari crescerà sempre di più: secondo Marx “la borghesia crea ciò che la distruggerà: il proletariato”, che sfocerà nel comunismo.
Il primo grande evento che testimoniò l’avvenuta globalizzazione capitalistica delle merci e dei capitali, preannunciata da Marx nella prima metà dell’Ottocento, fu la crisi del ’29: una grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni venti. In un contesto storico in cui, in seguito alla prima guerra mondiale, l’Europa cedette il primato economico agli Stati Uniti d’America (creditori di guerra) avvenne proprio nel Nord America il cosiddetto “boom borsistico”, caratterizzato da una fiducia illimitata nella crescita della ricchezza. Ciò generò un clima di euforia sui mercati azionari: oltre alle grandi imprese che, producendo più di quanto i mercati non fossero in grado di assorbire, preferirono investire in Borsa; anche i piccoli azionisti avevano la possibilità di comprare delle quote in Borsa sfruttando i tassi di interesse bassissimi. Una corsa speculativa che, non essendo regolata in alcun modo, crollò in un “giovedì nero” dell’ottobre del ’29: la Federal Reserve, che fino a quel momento aveva promesso alle banche di dilatare i loro debiti, rialzò il tasso di interesse causando una fortissima diminuzione delle quotazioni: chiunque si affrettò a vendere le proprie azioni, ormai prive di valore, innescando una crisi senza precedenti. I prezzi crollarono, le banche fallirono, la produzione si dimezzò, la disoccupazione balzò alle stelle. Due le strade che i governi adottarono in funzione anti-crisi: una politica di tipo deflazionistico (con una moneta forte e il contenimento della spesa pubblica, ma favorendo la disoccupazione) oppure una politica di incremento della spesa pubblica (con la svalutazione della moneta, l’aumento di consumi e occupazione, ma ampliando i deficit di bilancio).
Fautore di quest’ultima corrente di pensiero fu l’economista inglese John Maynard Keynes che, nell’opera intitolata Teoria generale dell’impiego, dell’interesse e della moneta, promosse un ruolo attivo dello stato in campo economico. Denominatore comune delle sue ricette anti-crisi, l’occupazione: “il capitalismo non crea l’occupazione, ma viceversa”. Ad applicare le teorie keynesiane per uscire dalla crisi fu l’allora presidente degli Stati Uniti d’America F.D. Roosevelt con il “New Deal”: il sistema creditizio venne sottoposto a rigidi controlli, venne promossa la costruzione di grandi opere pubbliche e allestito un sistema di previdenza sociale. Queste misure comportarono un ingente aumento della spesa pubblica, ma favorirono la ripresa dell’economia americana in un quadro di conservata democrazia. I fantasmi della grande crisi del 1929, che Roosevelt era riuscito a scacciare, tornarono però ad aleggiare nel 2007 con il crollo dei beni immobili: un vero e proprio annus horribilis che ha segnato l’entrata nella crisi del cosiddetto “finanzcapitalismo”. Ma cosa si intende esattamente per “finanzcapitalismo”? A differenza della prima grande crisi economica e finanziaria, quella del 1929, che aveva un carattere industriale; quella scoppiata nel 2007 ha, invece, un carattere finanziario. A partire dagli anni ’80 infatti la componente finanziaria ha preso un sopravvento sempre più marcato sulla componente produttiva delle merci dando vita a un sistema con lo scopo di massimizzare il valore estraibile dal maggior numero possibile di esseri umani e dalla natura: mentre il capitalismo industriale produceva accumulazione, come affermato da Marx, secondo il sistema D-M-D’ con l’industria manifatturiera come motore, quello finanziario produce accumulazione impiegando denaro per produrre una maggior quantità di denaro, senza passare per le merci e ha come motore il sistema finanziario stesso (D-D’). E alla sua base c’è il massiccio impiego in un’attività speculativa, basata sul debito privato e pubblico (basti pensare che nel 1980 gli attivi finanziari erano equivalenti al PIL mondiale, mentre nel 2007 lo superavano di oltre quattro volte).
Un’attività speculativa dovuta al fatto che la politica, invece di regolare l’economia, ha adattato la società all’economia: la deregulation di Ronald Reagan negli USA e il “thatcherismo” in Inghilterra degli anni ’80 hanno contribuito, adottando politiche economiche ultraliberiste, a favorire l’attività speculativa di banche e privati non più regolati dallo stato (“il governo non è la soluzione al problema, il governo è il problema” affermava Ronald Reagan).
Questa evoluzione del capitalismo da industriale a finanziario ha fatto sì che gli interessi finanziari diventassero una parte molto più forte del tutto con il settore industriale, e quindi il lavoro, che si ritrova con le spalle al muro. Le ragioni del declino dell’economia capitalista, dunque, si collocano nell’utilizzo sempre più consistente (fatto inevitabile a partire dalla logica concorrenziale che caratterizza questo tipo di sistema economico) della tecnologia come strumento di produzione delle merci, con la conseguente decrescita dell’impiego della manodopera salariata.
In questo contesto il benessere sociale decresce: o meglio, il declino tendenziale dei profitti capitalistici può essere considerato una conseguenza diretta delle minori risorse economiche dei lavoratori. E l’attuale rivoluzione tecnologica non aiuta: se per lungo tempo la maggior parte degli economisti, sulla base di quanto osservato dopo la prima rivoluzione industriale, ha dato per certa la relazione positiva tra innovazione tecnologica e innalzamento occupazionale e salariale, oggigiorno comincia a delinearsi un secondo filone di pensiero secondo cui, invece, nell’attuale era dell’elettronica, delle telecomunicazioni e dell’informatica il potenziale dell’automazione potrebbe portare a uno scenario meno positivo rispetto a quello osservato nello scorso secolo. Lo ha affermato anche l’ex premier Romano Prodi in un’intervista rilasciata su “La Repubblica”: «a differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie dell’informazione distruggono posti di lavoro. Il rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto». L’automazione dei processi produttivi minaccia l’occupazione nelle fabbriche e negli uffici e, come ha scritto il giornalista britannico John Lanchester nel “London Review of Books”, “potrebbe far nascere un mondo in cui la ricchezza si concentrerà nelle mani di chi controlla le macchine, mentre la vita di tutti gli altri diventerà più precaria”, arrivando alla conclusione che “è il capitale che ha tratto il maggior profitto dalla produttività, non la forza lavoro”.
Per uscire da questa situazione bisognerà cercare delle alternative: la soluzione è quella di uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? La questione rimane aperta perché, come diceva il noto economista britannico John Maynard Keynes, “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi.”