domenica 30 novembre 2014

E’ record disoccupazione a quota 13,2%

Il tasso di disoccupazione ha raggiunto la quota d’allarme del 13,2%, un aumento un punto percentuale netto rispetto all’anno precedente. Si tratta di un record negativo che la dice lunga su quanto stia sprofondando il nostro Paese.
Quota 13,2% è stata raggiunta. Ce lo dice l’Istat la cui rilevazione fotografa una situazione sociale drammatica per quanto riguarda il nostro Paese. Il livello record di disoccupazione è il peggiore dall’inizio delle serie storiche mensili (gennaio 2004) e, andando ancora indietro sulle serie trimestrali, si arriva al 1977. A ottobre gli occupati erano 22,374 milioni con una diminuzione dello 0,2% al mese, pari a circa meno 55.000 lavoratori. Il numero di disoccupati invece sarebbe pari a 3,410 milioni con un aumento del 2,7% su base mensile (+ 90.000) e del 9,2% su base annua. E il bello è che a comunicare tutto questo ci ha pensato l’Istat che, per ironia della sorte, è stato occupato dai precari in stato di agitazione per il rinnovo del contratto. Preoccupa anche la disoccupazione giovanile che è salita al 43,3%, un aumento dello 0,6% rispetto al mese precedente e di 1,9% nel confronto tendenziale. Insomma se questi sono i dati siamo di fronte a un Paese che, a dispetto di ormai quasi quattro anni di crisi economica, ancora non riesce a trovare la luce in fondo al tunnel. Anzi, guardando alla Grecia e ai sacrifici che ha dovuto mettere in campo per ottenere nuovamente dei dati positivi l’Italia ha davvero ben poco da sorridere, ancor più che ancora oggi ad Atene i cittadini sono esasperati e il livello di disoccupati altissimo. E a sentire Renzi e l’intenzione del governo non sembra che le radici della disoccupazione verranno intaccate nei prossimi mesi, semmai si renderà il lavoro ancora più precario e si aumenterà la possibilità di licenziamento. Inoltre si continua a utilizzare il Pil come unico criterio di giudizio per l’economia di questo o quel Paese quando ormai il Pil non tiene in alcun modo conto del benessere dei cittadini e soprattutto delle loro speranze e condizioni di vita.

sabato 29 novembre 2014

Bce, possibili nuove manovre

Istat, tasso di disoccupazione al 13,2% e aumento dello 0,2% su base annua dell’inflazione

Più passano le ore e più si rafforza l’idea che la Bce attuerà sicuramente qualche mossa per stimolare ulteriormente l’economia dell’Eurozona. Una queste mosse potrebbe essere l'acquisto massiccio di titoli e in particolare di debito governativo, con l'effetto di comprimere i rendimenti dei Btp italiani a livelli mai visti da quando è stata introdotta la moneta unica.

Oggi lo spread tra Btp e Bund tedeschi è tornato a 133 punti base, livelli che si erano toccati nello scorso settembre. Ciò che colpisce è soprattutto il rendimento espresso dai decennali italiani sul mercato secondario a rappresentare una importante notizia per il Tesoro, con il minimo storico del 2,03%. Stesso discorso vale per i Bonos spagnoli che hanno un rendimento dell 1,9%.

In tale contesto, le Borse europee chiudono la giornata in maniera non del tutto positiva. Infatti, Piazza Affari avanza debole e il Ftse Mib gira in rosso dello 0,7%, mentre Londra arretra dello 0,2%, e Parigi e Francoforte limano uno 0,4%.

Ritorna in auge la questione della legge di stabilità in Europa che la Commissione europea deve valutare. Se per paesi come Germania ed Irlanda hanno avuto un responso positivo, per paesi a rischio come l’Italia la Commissione europea ha espresso questo parere: «La Commissione è dell'opinione che l'Italia ha fatto progressi per quanto riguarda le raccomandazioni di bilancio e invita le autorità a fare ulteriori passi avanti. In questo contesto, misure di aiuto alla crescita, un rigido controllo della spesa pubblica primaria, un aumento dell'efficienza della spesa pubblica e le previste privatizzazioni contribuirebbero a portare il debito pubblico su un piano calante, coerente con la regole del debito nei prossimi anni». In sintesi, Bruxelles mette da parte per il momento la richiesta di ulteriori misure di bilancio nella Finanziaria 2015 a patto che vengano effettuate delle riforme strutturale volte al miglioramento economico del paese stesso.

Intanto il Primo Ministro britannico Cameron avvia una nuova politica per limitare il numero di immigrati in Inghilterra. I quattro punti del piano annunciato dal premier inglese sono: chi sbarca a Dover e dintorni alla ricerca di lavoro dovrà attendere 4 anni per ottenere i benefici del generoso welfare britannico; se dopo sei mesi non avrà trovato un'occupazione dovrà lasciare il Paese. Chi lavora, invece, dovrà attendere 4 anni per avere benefici fiscali e case popolari oggi garantiti subito e non potrà più ricevere gli assegni famigliari se la famiglia risiede nel Paese d'origine. Tale politica è in netto contrasto con quella attuata finora dall’Unione europea e proprio per questo non è da scartare un possibile scontro proprio tra Inghilterra e Unione europea su tale questione con possibile uscita del primo dal secondo.

La nazione che sicuramente non sta vivendo un momento felice è sicuramente la Russia. A causa delle sanzioni ricevute dall’Unione europea e della stagnazione economica, nella giornata di ieri il rublo ha fatto registrare risultati ancora più negativi. Inoltre, la decisione dell’OPEC di non tagliare il prezzo del petrolio, così come la conseguente caduta del greggio sotto quota 70 dollari al barile, ha messo in seria difficoltà la Russia. Proprio la nazione di Putin, che deve agli idrocarburi la metà delle entrate fiscali e il 70% dell'export, su stessa ammissione ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, il crollo del prezzo del greggio ha causato un danno che si aggira tra i 90 e i 100 miliardi di dollari l'anno.

Questioni urgenti da risolvere anche per il governo italiano che, secondo i dati Istat ed Eurostat, il tasso d’inflazione su base annua aumenta dello 0,2%, un decimale in più rispetto ad ottobre, per effetto in particolare degli alimentari non lavorati. Altrettanto importante è la questione relativa alla disoccupazione. Sempre secondo l’Istituto nazionale di statistica, il tasso di disoccupazione ad ottobre è stiamo al 13,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0 punti nei dodici mesi. Tale dato è dipeso, da un lato dal lieve incremento della forza lavoro e dall'altro dal calo delle persone occupate.

Intanto dal ministero del lavoro emergono i primi dati in merito ai contratti a tempo indeterminato. Sono ben oltre 400mila i nuovi contratti, con un aumento tendenziale del 7,1% su anno, concentrato nell'industria e agricoltura. Diminuiscono invece gli avviamenti nel settore servizi, tranne che nell'istruzione, che presenta più di 17mila nuovi contratti a tempo indeterminato. Dai dati presentati emerge anche che il contratto di apprendistato non convince del tutto ed infatti ha fatto registrare solo un 3,8%.

Da valutare nelle prossime settimane sarà anche la variazione del prezzo dei carburanti in virtù del crollo del prezzo del petrolio. Infatti, secondo le ultime rilevazioni di Quotidiano Energia, l'Eni ha tagliato di 1,5 centesimi al litro i prezzi sia della benzina che del diesel. Le medie nazionali della benzina e del diesel raggiungono adesso, rispettivamente, 1,713 e 1,641 euro al litro (Gpl a 0,691). In alcune zone d’Italia però il prezzo per la verde arriva fino a 1,774 euro mentre per il diesel a 1,696 e per il Gpl a 0,711

venerdì 28 novembre 2014

RENZI FA IL LOBBISTA PER IL DENARO DIGITALE DI BILL GATES

Al di fuori della comunicazione ufficiale, molti commentatori hanno opportunamente notato che le dichiarazioni di Matteo Renzi sul prossimo abbandono dello scontrino fiscale in nome della mitica "tracciabilità", hanno come vero obiettivo l'eliminazione del contante per adottare il denaro elettronico, altrimenti detto, all'anglosassone, "denaro digitale". Una parte consistente della stampa di corte è andata immediatamente in appoggio delle dichiarazioni depistanti di Renzi, prospettando un quadro catastrofico dell'evasione fiscale che sarebbe favorita dallo scontrino. Per rendere credibili dei dati di dubbia consistenza, si è collocata alla testa della classifica dell'evasione la solita Napoli. Ancora una volta il razzismo antimeridionale è stato usato dalla propaganda ufficiale come veicolante per altre mistificazioni.
Ma per veicolare la propaganda a favore del denaro elettronico, ci si è serviti anche di un tema come la lotta all'evasione fiscale, ritenuta un cavallo di battaglia della "sinistra". In realtà l'utopia della giustizia fiscale consiste solo nella proiezione di un fantasma vittimistico della destra, che descrive i ricchi sempre sotto la minaccia di un presunto "esproprio proletario". Il vittimismo dei ricchi è sempre la coperta propagandistica dell'assistenzialismo per ricchi; in questo caso assistenzialismo per banchieri, poiché il denaro elettronico non soltanto rende obbligatoria la carta di credito, ma costringerà anche l'evasione fiscale a passare esclusivamente per le banche. Con adeguati software, l'elettronica può servire non solo a "tracciare", ma anche a stornare i profitti, magari intestandoli a società di comodo. Con la carta di credito occorre versare la tangente alle banche per ogni passaggio di denaro; con la carta di credito obbligatoria, la tangente sarà dovuta anche per l'evasione fiscale dei piccoli dettaglianti.
Il depistaggio informativo costituisce un espediente costante del lobbying finanziario. Anche il fumoso "Jobs Act" concentra l'attenzione su una "libertà di licenziare" che già esiste ampiamente, in modo da distrarre dal vero obiettivo, cioè una generale privatizzazione/finanziarizzazione della previdenza e degli ammortizzatori sociali. Si tratta, in definitiva, di svaligiare quella ben provvista cassaforte che è l'INPS, ed anche di dotare i lavoratori di carta di credito per poter riscuotere le indennità di disoccupazione. Non si capiva infatti perché i disoccupati sinora avessero il privilegio di essere esentati dal versare la tangente alle banche.
Ma nella circostanza sarebbe un errore sottovalutare lo squallore del personaggio Renzi, mancando di notare la puntualità servile della sua attività di lobbying. La maggiore lobby internazionale del denaro digitale è la "Bill e Melinda Gates Foundation", che da anni sperimenta in Africa l'introduzione di forme di "banchizzazione" elettronica delle masse di poveri, ovviamente con il pretesto di sollevarli dalla loro misera condizione. Il sito della fondazione ci offre con dovizia di particolari la cronaca di questa evangelizzazione delle masse al nuovo credo digital-finanziario.
Bill Gates, il "fondatore" di Microsoft, fa parte, come i Steve Jobs e i Mark Zuckerberg, di quella cerchia di finti "capitalisti per caso", che si sono arricchiti commercializzando le tecnologie ottenute dalla ricerca finanziata dal Pentagono con il denaro pubblico. Attualmente Bill Gates, insieme con la moglie Melinda - che proviene anch'essa da Microsoft -, svolge a tempo pieno l'attività di "filantropo", cioè di lobbista e di allevatore di lobbisti a pro delle multinazionali. La stampa compiacente ci "informa" sul fatto che Bill Gates e Mark Zuckerberg abbiano versato per la lotta contro l'epidemia-Ebola più di Cina e India messe assieme. Un dato del genere sarebbe sufficiente da solo per togliere all'emergenza-Ebola ogni attendibilità.
La coincidenza vuole che proprio negli stessi giorni in cui Melinda Gates era a Roma per essere ricevuta a Palazzo Chigi, Renzi abbia rilasciato le sue dichiarazioni contro lo scontrino fiscale ed a favore della "tracciabilità" che sarebbe consentita dal denaro elettronico. La "visita" della Gates a Renzi ha dato immediatamente i suoi frutti.
Il colonialismo filantropico riduce gli Stati a feudi personali di soggetti privati, e ciò non vale solo per l'Africa. L'esponente di una fondazione privata è stata ricevuta da un capo di governo italiano con più onori di quelli tributati ad un capo di Stato. La foto ufficiale dell'incontro fra Renzi e la Gates ci mostra il Presidente del Consiglio nella posa untuosa del paggetto timido e deferente, pronto a ricevere le istruzioni dal padrone.

giovedì 27 novembre 2014

Generazione 300 euro: il Jobs Act di Renzi rischia di ridurci come la Grecia

Un’inchiesta pubblicata dal blog KTG, e tradotta da L’Antidiplomatico, racconta gli effetti della riforma del lavoro nel mercato della Grecia, stato utilizzato come “topo da laboratorio” dalla Troika. E il Jobs Act di Renzi rischia di ridurci proprio come la Grecia: ecco perché.

Quando in televisione o sui giornali vi parlano degli effetti miracolosi del Jobs Act di Renzi, riflettete sul topo da laboratorio della Troika

Un lavoratore su tre nel settore privato greco guadagna un salario da 300 euro al mese (440 euro lordi). Queste rilevazioni shock provengono da un’inchiesta condotta dall’Istituto del Lavoro (INE) del principale sindacato greco GSEE. Lo riporta il blog KTG.

Questa inchiesta rileva che i salari in Greci sono crollati significativamente attraverso i cosiddetti “contratti di lavoro flessibile” imposti dalla Troika nel suo Memorandum d’intesa per l’erogazione degli “aiuti”.

“I contratti di lavoro flessibile” sono considerati i contratti part-time, la riduzione degli orari di lavoro e I cosiddetti lavori in rotazione.


Savvas Robolis, il direttore scientifico di INE-GSEE, ha commentato lo studio in questo modo: “L’alto tasso di disoccupazione sta forzando sempre più lavoratori del settore privato ad accettare i contratti di lavoro flessibile. La situazione riguarda approssimativamente 500 mila persone. Questo ha creato una nuova generazione di lavoratori e impiegati, la generazione 300 euro”.


Naturalmente, questo non riguarda solo giovani e lavoratori inesperti, ma persone di tutti i gruppi di età che cercano disperatamente un lavoro e un reddito per la sussistenza personale e familiare.

P.S: Quando in televisione o sui giornali vi parlano degli effetti miracolosi del Jobs Act di Renzi in termini di competitività e ripresa, pensate sempre che esiste un paese, la Grecia, topo da laboratorio della Troika, dove da anni esiste già tutto questo e gli effetti sono là tutti da vedere.

mercoledì 26 novembre 2014

Lo “sblocca” Italia alle multinazionali

Il Decreto Sblocca Italia di Matteo Renzi (cap. IX) prevede numerosi progetti di trivellazione per l’estrazione di petrolio e gas in gran parte del territorio italiano. Il M5S lo ha anche battezzato Decreto “Sfascia Italia”. Quali i motivi più importanti per cui Greenpeace si oppone?

Per Greenpeace questo decreto ratifica e mette in pratica un indirizzo energetico in larga misura sbagliato e antistorico, quello previsto negli ultimi giorni di vita dal governo Monti con la Strategia Energetica Nazionale, anche conosciuta come SEN. In sostanza: sfruttamento intensivo, fino all’ultima goccia potremmo dire, delle scarse riserve di idrocarburi presenti in Italia; un sostegno alla crescita delle fonti rinnovabili che appare più come una petizione di principio, persino vaga oltre che modesta, senza che vi siano strumenti concreti, anche finanziari, a supportare la transizione energetica; lo stesso dicasi per l’efficienza energetica che a parole tutti vogliono ma che rimane la cenerentola delle politiche energetiche. C’è poi un capitolo sul quale si registra un silenzio sinistro, quello delle centrali a carbone: in Italia ce ne sono 13 e rappresentano oggi la componente più inquinante, nociva per il clima e dannosa per la salute umana del nostro sistema energetico. Su queste infrastrutture la SEN dice poco e nulla. Se assunto davvero nel suo portato strategico, che certo è poca cosa, l’indirizzo industriale contenuto nella SEN è in contrasto con quanto dobbiamo fare fin da subito per salvare il clima; ed è in controtendenza con l’esempio che ci viene da altre economie e da altri sistemi energetici, ben più solidi del nostro, che puntano sull’innovazione e sulla decarbonizzazione. Ecco, il decreto Sblocca Italia di Renzi appronta un nuovo quadro normativo, operando una deregulation in conflitto persino con la normativa europea, che dà via libera ai petrolieri per mettere in pratica quanto previsto dalla SEN. Sarà più facile ottenere concessioni di estrazione e più remunerativo investire in nuove infrastrutture fossili. E tutto ciò senza che sia stata formulata una valutazione seria su quali siano gli asset di sviluppo su cui l’Italia deve puntare; puntare su un preciso modello di sviluppo, che per noi è del secolo scorso, non può non comportare impatti, anche severi, su altri comparti della nostra economia.

Quanto è grande l’entità dei danni ambientali e sanitari provocata dalle trivellazioni? Ci può fare qualche esempio importante?

Quando pensiamo alle estrazioni di petrolio – e Greenpeace concentra la sua attenzione soprattutto su quelle offshore – non possiamo e non dobbiamo escludere il rischio massimo: quello di un disastro. Esplosioni, tubature e condotti che cedono, pozzi che perdono, strutture che collassano. Per fare un esempio concreto pensiamo all’incidente della Deepwater Horizon, che tutti ricordano, occorso nell’aprile del 2010. Morirono 11 persone e furono sversati in mare almeno 5 milioni di barili di petrolio, l’equivalente di circa 870 milioni di litri. Le conseguenze ambientali di quell’incidente furono enormi, talmente vaste e complesse, che ancor oggi è difficile stimarne la reale entità. Ma non esistono solo quelle; ovvero, non c’è solo una questione legata alla conservazione di un ecosistema. Esistono impatti sulla salute umana, sulle attività economiche.
E se qualcosa del genere avvenisse nel Mediterraneo? Dal 2005 le Valutazioni d’Impatto Ambientale che autorizzano attività di prospezione, ricerca o coltivazione di idrocarburi nei nostri mari non considerano il rischio massimo connesso a queste attività. Dobbiamo ricordare che il Mediterraneo è un ecosistema particolarmente complesso e fragile. Comprende meno dell’1 per cento dei mari del Pianeta, ma ospita circa il 9 per cento degli organismi marini noti. Tra i motivi di questa “ricchezza” vi è il suo relativo isolamento: il Mediterraneo impiega tra i 70 e i 100 anni per “ricambiare” completamente le sue acque con l’Atlantico. Già oggi le aree marine richieste o già interessate dalle attività di ricerca di petrolio si estendono per circa 30 mila chilometri quadri, cinquemila in più rispetto allo scorso anno. Sul bacino del Mediterraneo si concentra più del 25 per cento di tutto il traffico petrolifero marittimo mondiale, già responsabile di un inquinamento da idrocarburi che non ha paragoni al mondo. L’assurdità di questa scelta è nell’esiguità delle risorse stimate sotto il mare, che secondo il Ministero dello Sviluppo Economico non arrivano a 10 milioni di tonnellate, circa 2 mesi di consumo interno di petrolio. Per una quantità marginale di petrolio si corrono rischi ambientali rilevanti.

Il Decreto in questione priva le stesse Regioni di tutte quelle competenze (esclusive) in materia di fonti energetiche. Proprio per questo motivo alcuni deputati regionali avrebbero chiesto al loro presidente della Regione, di impugnare il decreto perché non rispettoso dell’art. 117 della Cost. Cosa ne pensa?

In generale, il sistema burocratico-amministrativo italiano è certamente farraginoso e ipertrofico. Il dramma, tuttavia, è che quando il decisore prevede di semplificarlo, normalmente lo fa rispondendo agli interessi delle lobby più forti, mentre sulle rinnovabili la burocrazia è stata usata ed è usata per rallentare, bloccare far fuggire gli investitori. Infatti, oggi in Italia, nonostante siano stati presentati numerosi progetti, non vi è ancora nessun parco eolico offshore, una tecnologia sulla quale stanno puntando molte altre economie. Quei progetti rimangono ostaggio dei numerosi poteri di veto che i diversi attori che concorrono all’iter autorizzativo possono esprimere e, in questo caso, immancabilmente esprimono. È ovvio che un sistema di valutazione e autorizzazione più lungo e complesso garantisce – o dovrebbe garantire – una maggiore accuratezza nell’analisi dei singoli progetti. Ma è paradossale che in Italia vi siano complessivamente 69 pozzi offshore di estrazione di idrocarburi attivi e neppure una pala eolica a mare. Quasi 30mila chilometri quadrati di superficie marina sono interessati da attività di estrazione o di ricerca, o richieste di ricerca. Altri 76mila sono stati richiesti dalle compagnie petrolifere per attività di prospezione. Il decreto Sblocca Italia imprimerà una forte accelerazione a questa massa di procedimenti, semplificando oltremodo la vita ai petrolieri e confinando a un ruolo marginale o irrilevante i governi locali. Crediamo che le regioni italiane debbano fare ricorso contro lo Sblocca Italia, se vogliono proteggere i loro mari, il loro turismo, la pesca, la bellezza e il patrimonio naturalistico su cui possono costruire un’economia migliore. Crediamo debbano farlo anche per proteggere le popolazioni locali dagli impatti sociali e sanitari delle fonti fossili, che non sono mai trascurabili.

Fin ora quante forze politiche italiane hanno sostenuto le lotte portate avanti da Greenpeace contro le trivelle nei nostri mari?

Sin qui le uniche forze che hanno espresso contrarietà e votato contro lo Sblocca Italia sono quelle di opposizione. Nella maggioranza di governo si sono registrati sparuti casi di contrarietà al decreto, per lo più dissoltisi di fronte al vincolo di fiducia posta dal Governo.

Sul sito Greenpeace sta scritto che “L’estrazione dell’oro nero portera’ profitti solo alle compagnie petrolifere mentre rappresenta un rischio inaccettabile per l’ambiente, l’economia e il benessere delle comunità costiere”. Ultimamente la polemica ha riguardato anche l’innalzamento delle Royalties: quanto possono guadagnarci le Regioni dall’estrazione del petrolio nei rispettivi territori?

È in tal senso paradigmatico quanto va dicendo in questi giorni il governatore della Sicilia Rosario Crocetta. Ha dichiarato che “dalle attività estrattive (di idrocarburi, ndr) a regime la Regione incasserà tra 350 e 500 milioni di euro fra royalties e tasse versate direttamente nelle nostre casse dalle imprese, grazie al protocollo firmato a giugno con Assomineraria”. In realtà nel 2012 – l’anno in cui le royalties sugli idrocarburi in Sicilia hanno fruttato di più – la Regione Siciliana ha incassato poco più di 10 milioni di euro, mentre i comuni poco più di 19 milioni. In altre parole, le produzioni di gas e petrolio in Sicilia valgono oggi, per i cittadini, neppure 6 euro pro capite all’anno. Per arrivare al gettito previsto da Crocetta le estrazioni andrebbero potenziate, nei prossimi anni, tra le 10 e le 17 volte. Cosa irrealistica (e comunque certo non sostenibile).

In definitiva l’Italia, dopo il sostegno al Tiip (il trattato di libero scambio tra Ue-Usa) e alle trivellazioni, sembra un Paese sempre più in mano alle multinazionali. Sono i Governi a controllare le multinazionali o viceversa?

Come già in passato col Multilateral Agreement on Investments, poi non approvato, si tratta di un tentativo di bypassare le norme nazionali e di abbassare tutele sociali e ambientali per favorire gli interessi di pochi grandi gruppi. E’ un tentativo in corso cui come Greenpeace ci opponiamo (Leggi qui). Purtroppo ne vediamo già gli effetti nella nuova direttiva sulla qualità dei carburanti che sembra fatta apposta a consentire l’importazione degli oli derivati da scisti bituminosi provenienti dal Canada.

Investire sulle energie rinnovabili in Italia: si può?

Dopo una espansione delle fonti rinnovabili che ha portato l’Italia in cima alle classifiche sulle rinnovabili, c’è stata una frenata notevole a partire dal Governo Monti, continuata con Letta e ora con Renzi. E’ anche frutto, in un contesto di domanda piatta di elettricità, della reazione di un oligopolio che aveva investito soprattutto sul gas naturale e che ha visto il mercato invaso dalle tecnologie rinnovabili – solare ed eolico. Oggi, nonostante il blocco degli incentivi al solare, allo “spalma-incentivi “che ha messo in difficoltà i piccoli produttori e alle difficoltà burocratiche, il solare ha visto crescere gli impianti di 700 MW nell’ultimo anno. E’ una rivoluzione tecnologica che non si fermerà e le recenti decisioni di chiudere impianti termoelettrici da parte di Enel e altri produttori è un segnale che qualcosa sta cambiando in profondità. Del resto questa “rivoluzione silenziosa” delle rinnovabili è in corso da qualche anno con una continua discesa dei costi ed è un fenomeno visibile a livello globale: questa è una delle (poche) speranze per fermare i cambiamenti climatici.

martedì 25 novembre 2014

Gli italiani non votano più, disertate le urne anche in Emilia

Gli italiani ormai non votano più. Dopo il vasto boicottaggio delle europee, in cui nessuno – salvo la Lega Nord – aveva puntato nettamente contro l’euro-regime dell’austerity, ora scende al 40% la partecipazione al voto, nelle regionali in Calabria e addirittura in Emilia. «L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo», scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. «È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana». Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, aggiunge Battista, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. Per Gad Lerner, è addirittura l’inizio della fine per Matteo Renzi: «Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de prufundis per la nostra democrazia», scrive Lerner. «Ricorderemo le regionali dell’Emilia Romagna come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano». Da Bologna, aggiunge Lerner, «è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi».

«Prima la disfatta del “modello emiliano” impersonato da Vasco Errani, poi la sceneggiata delle false primarie, con ritiro decretato dall’alto dell’unico vero concorrente di Stefano Bonaccini. Infine – prosegue Lerner nel suo blog – l’arrembaggio al Renzicarro del vincitore presunto, Matteo Renzi, da parte di una moltitudine di trasformisti». Tutto ciò, conclude il giornalista, «rende umiliante il risultato elettorale del Partito Democratico in Emilia Romagna, abbandonato dalla maggioranza dei suoi elettori e perfino insidiato nel suo primato da un leghista divenuto emblema della destra». L’Emilia Romagna in cui crolla la percentuale di chi si reca a votare, sostiene Pierluigi Battista, è il regno dei “corpi intermedi”, dalle cooperative al sindacato al partito di stampo tradizionale, che innervano la società, la integrano, le danno coesione politica. «Matteo Renzi gioca tutto il suo appeal sulla “disintermediazione”, sul rapporto diretto tra il leader e gli italiani, saltando la mediazione dei corpi intermedi. Ma il massiccio astensionismo di ieri in Emilia rappresenta la reazione ritorsiva dei corpi intermedi».

Se il sindacato viene messo con le spalle al muro, continua l’editorialista del “Corriere”, chi si identifica con la cultura e la politica che si sono insediati nel sindacato decide di disertare le elezioni. Mai la rinuncia alle urne aveva raggiunto livelli tanto allarmanti: «Si dice anche che l’astensionismo è una sindrome molto diffusa già da tempo e che pure il sindaco di Roma l’anno scorso è stato votato da meno della metà dei romani», scrive Battista, «però in Emilia si è assistito a un crollo». Inoltre, «mai avremmo potuto immaginare che l’Emilia si potesse dimostrare più astensionista della Calabria». Per Battista, «si tratta inoltre di un fenomeno privo di un colore sicuro», che coinvolge «l’elettore di destra deluso da Berlusconi», che è sfiduciato e non va a votare, e pure «l’elettore di Grillo, che vede la carica del “Movimento 5 Stelle” spenta e incapace di indicare un’alternativa». Di fatto,la sfiducia si abbatte su tutto il sistema, «percepito come un blocco indistinto, che spreca i soldi dei contribuenti». Un rigetto «disilluso e indiscriminato», un campanello d’allarme «per tutti i partiti, per le Regioni, per il premier e anche per i suoi avversari». Si chiede una politica radicalmente diversa, democratica, equa, che non arriva mai. Così, la rappresaglia degli elettori va avanti. E travolge persino la “rossa” Emilia.

lunedì 24 novembre 2014

LA "RIFORMA" DEL CANONE RAI

Un canone più basso (compreso tra 58 e 80 euro rispetto agli attuali 113,5) ma esteso anche alle seconde case sfitte oggi escluse dal versamento.
E' questa l'ipotesi sulla quale sta ragionando il governo alle prese con la delicata operazione, che sta scatenando una vera e propria bufera politica, che punta a collegare il bollettino Rai alle utenze elettriche degli italiani. Un meccanismo, contro il quale si è già schierata l'Autorità per l'energia, attraverso il quale si pensa di ridurre l'enorme mole di evasione fiscale che si aggira intorno a 450 milioni di euro.

L'obiettivo è ricavare almeno 300 milioni di euro in più rispetto a quanto entra oggi nelle casse di Viale Mazzini. La riforma cambierà dal profondo la logica che sta alla base dell'imposta. Attualmente è il possesso di un apparecchio radiotelevisivo, domani sarà sufficiente la titolarità di una qualsiasi apparecchiatura elettronica (il cosiddetto device) in grado di ricevere segnali radio e tv, compresi dunque computer, tablet e smartphone. Per le fasce di reddito più basse, tenendo conto dell'indicatore Isee, si pensa a un'esenzione totale o parziale che potrebbe riguardare circa un milione di nuclei familiari sotto i 7.500 euro all'anno. Ma la grande novità, accreditata dai tecnici ministeriali che stanno lavorando sul dossier, è che il canone, che sarà inviato agli utenti insieme alla bolletta della luce, si pagherà probabilmente non solo sulla prima abitazione a prescindere dal numero di apparecchi in uso, ma anche su eventuali seconde o terze case non affittate. In pratica le residenze di villeggiatura, attualmente al riparo, saranno tenute al versamento. Ma a prezzo ridotto. La riforma, raccontano fonti del governo, parte da un postulato: chi è titolare di una utenza elettrica «ha per certo anche la disponibilità di un televisore e dunque deve pagare il canone». E quindi, rispetto a quanto avviene oggi, con un meccanismo di inversione della prova, sarà il cittadino a dover dimostrare che non è vero inviando una raccomandata alla Rai per contestare la tassa. A quel punto, secondo quanto spiegano ambienti ministeriali, la Guardia di finanza (autorizzata dall'autorità giudiziaria su richiesta dell'Agenzia delle Entrate) avrà il potere di indagine, oggi escluso, per verificare presso l'abitazione se davvero non sono presenti apparecchi televisivi.

I PROBLEMI DA RISOLVERE
E' evidente che l'intera struttura della riforma è ispirata da una logica di deterrenza per spingere chi non paga a mettersi in regola. Ma la strategia suscita molti interrogativi. Ad esempio: se chi è intestatario di una utenza elettrica pagherà regolarmente la bolletta ignorando il contestuale canone Rai come dovrà comportarsi il gestore? Avrà il potere di staccare la luce in attesa degli accertamenti? All'idea, le aziende rabbrividiscono. E ancora: dal momento che sul mercato libero dell'elettricità si può migrare alla svelta da un gestore all'altro, come si farà a gestire la situazione? Dubbi che, oltre alle pesanti critiche del fronte politico (Ncd, Lega, Sc e Forza Italia su tutti ) hanno alimentato l'opposizione dell'Autorità per l'Energia: «È una modalità impropria di riscossione ed è di difficile applicazione, si rischia di creare ulteriore difficoltà nella comprensione della bolletta» ha avvertito il presidente Guido Bortoni. Mentre il presidente di Assoelettrica Chicco Testa ha parlato di «abominio», spiegando che «gli oneri di gestione sarebbero enormi»

domenica 23 novembre 2014

Piano segreto Ue, prelievo forzoso dai nostri conti correnti

Un’euro-rapina sui conti correnti? Potrebbe accadere, e i poveri risparmiatori subirebbero una mazzata con pochi precedenti (tra i quali il prelievo forzoso notturno del 1992 effettuato dal governo Amato). E, soprattutto, è quello che teme il focoso europarlamentare leghista, Gianluca Buonanno, che ha presentato un’interrogazione scritta alla Commissione Ue e alla Bce per chiedere di confermare «l’esistenza di un piano di misure adottato nel luglio 2014» secondo il quale, come già sperimentato a Cipro, «sarebbe prevista l’imposizione di misure d’urgenza che consentirebbero il congelamento dei conti correnti bancari dei cittadini e delle imprese europee e il prelievo forzato delle somme ritenute necessarie a fronteggiare l’esposizione debitoria». Ma la domanda che pone Buonanno è anche un’altra: «La Bce ritiene che il rischio di default sia concreto a tal punto da permettere l’adozione di un tale piano?». La risposta non è semplice: anche se le crisi si presentano sempre in forme diverse, l’opera di prevenzione (anche se l’Ue ha raggiunto soglie maniaco-depressive) può rappresentare un aiuto.

Tuttavia, quando si ascoltano le parole del capo economista di Standard & Poor’s, Jean-Michel Six, lo shock è fortissimo: «La ripresa economica ha perso molto slancio e, avvicinandoci al 2015, nell’Eurozona sono aumentati i rischi di una terza Merkel e Draghirecessione dopo il 2009 e il 2011», ha detto. I quesiti aumentano. Perché il presidente della Bce, Mario Draghi, e soprattutto le istituzioni italiane – pubbliche e private – in questi mesi hanno messo l’accento sulla creazione di una bad bank, cioè di un ente che si faccia carico dei crediti deteriorati degli istituti (in Italia hanno superato i 180 miliardi) per ripulire i bilanci e consentire una migliore sopravvivenza del sistema? Perché la principale banca italiana, Intesa Sanpaolo, ha scaricato dal portafoglio 17 miliardi di Btp? Qui rispondere è più facile: hanno ripreso valore e ha guadagnato, la Bce li penalizza e, se la recessione proseguisse, meglio stare leggeri. Perché allora Buonanno lancia questo allarme?

«Mi è stato detto da fonti interne alla Commissione che esiste un documento nel quale si specifica che il prelievo sui conti correnti potrebbe arrivare al 10% delle giacenze», racconta, sostenendo che «in ogni caso la Bce e la Commissione devono smentire se si tratta di una notizia falsa oppure confermarla». Vale la pena di raccontare la storia per intero. Sin dall’anno scorso in sede comunitaria è stato approvato un piano d’azione per la “risoluzione ordinata delle crisi bancarie”, contestuale alla nascita dell’Unione Bancaria. I pilastri sono due. Il primo è il “Single supervisory mechanism” (Ssm), ossia la vigilanza unificata della Bce sulle più importanti banche europee. È stato istituito un organismo, sono state scritte delle regole sui Gianluca Buonannorequisiti minimi di solidità patrimoniale e sono stati condotti gli stess-test che in Italia hanno bocciato Monte dei Paschi e Banca Carige.

Il secondo pilastro è il “Single resolution mechanism” (Srm), ossia il dispositivo per i salvataggi in caso di crisi. La trattativa è stata complicatissima e si è conclusa solo nell’Ecofin di Lussemburgo dello scorso giugno. Come al solito ha vinto la Germania. È, infatti, passato il principio-guida del bail-in , cioè il salvataggio delle banche con mezzi propri. Se le cose vanno male, come accaduto a Cipro, pagano prima gli azionisti (con aumenti di capitale mostruosi) e poi gli obbligazionisti (con una rinegoziazione del debito). Se la situazione non migliorasse, sarebbero i correntisti con depositi oltre i 100.000 euro a rimetterci. È prevista, inoltre, l’istituzione di un fondo unico finanziato dagli Stati membri (che raggiungerà la dotazione di 55 miliardi nel 2024) per tamponare le eventuali carenze di liquidità. È chiaro che i prestiti del fondo andranno comunque restituiti dalle banche con le modalità sopra descritte. I piccoli risparmiatori che volessero chiudere i conti prima che la propria banca fallisca potrebbero dover aspettare almeno 15 giorni fino al 2018. E, comunque, i derivati non si toccano!

sabato 22 novembre 2014

Eter­nit, la regola dell’ingiustizia

Trent’anni fa, agli ope­rai della Eter­nit di Casale che chie­de­vano spie­ga­zioni su quella pol­vere bianca e sot­tile che si depo­si­tava sulle loro tute, i capi reparto rispon­de­vano di non pre­oc­cu­parsi e di imma­gi­nare di essere sulle spiagge dei Caraibi rese incan­te­voli da una sab­bia simile a quella. Intanto i con­su­lenti in pub­bli­che rela­zioni del magnate sviz­zero Ste­phan Sch­mi­d­heiny, ammi­ni­stra­tore della Eter­nit, ter­ro­riz­zato dalla even­tua­lità che gli effetti deva­stanti dell’amianto venis­sero alla luce, si impe­gna­vano a depi­stare la stampa e scri­ve­vano: «Il con­ti­nuo aumento di atten­zione dei mezzi di comu­ni­ca­zione nazio­nale nei con­fronti dell’amianto è allar­mante. Nono­stante le vicende citate (soprat­tutto il “con­ti­nuo rumore” a Casale Mon­fer­rato) siano docu­men­tate super­fi­cial­mente e (i media) si inte­res­sino solo di spe­ci­fici sog­getti locali, aumenta l’attenzione sulla que­stione amianto in gene­rale. Non si può esclu­dere che qual­cuno, pre­sto o tardi, metta insieme i diversi pezzi del puzzle e sol­levi un ben docu­men­tato caso amianto a livello nazio­nale (o inter­na­zio­nale), di cui l’Eternit sarà ine­vi­ta­bil­mente uno dei pro­ta­go­ni­sti prin­ci­pali» (così L. Gaino. Falsi di stampa, Edi­zioni Gruppo Abele, 2014).

Poi sono arri­vati i morti. Migliaia di morti. E in migliaia con­ti­nuano a morire. E qual­cuno — un pro­cu­ra­tore aggiunto e due sosti­tuti della Pro­cura di Torino — «ha messo insieme i diversi pezzi del puzzle». Così è ini­ziato un pro­cesso per «disa­stro doloso» con­tro i ver­tici di Eter­nit, con­clu­sosi con pesanti con­danne sia in primo che in secondo grado (dove Sch­mi­d­heiny è stato con­dan­nato a 18 anni di car­cere). Ma ieri la Corte di cas­sa­zione ha can­cel­lato con un tratto di penna la con­danna, affer­mando che il reato è ormai pre­scritto, cioè non più per­se­gui­bile in con­si­de­ra­zione del tempo tra­scorso. Non per la durata del pro­cesso (che, pur nella sua enorme com­ples­sità, si è con­su­mato, dall’udienza pre­li­mi­nare alla Cas­sa­zione, in cin­que anni) ma per­ché — qui sta il para­dosso — è pas­sato troppo tempo tra i com­por­ta­menti dell’imputato e le morti a esso con­se­guenti. In sin­tesi: la chiu­sura degli impianti con­se­guente al fal­li­mento di Eter­nit e, dun­que, i com­por­ta­menti dell’imputato risal­gono al 1986 e quanto è acca­duto dopo (cioè la morte di 2.191 per­sone) è una con­se­guenza del reato e non un ele­mento che incide sulla sua strut­tura. Que­sto, almeno, secondo la Cassazione…

Non è la prima volta che un pro­cesso per un disa­stro con­se­guente a lavo­ra­zioni peri­co­lose, nocive o inqui­nanti si con­clude senza col­pe­voli. Anzi ciò è, nel nostro Paese (e non solo), la regola: basti pen­sare a Porto Marghera.

E — va aggiunto — nubi assai cupe si adden­sano sui pros­simi pro­cessi per fatti ana­lo­ghi: da Vado Ligure a Taranto. Ancora una volta, dopo la sen­tenza, al pianto e alla dispe­ra­zione dei parenti delle vit­time, si affian­cano rea­zioni poli­ti­che che lasciano sgo­menti per la loro stru­men­ta­lità, prive come sono di ogni ana­lisi sulle ragioni per cui tutto que­sto è acca­duto e accade. Eppure almeno due con­si­de­ra­zioni si impongono.

Primo. C’è anzi­tutto, alla base di que­sti esiti, una col­pe­vole carenza legi­sla­tiva. La tutela con­tro gli attac­chi por­tati alla vita e alla salute dei lavo­ra­tori e dei cit­ta­dini in genere da lavo­ra­zioni peri­co­lose o pro­dut­tive di inqui­na­mento ambien­tale è, nel nostro Paese, total­mente inef­fet­tiva, affi­data com’è a reati con­trav­ven­zio­nali di mode­sta entità o all’ipotesi di omi­ci­dio (per defi­ni­zione con­te­sta­bile solo dopo la morte e, in ogni caso, di dif­fi­cile prova in punto rap­porto cau­sale tra la lavo­ra­zione peri­co­losa e il sin­golo evento mor­tale). Di qui l’operazione giu­ri­spru­den­ziale di fare ricorso al reato di «disa­stro»: opzione indub­bia­mente fon­data ma non priva di pro­blemi inter­pre­ta­tivi essendo il reato, risa­lente al codice penale del 1930, costruito con imme­diato rife­ri­mento a diverse e più sem­plici fat­ti­spe­cie. Il tutto nell’attesa che il Par­la­mento defi­ni­sca un’accettabile ipo­tesi di disa­stro ambien­tale (da anni inu­til­mente in discus­sione in Parlamento…).

Secondo. La Corte d’appello di Torino, a dif­fe­renza della Cas­sa­zione, aveva rite­nuto che le morti con­se­guenti alle lavo­ra­zioni nocive (alcune delle quali recen­tis­sime) fos­sero ele­menti costi­tu­tivi del reato di disa­stro così esclu­dendo in radice l’operatività della pre­scri­zione. La domanda è ovvia: come è pos­si­bile che due diversi giu­dici abbiano dato una inter­pre­ta­zione così diversa? È pos­si­bile per­ché l’interpretazione non è un sil­lo­gi­smo auto­ma­tico ma un’operazione rico­strut­tiva com­plessa e deli­cata in cui entrano aspetti tec­nici e giu­dizi di valore. Una cosa è certa. Uso, per dirla, parole di un giu­ri­sta raf­fi­nato come V. Zagre­bel­sky: «Se non è pos­si­bile dire che le inter­pre­ta­zioni adot­tate dai primi giu­dici fos­sero “esatte” e sia “sba­gliata” quella della Cas­sa­zione, è però lecito chie­dersi se non c’era davanti ai giu­dici una scelta, ragio­nata e seria­mente argo­men­ta­bile, tra una inter­pre­ta­zione che met­teva d’accordo diritto e giu­sti­zia e un’altra che pro­cla­mava sum­mum jus, summa inju­ria». Non credo — non ho mai cre­duto — alle “scor­cia­toie” pro­ba­to­rie ma sono con­vinto che, alla luce delle dispo­si­zioni costi­tu­zio­nali a tutela della vita e della salute, una scelta inter­pre­ta­tiva diversa da quella dei giu­dici di legit­ti­mità fosse pos­si­bile e auspicabile.

venerdì 21 novembre 2014

VITTIMISMO PETROLIFERO

Il Decreto "Sblocca-Italia" si caratterizza già per l'arroganza del suo nome, uno slogan che manifesta le pretese messianiche di tutta la comunicazione del governo Renzi. Come se il mondo non avesse aspettato altro che lui, Matteo Renzi si spaccia come un novello redentore che ordina all'Italia paralitica di alzarsi e di camminare. Ciò è in linea con le attuali tendenze del "management", sia pubblico che privato, in cui ogni nuovo dirigente si presenta come colui che è destinato alla missione di guarire le piaghe causate dalle gestioni precedenti. Ma l'arroganza pubblicitaria degli slogan ovviamente è solo la copertura di un'arroganza lobbistica, perciò il sedicente "Sblocca-Italia" si sta rivelando come uno sblocca-multinazionali. In questi giorni è arrivato agli onori delle cronache il caso della multinazionale americana GlobalMed che ha riscosso agevolmente dal governo la concessione per ricerche petrolifere nel Salento, con tutte le prospettive di devastazione ambientale che ciò comporta.
Al di là della retorica ufficiale sui benefici mirabolanti derivanti dagli "investimenti esteri", gli effetti della calata delle multinazionali su un territorio sono invariabilmente quelli del saccheggio indiscriminato delle risorse locali. La distruzione non è un semplice effetto collaterale, ma un approccio brutale che tende a disarmare materialmente e psicologicamente un Paese. Una nazione ricca di risorse minerarie come la Nigeria, è oggi ridotta allo stremo dall'invadenza ed ingerenza delle grandi multinazionali del petrolio. La propaganda dei media occidentali scarica tutte le colpe del disastro nigeriano sulla "corruzione" locale, e dietro questo alibi anche l'Agip fa la sua parte nel "saccheggia e distruggi".
Il calo del prezzo del petrolio non sta determinando un corrispondente calo della produzione, ma una crescente attività estrattiva per continuare ad aumentare in qualsiasi modo i profitti. La caduta del prezzo delle materie prime è trattata dai media con i consueti toni catastrofici, come se un petrolio al di sotto dei cento dollari al barile non continuasse a coprire di un centinaio di volte l'effettivo costo di produzione del petrolio stesso. Vittimismo ed emergenzialismo rappresentano infatti la linea comunicativa obbligata in qualsiasi questione in cui siano in gioco gli interessi delle multinazionali, poiché terrorizzando ed avvilendo l'opinione pubblica si può far passare come stato di necessità qualsiasi provvedimento a favore del business.
Dalla famosa messinscena delle domeniche di "austerity" dell'inverno del 1973/1974, tutto ciò che concerne il petrolio è stato fatto vivere sotto la cappa dell'emergenza. In quel caso la colpa fu scaricata sulla protervia degli sceicchi e dell'OPEC, ma rimane il dato storico di una colossale mistificazione politico-mediatica a livello europeo, poiché un semplice aumento dei prezzi fu presentato addirittura come un blocco delle forniture.
L'ultimo decennio è stato caratterizzato dall'allarme crescente sull'esaurimento delle risorse petrolifere del pianeta; così il petrolio si è avvalso narrativamente anche dell'alone romantico del moribondo. Oggi l'allarme si concentra invece sull'eccesso di produzione dovuto alle nuove tecniche estrattive, con tutti i rischi di riscaldamento globale e di caduta dei prezzi che ciò comporta. Da un'emergenza a quella opposta, ed all'opinione pubblica spetta invariabilmente di inchinarsi e di credere.
A fronte del vittimismo occidentale, la Russia di Putin sembra aver adottato invece un atteggiamento più "virile". Putin infatti si dichiara pronto a gestire la crisi dei prezzi dell'energia, e contestualmente inasprisce la polemica contro gli USA, accusati di boicottare tutte quelle decisioni del G-20 che mettano in forse il predominio statunitense sugli organismi sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale. Se da un lato Putin ha buon gioco nel mettere in evidenza la storica inaffidabilità statunitense, dall'altro lato egli continua a dar credito a quel "mondialismo" che costituisce il migliore veicolo dell'invadenza delle multinazionali.

giovedì 20 novembre 2014

Processo Eternit: prescritta la giustizia

Era stato condannato a 18 anni di reclusione per disastro doloso l’imprenditore elvetico Stephan Schmidheiny, imputato a Torino nel processo Eternit. In primo grado era stato condannato a 16 anni. La Corte d’Appello aveva ritenuto il miliardario svizzero responsabile di disastro anche per gli stabilimenti Eternit di Bagnoli e Rubiera. Per quel che riguardava l’altro imputato, il barone belga Louis De Cartier, i giudici si erano pronunciati direttamente per l’assoluzione per alcuni degli episodi contestati, mentre hanno dichiarato il non luogo a procedere data la morte dell’imputato per gli altri. I giudici avevano disposto provvisionali per 20 milioni di euro alla Regione Piemonte e di oltre 30,9 milioni per il comune di Casale Monferrato. Nella città della provincia di Alessandria la multinazionale dell’amianto aveva il suo stabilimento italiano più importante e il numero delle vittime è più elevato che altrove.

Ora tutto è stato cancellato perché, per la legge italiana, l’uccisione di tutte quelle persone che avevano respirato fibre di amianto è un reato prescritto. Pensiamo bene a cosa significa: che è passato troppo tempo dalla consumazione del reato alla condanna, quindi…abbiamo scherzato, potete andare tutti a casa a leccarvi le ferite. Tempi per la prescrizione troppo brevi, ma anche una nazione che dovrebbe vergognarsi perché accumula ritardi su ritardi permettendo a chi deve pagare di farla franca.

La Corte di Cassazione ha deciso in due ore, accogliendo la richiesta del procuratore generale, Francesco Iacoviello. Quindi, non c'è nessun colpevole, non da un punto di vista giudiziario, per l'inquinamento di Eternit che ha fatto dai due ai tremila morti causando tumori ai polmoni nella popolazione di Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli.

E l’eternit ucciderà ancora. Il picco delle morti sarà nel 2020, per poi discendere nell’arco di 10-15 anni. Nonostante la Eternit a Casale Monferrato sia stata chiusa nel 1986, il mesotelioma pleurico è un male con tempo di latenza lunghissimi. Possono passare anche 50 anni prima che la malattia si manifesti con tutte le sue conseguenze e la sua sentenza di morte. L’Hospice Zaccheo, la “casa” dei malati terminali di Casale Monferrato, ha denunciato che ogni anno sono in media 60 le nuove diagnosi di mesotelioma. Dati che però non tengono conto dei malati e dei morti in altre strutture ospedaliere.

mercoledì 19 novembre 2014

Cina e Stati Uniti si stanno preparando alla guerra.

I recenti accordi militari non produrranno nessun cambiamento nei rapporti tra le due potenze
Nonostante i recenti accordi militari, Cina e Stati Uniti sono sempre più sospettosi e si stanno preparando alla guerra, scrive Michael Pillsbury, un esperto militare e consulente del Pentagono, per la rivista Foreign Policy.

La preoccupazione per la possibilità di una guerra tra i due paesi è ambigua, spiega Pillsbury. Alti funzionari militari e politici in Cina credono che gli Stati Uniti si stiano preparando per un conflitto contro il loro paese, e ritengono di dover fare lo stesso. La sua paura è motivata da testi pubblicati in riviste militari degli Stati Uniti nelle quali si ricerca di un modo per vincere una futura guerra con la Cina, dice l'autore. Articoli sullo stesso tema sono presenti anche in Cina, rafforzando in tal modo la posizione di funzionari e politici statunitensi convinti che esploderà una guerra con la Cina.

"Molte persone al di fuori del Pentagono sono rimaste sorprese dall'abbondanza di alti funzionari degli Stati Uniti preoccupati di una possibile guerra con la Cina". Secondo Pillsbury, questi includono gli ultimi due segretari della Difesa e l’ex Segretario di Stato Henry Kissinger.

La tensione tra i due Paesi è in crescita a causa della rapida espansione del bilancio militare della Cina, ma anche per colpa degli Stati Uniti che hanno diretto gran parte delle loro risorse militari verso la regione Asia-Pacifico per bilanciare l’influenza cinese, spiega l’esperto. Tuttavia, per l’esperto repubblicano il problema più grande è “l’opacità" della Cina, che "sfrutta le tattiche asimmetriche e la confusione."

La Cina si rifiuta di parlare con Washington su diverse questioni sensibili per il paese come il coinvolgimento del suo Esercito in attacchi informatici o l’intenzione di rafforzare le sue Forze Armate, alimentando la diffidenza tra i funzionari Usa, analizza Pillsbury.

Il 12 novembre, Stati Uniti e la Cina hanno concluso diversi accordi militari che obbligano le parti ad informarsi reciprocamente in merito a manovre militari e hanno promesso di elaborare norme di comportamento durante gli incontri in mare e in aria per evitare possibili tensioni. Il presidente cinese Xi Jinping ha ordinato all'Esercito di essere più aperto nei confronti degli Usa ma, secondo Pillsbury tutto questo non comporterà alcun cambiamento.

martedì 18 novembre 2014

Sconvolgenti verità rivelate soltanto adesso ed allarmanti notizie dai mercati

Perché proprio ora vengono fuori le verità nascoste da almeno due anni? Allora, riassumiamo: Il Giornale parla oggi di possibile confisca dei risparmi sul conto corrente con regia europea, peccato che la legge UE che regola il processo abbia almeno 6 mesi. Poi, Geithner rivela via FT che ci fu una sorta di intento comune a far cadere Berlusconi con a capo Merkel e Sarkozy e spalle anglosassoni (possiamo dire anche golpe bianco, per altro già apparso in un libro dello stesso Geithner, “Stress Test”, di cui abbiamo avuto notizia all’inizio di quest’anno e anche dal libro dell’ex membro del Board della BCE Lorenzo Bini Smaghi, “Morire di Austerità” che citava lo stesso aneddoto) : ci si riverisce al G20 di Cannes, fine estate/autunno 2011.

Aggiungiamo che Napolitano ha paventato le sue dimissioni lo scorso fine settimana dopo aver in qualche modo se non minacciato certamente tentato di spaventare i movimenti antagonisti interni antieuro (…).

A seguire Renzi ha affermato che l’accordo con il Cav scricchiola ed il patto del Nazareno potrebbe cadere (non cadrà nessun patto, vedrete), tutto questo negli ultimi 7 giorni circa. Di più, sul Sole 24 Ore abbiamo anche visto affermare da più di un cronista – ieri l’altro – che la strada del deficit pubblico potrebbe essere un’opzione per uscire dalla crisi, rinnegando la rigida posizione pro-austerity tenuta negli ultimi 3 anni.

In parallelo i numeri economici italiani restano terribili ed anzi in peggioramento, PIL e produzione industriale su tutti. Alcuni sembrano davvero svegliarsi ora, pare che oggi l’Europa possa addirittura essere messa in discussione! [Scenarieconomici.it la pensa così da tempo!]

Dunque, perchè capita proprio ora? Ai più sembrerebbe casuale, ma non lo è: chi ha avallato la caduta del Cavaliere aveva lo sponsor che conta, quello Americano. E l’interesse (europeo) era attaccare l’Italia anche e soprattutto economicamente, l’Italia come più grande competitor manifatturiero della locomotiva tedesca*.

Da una settimana tale sponsor sembra aver cambiato regia (arrivano i Repubblicani!!! Notasi che oggi hanno la più ampia maggioranza alla Camera USA dalla fine della seconda guerra mondiale [!!!], oltre a comandare anche al Senato, ben inteso), e tutto questo a partire dalla prossima fine di Gennaio. Ergo, oggi cominciamo a vedere i cambi di casacca.

Scommettiamo? Alla fine basta aspettare solo due mesi…

Non vorrei che magari il prossimo anno le veline o le intercettazioni passate alla stampa anche quando inutili per le indagini [ma utili allo sputtanamento, encore pardon per il francesismo] che fino a ieri riportavano le bravate del Cavaliere – eh si, alla fine si trattava davvero di bravate di fronte alla ragion di stato che si cercava di mettere in discussione per interessi economici esterni, ed al fatto che combattere la crisi e la miseria poteva ben valere essere stato anche con una puttana, scusate il francesismo… – domani potrebbero riportare stilettate stile “culona inchiavabile” ma con in calce il nome di qualche altro responsabile. Il Presidente della Repubblica che è certamente uomo di mondo pur non avendo fatto il miltare a Cuneo (cito il suo connazionale Totò) probabilmente ha capito che visto il probabile caos che verrà può essere meglio mollare per tempo…

Ben inteso, aver disarcionato il Cavaliere è stata un’onta per l’Italia oltre ad aver creato danni enormi al Paese: qualcuno è disposto a sopportare fame e miseria solo per la soddisfazione di aver buttato giù una persona che obiettivamente poteva risultare antipatica ma altrettanto pragmaticamente poteva essere ostacolo all’invasione economica ed alla relativa distruzione del Paese?

E che nessuno mi venga a parlare di giustizia, in Italia la giustizia è sempre stata relativa e tutto ha funzionato finchè c’era trippa (in periodi di crisi la giustizia ha storicamente iniziato a “battere in testa”), ora se non si cambia registro e si sfida la Germania sull’austerity utilizzando come minaccia l’uscita dalla moneta unica dell’Italia si finisce diritti in un nuovo fascismo governato questa volta dal nuovo vincolo esterno (tedesco), eventualità che sinceramente vorrei evitare….

Casi di giustizia relativa da citare a supporto? Suicidi/omicidi di Castellari, Gardini, Sindona, Feltrinelli, incidente di Mattei senza dimenticare il Silvio Scaglia che si è fatto un annetto di galera per poi essere assolto, e che dire di Enzo Tortora….. E a fronte di questi notabili di cui conosciamo la storia chissà quanti sfigati ci sono che han patito la stessa sorte – ad alcuni è andata anche peggio, Cucchi, Uva solo per citarne alcuni -.

Insomma, sono curioso di vedere chi oserà sfidare gli eventi il prossimo anno. Tra questi certamente ci si sarà l’onnipresente Renzi, che per inciso alla fine verrà salvato ma che mi incuriosisce come si barcamenerà tra apologia cavalleresca e ala sinistra del PD… Spero solo che Dicembre non porti eventi estremi, purtroppo la fine dell’anno è un periodo in cui si concentrano i colpi di Stato, a pensar male….

Situazione interessante, non c’è che dire. Anche alla Germania – che non amo – faccio un sincero augurio di buon 2015, se mi posso permettere un suggerimento meglio che le “bold actions” vengano tentate prima della fine di gennaio prossimo….

lunedì 17 novembre 2014

CRONOLOGIA DELLA CRISI 2007–2012: COME LA SHOCK-TERAPIA DELL’EURO FU INTRODOTTA IN EUROPA

La storia dell’euro è inizialmente quella di un accumulo spropositato di debito privato, soprattutto estero, nei paesi investiti dal fenomeno del credito facile, il preludio all’esplosione di una bomba ad orologeria.
Credito per lo più tedesco e francese, elargito senza problemi, dietro la garanzia del cambio fisso, quello che non si svaluta ed assicura il creditore. Ma per il “sudden stop”, l’arresto improvviso del flusso di capitali, era solo una questione di tempo.

In molti ne avevano pregustato gli effetti disastrosi che avrebbero reso il politicamente impossibile, di friedmaniana memoria, politicamente inevitabile. Sicché, quando Lehman Brothers saltò per l’aria, portandosi dietro le banche di mezzo mondo, la shockterapia dell’euro ebbe modo di consolidarsi nella sua accezione più devastante e fulminea.

Passi rapidi, anzi rapidissimi, che colsero di sorpresa milioni di cittadini europei. Di lì a poco l’Europa non sarebbe stata più la stessa. Poco dopo i primi crolli di borsa, le banche congelarono infatti tutti i crediti, per tentare di mantenere la loro solvibilità. L’economia mondiale si interruppe bruscamente. Il momento tanto atteso era arrivato. In Europa i capi di governo di Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia si incontrarono a Berlino assieme ai Presidenti di Commissione europea, Eurogruppo e BCE per trovare una soluzione coordinata alla crisi bancaria.

Venne scartata la proposta francese di istituire un fondo di garanzia europeo, mentre prevalse, come era facile attendersi, la mozione tedesca basata sull’elaborazione di linee guida comuni che lasciassero tuttavia agli Stati membri piena autonomia decisionale riguardo ai piani di salvataggio delle banche nazionali.

La crisi di debito privato si trasformò di lì a poco in una crisi di debito pubblico.

Gli Stati della periferia europea iniziarono via via a crollare uno dopo l’altro come birilli. Già nel dicembre del 2009 Fitch declassò il debito sovrano della Grecia da A- a BBB+ dopo che il Governo di Atene aggiornò la stima del rapporto deficit/PIL portandola dal 6,5% al 12,7%.

Il Fondo Monetario Internazionale stabilì l’invio di una missione speciale in Grecia in vista di un’eventuale assistenza tecnica, una sorta di vigilanza controllata. Intanto il Governo portoghese presentò la manovra economica con cui si impegnò a riportare il rapporto deficit/PIL dal 9,3% al 3% entro il 2013 con un massiccio intervento di tagli alla spesa pubblica. Era quello che molti liberisti si aspettavano, lo smantellamento progressivo dello Stato.

In Grecia il premier Papandreu lanciò un appello televisivo al paese in cui chiese di rispettare il piano di risanamento triennale dei conti pubblici, annunciando il blocco di salari ed assunzioni, la riduzione delle spese di tutti i ministeri, l’aumento dell’età pensionabile e l’introduzione di nuove imposte. L’attacco allo stato sociale dell’Europa del Sud era appena cominciato. Il timore per la tenuta dei conti pubblici iniziò ad allargarsi a Spagna e Portogallo.

Ai primi scioperi contro le misure di austerity il Governo greco rispose con un nuovo piano antideficit pari a 4,8 miliardi di euro (il 2% del PIL) di cui 2,4 miliardi di nuove imposte, una nuova scarica di elettroshock sulla popolazione inerme. Il successivo mancato accordo in sede di Eurogruppo sul meccanismo per garantire aiuti alla Grecia, denaro liquido per ripagare i creditori privati del Nord, evidenziò l’opposizione della Germania verso ogni tipo di intervento non accompagnato da una severa revisione delle regole sul patto di stabilità. I tedeschi pretendevano il rimborso d’ogni credito e rigide garanzie.

Pochi giorni dopo il Presidente dell’Eurogruppo Junker definì “non aberrante” l’ipotesi di un intervento comune con il FMI, mentre il Presidente della BCE Trichet dichiarò che un’eventuale azione avrebbe dovuto assumere la forma di un prestito accompagnato da “una serie di condizioni forti da applicare rigorosamente”.

I falchi neoliberisti stavano dunque iniziando a riscuotere l’incasso. A seguito di un’intesa informale franco-tedesca l’Eurogruppo approvò un piano di sostegno a favore della Grecia per 40-45 miliardi di euro, dei quali 10-15 sarebbero stati messi a disposizione dal FMI e il resto da ciascun paese dell’Eurozona secondo la propria quota di partecipazione al capitale della BCE (l’Italia versò 5,5 miliardi di euro). Nel frattempo le principali agenzie di valutazione tagliarono il rating di Spagna e Portogallo.

La situazione era destinata inevitabilmente a precipitare.

La manovra di aggiustamento da 40 miliardi di euro varata dal governo greco dispose l’azzeramento delle tredicesime e quattordicesime degli impiegati pubblici, l’aumento dell’età pensionabile, dell’IVA e di altre imposte indirette.

Il paese rispose con un’ondata di violenti scioperi repressi duramente dalle forze dell’ordine. Non c’erano vie d’uscita alla shockterapia dell’euro, neppur con la violenza. Nel maggio del 2010, dopo una lunga riunione, i Capi di Stato e di Governo dell’Eurozona approvarono una nuova versione del piano di prestiti per la Grecia, mettendo a disposizione 110 miliardi di euro da restituire in cinque anni al tasso del 5,2% (di cui 30 da parte del FMI e 80 dall’UE).

La quota italiana ammontò a 14,8 miliardi. Sempre a maggio in Italia il Governo presentò una manovra correttiva da 24,9 miliardi di euro composta essenzialmente da tagli di bilancio (fra i quali il blocco degli stipendi pubblici, con diminuzioni per quelli di importo superiore, e la riduzione dei trasferimenti alle Regioni), con l’obiettivo di portare il rapporto deficit/PIL dal 5% del 2010 al 3,9% del 2011 e al 2,7% del 2012. A luglio i ministri finanziari dell’Eurogruppo approvarono la creazione dell’European Financial Stability Facility (EFSF), un fondo intergovernativo al quale si sarebbero potuti rivolgere gli Stati dell’Eurozona con crisi di debito.

Ad ottobre fu raggiunta un’intesa sulla riforma del Patto di Stabilità che previde la revisione della procedura di infrazione per deficit eccessivo (con anticipo dei tempi di apertura a sei mesi) nonché l’introduzione della sospensione del diritto di voto in Consiglio per i paesi recidivi nell’infrazione delle regole del patto.

Fu scelto dunque il pugno duro, così come richiesto dai tedeschi.

Nel mese di novembre, mentre si diffusero concretamente i timori per un contagio del debito anche a Portogallo e Spagna, i ministri dell’Eurogruppo approvarono d’urgenza un provvedimento a favore dell’Irlanda per un ammontare di 85 miliardi di euro (una cifra spropositata).

Urgenza.

Era questo il vocabolo più in uso per giustificare l’introduzione di radicali cambiamenti impopolari nelle economie dell’Europa del Sud.

Per quanto riguardava l’Irlanda la parte europea del prestito sarebbe stata messa a disposizione dall’EFSF. Contemporaneamente fu proposta l’istituzione di un European Stability Mechanism (ESM) che avrebbe dovuto sostituire l’EFSF dopo il 2013, con eventuale coinvolgimento del settore privato nei piani di intervento e nella ristrutturazione del debito pubblico.

L’Irlanda si impegnò a varare una manovra correttiva di 15 miliardi di euro in quattro anni (pari al 9-10% del PIL) con tagli alla spesa pubblica (10 miliardi) ed aumenti delle imposte (5 miliardi). Il giorno successivo la reazione dei mercati fu comunque negativa, con sensibili cedimenti delle borse e allargamento dello spread dei titoli pubblici di Portogallo, Spagna e Italia rispetto a quelli tedeschi. Gli irlandesi si sottoposero alle misure di austerità con sgomento.

Nel marzo del 2011 il Consiglio dell’Eurozona varò l’Euro Plus Pact con l’obiettivo di incoraggiare la competitività e l’impiego, di concorrere alla sostenibilità dei conti pubblici e di consolidare la stabilità finanziaria. Qualche giorno più tardi, illustrando il patto davanti alla Commissione bilancio della Camera, il Ministro dell’economia Tremonti sottolineò l’opportunità di elevare, come in Germania, a rango di norma costituzionale il vincolo legislativo alla riduzione strutturale del deficit e del debito pubblico.

L’Italia iniziava progressivamente a germanizzarsi.

A maggio il Governo portoghese trovò un accordo con UE, BCE e FMI per la concessione di un prestito di 78 miliardi di euro in tre anni per consentire al paese di superare la crisi. Il piano di aggiustamento dei conti pubblici anticipò un taglio del deficit dall’8,6% del PIL nel 2010 al 5,9% nel 2011, al 4,5% nel 2012 e al 3% nel 2013 e selvagge privatizzazioni per 5,5 miliardi di euro da realizzarsi già nel 2011.

Sempre a maggio Standard & Poor’s tagliò di due gradini il rating del debito greco, portandolo da BB- a B. Il rendimento dei titoli di Stato decennali salì al 15,87% (oltre il doppio dell’anno prima, allorché venne definito il cosiddetto salvataggio). Cominciarono a sorgere i primi dubbi sulla sostenibilità del piano di risanamento e si iniziò a parlare di una ristrutturazione del debito. Il mese successivo Standard & Poor’s ridusse di altri tre gradini il rating del debito pubblico greco, portandolo a CCC. Gli spread tra i titoli tedeschi e quelli dei paesi periferici si allargarono come un’immensa voragine diffondendo il panico. Il Presidente della BCE Trichet dichiarò la necessità che un’eventuale ristrutturazione del debito greco avvenisse unicamente su base intenzionale.

A luglio i Ministri delle Finanze dell’Eurogruppo concessero il via libera alla quinta tranche di aiuti alla Grecia (per 12 miliardi di euro) a seguito dell’approvazione da parte del Parlamento greco di una manovra da oltre 28 miliardi di euro in cinque anni (con nuovi tagli alla spesa pubblica ed aumento della pressione fiscale) e dell’avvio da parte dello stesso di un piano di privatizzazioni per 50 miliardi di euro.

Un colpo mortale per il paese.

Si continuò a discutere sulla necessità di una partecipazione dei finanziatori privati ad un piano di riscadenzamento del debito (considerato da Standard & Poor’s una sorta di default selettivo). Sempre a luglio Moody’s tagliò di quattro punti il rating del Portogallo, esprimendo dubbi sulla sostenibilità del piano di risanamento approvato a fronte degli aiuti UE-FMI. A fine mese la stessa agenzia portò il rating greco a Ca con outlook “in via di sviluppo”.

Era questo il definitivo dividendo dell’euro?

Con un vertice straordinario i Capi di Stato e di Governo dell’Eurogruppo raggiunsero un accordo sul debito greco, fissando come obiettivi nuovi prestiti per 109 miliardi di euro, l’allungamento della durata e la diminuzione dei tassi di interesse di quelli già concessi, l’ampliamento della capacità operativa dell’EFSF (con possibilità di acquisti di titoli del debito pubblico sul mercato secondario e di partecipazione alla ricapitalizzazione delle banche), il coinvolgimento del settore finanziario privato nella ristrutturazione del debito in base ad opzioni di swap, rinnovo automatico e buy-back.

Intanto in Italia Camera e Senato approvarono una manovra correttiva che puntò a un sostanziale pareggio di bilancio nel 2014, portandola a 48 miliardi di euro.

A seguito degli attacchi speculativi subiti dai titoli pubblici dei paesi periferici (soprattutto spagnoli ed italiani) il Presidente della BCE invitò il Governo italiano ad anticipare al 2013 la manovra e a varare riforme strutturali per la crescita.

Ad agosto la BCE iniziò ad acquistare titoli di Stato italiani e spagnoli, riducendo lo spread sui Bund tedeschi. Subito dopo il Governo italiano approvò l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013 attraverso un piano per il recupero di ulteriori 45,5 miliardi di euro che incluse nuovi tagli alla spesa pubblica, una vera mazzata. Il Parlamento spagnolo, seguendo l’esempio di quello tedesco, approvò una modifica costituzionale in base alla quale fu fissato un tetto al deficit da stabilire con legge. A settembre il Governo italiano rafforzò la seconda manovra correttiva (introducendo tra l’altro un aumento dell’aliquota IVA) annunciando interventi per 27,9 miliardi di euro nel 2012 e per 58,3 miliardi di euro nel 2013. Contemporaneamente il Consiglio dei Ministri approvò un disegno di legge costituzionale che previde l’obbligo del pareggio di bilancio, la morte dell’intervento pubblico nell’economia.

A fine mese Standard & Poor’s declassò il rating italiano palesando forti dubbi sul raggiungimento degli obiettivi fissati dal Governo per via della fragilità dell’esecutivo (questa la versione ufficiale) e della diversità di posizioni presenti in Parlamento. Subito dopo anche Moody’s e Fitch abbassarono la propria valutazione sull’Italia. Le pressioni dei mercati sul Governo Italiano divennero asfissianti. Nel mese successivo il Presidente della Repubblica firmò il decreto di nomina di Ignazio Visco a Governatore della Banca d’Italia, in sostituzione di Mario Draghi, che, dal 1° novembre, assunse la Presidenza della BCE. Subito dopo il Consiglio europeo trovò un accordo sull’ulteriore rafforzamento dell’EFSF (con aumento della dotazione da 440 a 1.000 miliardi di euro) e sulla ricapitalizzazione delle banche.

Per la ristrutturazione del debito greco prevalse l’ipotesi di una decurtazione del 50%, con un contributo di 30 miliardi di euro da parte dei Governi dell’Eurozona in modo da incentivare gli investitori ad aderire. Ma la misura riguardava per lo più risparmiatori greci. Il 1° novembre le borse europee crollarono dopo l’annuncio da parte della Grecia di un referendum a cui sottoporre le ulteriori misure di austerità richieste per il nuovo piano d’aiuti. I mercati non sopportavano affatto la democrazia. In Italia lo spread BTP decennali/Bund raggiunse la pericolosa soglia di 441 punti base.

Conseguentemente si iniziò a parlare dell’introduzione di un emendamento alla legge di stabilità. La BCE, nella prima riunione del Consiglio direttivo presieduta da Draghi, tagliò il tasso di riferimento dall’1,50% all’1,25%. Le Borse reagirono positivamente, anche per via dell’immediata rinuncia da parte della Grecia al referendum sulle nuove misure di austerità sotto il ricatto dei mercati.

In Italia, in seguito all’approvazione da parte della Camera del rendiconto dello Stato con soli 308 voti, il Presidente del Consiglio Berlusconi annunciò le proprie dimissioni dopo l’approvazione della legge di stabilità. Fu il triste epilogo della democrazia italiana.

Lo spread BTP decennali/Bund toccò quota 500 punti. Incaricati di Bruxelles incontrarono in segreto i membri del Parlamento Italiano per sondare il terreno. Il 12 novembre il Capo dello Stato italiano conferì a Mario Monti l’incarico di formare un nuovo Governo.

Nei giorni successivi Monti ottenne un’ampia fiducia dal Parlamento, come da copione. Subito dopo il Consiglio dei Ministri italiano varò un’ulteriore manovra da 30 miliardi di euro (17 miliardi di nuove entrate e 13 di tagli). Fra le misure adottate vi furono la reintroduzione di un’imposta sulla prima casa (IMU), la sostanziale abolizione delle pensioni di anzianità e il blocco dei trattamenti previdenziali superiori ad una determinata soglia. Monti chiamò il decreto “Salva Italia”.

In realtà il provvedimento avrebbe definitivamente tagliato le gambe a un paese già agonizzante. Tra l’8 e il 9 dicembre il Consiglio europeo approvò un patto per l’unione di bilancio (Fiscal Compact) basato su una maggiore convergenza fiscale, su sanzioni automatiche e sul controllo da parte della Corte di Giustizia. Il 21 dicembre, nella prima delle due aste di long term refinancing operation (LTRO), la BCE somministrò a 523 banche liquidità a tre anni per 489 miliardi di euro (116 quelli distribuiti alle banche italiane) al tasso dell’1%. Una settimana più tardi si registrò un sensibile calo dei rendimenti dei BOT semestrali e dei CTZ, ma lo spread BTP decennali/Bund si mantenne sopra i 500 punti base. Il 2012 si aprì con una serie di declassamenti da parte di Standard & Poor’s. Il rating di ben nove paesi europei fu tagliato.

Quello italiano passò da A a BBB+. Dinnanzi alla Commissione Affari economici del Parlamento europeo Mario Draghi definì “molto grave” la situazione, esortando i governi a rafforzare l’EFSF e invitando a considerare i giudizi delle agenzie di rating come “un parametro tra molti”. A seguito delle crescenti preoccupazioni per un probabile default della Grecia in tempi brevi, Standard & Poor’s ridusse di un punto il rating dell’EFSF, portandolo da AAA a AA+. Subito dopo il premier greco Papademos dichiarò quasi raggiunta un’intesa tra Governo e creditori privati sul taglio del debito. Il 31 gennaio il Consiglio UE approvò il trattato sulla nuova disciplina di bilancio (Fiscal Compact).

Il 9 febbraio i leader dei tre partiti greci che sostenevano il Governo Papademos pervennero a un’intesa sulle misure di austerità richieste da UE, FMI e BCE (la cosiddetta Troika) in cambio di ulteriori 130 miliardi di euro di aiuti. Furono previste la riduzione del 22% del salario minimo, il taglio di 150.000 dipendenti pubblici in esubero e privatizzazioni per 50 miliardi di euro.

La Grecia fu messa in ginocchio.

Dopo ore di trattative, il 21 febbraio l’Eurogruppo raggiunse un accordo sul salvataggio della Grecia, annunciando un taglio del debito pubblico di 107 miliardi di euro tramite una riduzione del valore dei titoli in mano ai creditori privati (come già anticipato soprattutto risparmiatori, una seconda mazzata) e 130 miliardi di euro di prestiti. Il 29 febbraio, con la seconda asta di LTRO, la BCE rifinanziò 800 banche europee per 529,5 miliardi di euro (139 a banche italiane).

Il 2 marzo il vertice dei Capi di Stato o di Governo approvò il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione Economica e Monetaria (Fiscal Compact).

L’accordo previde l’impegno di inserire il principio del pareggio di bilancio nelle Costituzioni, nonché l’obbligo di limitare il deficit allo 0,5% del PIL e di portare i debiti eccessivi verso il 60% del PIL in 20 anni.

Una missione impossibile che avrebbe compromesso il futuro economico di intere generazioni. Contemporaneamente in Italia lo spread BTP/BUND scese a quota 310 punti base, raggiungendo quello dei titoli spagnoli. In Grecia fonti governative indicarono l’adesione dei creditori privati al programma swap dei titoli del debito pubblico entro la soglia minima del 75%.

Il 9 marzo i ministri delle finanze dell’Eurogruppo presero atto dell’esito positivo del piano di ristrutturazione del debito greco, dando il via libera al nuovo piano di aiuti per 130 miliardi di euro.Qualche settimana più tardi lo spread BTP/BUND toccò il suo minimo annuo, assestandosi attorno ai 278 punti base.

Il 20 aprile, con Legge Costituzionale, il Parlamento italiano riscrisse l’articolo 81 della Carta fondamentale, introducendo il principio del pareggio in bilancio in esecuzione degli impegni assunti con la ratifica del Fiscal Compact.

Quindici giorni più tardi, intervenendo all’esito di una riunione del Consiglio Direttivo della BCE, Draghi precisò i tre elementi fondamentali di un nuovo patto per la crescita: riforme strutturali (comprese liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro), investimenti in infrastrutture e un percorso per definire il futuro della moneta unica. A seguito delle elezioni, in Grecia si aprì uno scenario di incertezza politica per la difficoltà di costituire un Governo di unità nazionale. La Spagna intanto fu declassata da Fitch di ben tre gradini. Il 9 giugno il Ministro delle Finanze spagnolo dichiarò l’intenzione di chiedere aiuti europei per la ricapitalizzazione di alcune banche.

In risposta i Ministri delle Finanze dell’Eurozona si dissero pronti a reagire favorevolmente alla richiesta mettendo sul piatto oltre 100 miliardi di euro. Intervenendo a Berlino ad un congresso del suo partito Angela Merkel dichiarò “il bisogno di più Europa” e la necessità di essere pronti a cedere maggiore sovranità nazionale.

Nel frattempo, dopo una nuova consultazione elettorale, in Grecia il partito conservatore Nuova Democrazia non ottenne la maggioranza assoluta di seggi in Parlamento. Nonostante ciò Samaras, il leader incaricato di formare un nuovo Governo, affermò: “I greci hanno deciso di restare legati all’euro. Questo rappresenta una vittoria per tutta l’Europa”. Quasi contestualmente, esponendo il rapporto periodico sulla zona euro, il Direttore generale del FMI Lagarde individuò nell’Unione Bancaria, in quella di bilancio e nelle riforme strutturali nei mercati dei servizi, del lavoro e dei prodotti i tre obiettivi da perseguire per contrastare la crisi. Il 29 giugno, al termine del vertice dei Capi di Stato o di Governo tenutosi a Bruxelles, venne varata l’Unione Bancaria con accentramento della vigilanza presso la BCE. Fu dato inoltre il via libera all’intervento diretto del fondo salva Stati (EFSF/ESM) per la ricapitalizzazione delle banche spagnole.

I mercati reagirono comunque negativamente. Tornarono ad alzarsi paurosamente gli spread tra il Bund tedesco e i titoli di Stato della periferia d’Europa (633 in Spagna, 529 in Italia). Due giorni più tardi, intervenendo in un convegno a Londra, Mario Draghi affermò che la BCE sarebbe stata pronta a fare “tutto quanto è necessario per salvare l’euro“. Si trattava della dichiarazione tanto attesa dai mercati. Le Borse europee reagirono tutte con corposi rialzi. I differenziali di rendimento tra i titoli di Stato dell’Europa periferica e quelli tedeschi iniziarono una rapida e costante discesa. L’euro era salvo, almeno per il momento. Intanto l’ISTAT diffuse i dati di maggio relativi al tasso di disoccupazione italiana. Quella giovanile toccò il livello record del 36,2% (il dato più alto dal 1992).

Il tasso complessivo si fermò al 10,1% (con un aumento dell’1,9% rispetto all’anno precedente). In Eurozona la disoccupazione si attestò all’11,1% , il livello più alto dalla nascita dell’euro. Sempre a luglio, mentre in Italia venne emanata la legge di ratifica del Fiscal Compact, in Germania furono presentati ricorsi alla Corte Costituzionale contro le leggi di approvazione del medesimo Trattato sulla stabilità e di quello istitutivo dell’ESM. Ad agosto nel Bollettino della BCE un’analisi delle condizioni di finanziamento delle imprese industriali evidenziò l’elevato rischio di insolvenza dell’area euro ed in particolare dell’Italia. Sempre ad agosto, in un’intervista ad un giornale tedesco, il nuovo premier greco Samaras si dichiarò pronto ad adottare misure di rigore ancora più severe del previsto (per circa 14 miliardi di euro) in cambio di una proroga di due anni per la loro adozione.

A settembre l’ISTAT ufficializzò dati peggiori del previsto sulla contrazione del PIL italiano. La flessione fu del -0,8% rispetto al trimestre precedente e del -2,6% rispetto al secondo trimestre del 2011. La “cura” distruttiva di Mario Monti funzionava. Nel frattempo la Corte Costituzionale tedesca respinse i ricorsi contro la ratifica del Trattato ESM, ponendo come unica limitazione che eventuali impegni oltre i 190 miliardi di euro già pattuiti dovessero essere approvati dal Parlamento. In Italia il Governo portò al -2,4% le previsioni del calo del PIL per il 2012 (contro il -1,2% stimato ad aprile) e al -0,2% quelle per il 2013, correggendo di conseguenza al 2,6% il rapporto deficit/PIL per il 2012 (contro la precedente stima dell’1,7%).

A fine mese il Governo spagnolo approvò una manovra da 40 miliardi di euro di tagli alle spese e nuove tasse. Intanto il Centre for European policy studies (CESP) stimò in 313 miliardi di euro il costo provvisorio sostenuto dal settore pubblico europeo per il salvataggio della Grecia (372 miliardi, pari al 4% del PIL dell’Eurozona, considerando anche il coinvolgimento del settore privato). L’8 ottobre terminò il processo di ratifiche nazionali del Trattato ESM e venne dato il via libera ad una nuova fetta di aiuti al Portogallo (pronto a chiedere “assistenza” al FMI per lo studio di nuovi tagli alla spesa pubblica) per 4,3 miliardi di euro. Il Governo greco rese note le previsioni di caduta del PIL al -4,5% per il 2013 (con un rapporto debito pubblico/PIL del 189,1%).

A dicembre l’Eurogruppo accordò una nuova porzione di aiuti alla Grecia per 34,3 miliardi di euro. Il Bollettino statistico della Banca d’Italia comunicò il superamento da parte del debito pubblico italiano della quota record di 2.000 miliardi di euro. Subito dopo, il terzo Rapporto sulla coesione sociale di ISTAT, INPS e Ministero del Lavoro ufficializzò il passaggio del rischio di povertà in Italia dal 26,3% del 2010 al 29,3% del 2011. L’aumento fu il più elevato all’interno dell’UE. Il 21 dicembre il Presidente del Consiglio Mario Monti rassegnò le proprie dimissioni. L’evoluzione del declino italiano ed europeo avrebbe avuto presto nuovi ed inquietanti sviluppi.

Quanto fin qui riportato rappresenta solo il principio di una rapida cronistoria non ancora definitivamente compiuta.
La shockterapia dell’euro continua…

domenica 16 novembre 2014

Renzi l`anglofono

Al vertice del G20 di Brisbane, Matteo Renzi ha dimostrato ancora una volta quali sono i suoi santi in paradiso e i suoi referenti politici in campo internazionale. Dopo aver criticato (giustamente, diciamo noi, ma non è stato un grande sforzo) la politica dell'austerità in Europa (imposta dalla Germania) come causa di una recessione che non tende a finire, anzi sta peggiorando, l'ex boy scout ha operato un gioco di sponda appoggiandosi agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Due Paesi che non possono che vedere con piacere le difficoltà europee e le crepe sempre più larghe che si intravedono nell'edificio, già di per sé barcollante, dell'euro. “L'Italia farà la sue parte, realizzerà le riforme – ha assicurato - ma l'Europa deve cambiare passo. Senza crescita – ha sostenuto - non c'è stabilità finanziaria che tenga”. In altri termini, il capo del governo ha voluto rinnovare gli attacchi alla burocrazia di Bruxelles e al presidente della Commissione, il lussemburghese Jean Claude Juncker, che si ostinano a voler applicare alla lettera, senza valutarne le conseguenze, i principi stabiliti dal Patto europeo di Stabilità (e crescita). In primo luogo l'azzeramento del disavanzo entro il 2017 e la riduzione progressiva del debito pubblico al 60%. Nell'uno e nell'altro caso, nella realtà italiana, sono obiettivi praticamente impossibili da raggiungere e lo dimostrano le resistenze feroci che Renzi ha incontrato all'interno dello stesso PD per attuare quella revisione e razionalizzazione della spesa che i suoi amici anglofoni chiamano “spending review”. Così non si può andare avanti, ha insistito l'ex sindaco. Ci vuole più elasticità da parte della Commissione. E ovviamente dalla Germania che guida le danze in Europa e che se lo può pure permettere. Ci vuole una politica più espansiva. Una politica di tipo “keynesiano”. Grandi lavori pubblici che fungano da volano (grazie ad un effetto moltiplicatore) per gli investimenti pubblici e privati. In tal modo, l'economia potrà riavviarsi e l'occupazione potrà risalire. L'importo di tali lavori, ha continuato Renzi, riciclando una idea che fu di Tremonti, non dovrà essere calcolato nell'importo del disavanzo. Una idea giusta in teoria ma alla quale purtroppo, rimanendo nell'ottica del Patto di Stabilità e della difesa dell'euro, la Germania e la Commissione europea hanno risposto finora picche. E questo per due motivi. E tutti e due che interessano la realtà italiana. Il primo è che il debito italiano è al 135% del Pil (ai tempi di Berlusconi, novembre 2011, era al 120%) e di conseguenza la richiesta è suonata come quella di una concessione a continuare nella spesa facile. La seconda è che la realizzazione dei lavori pubblici in Italia rappresenta una autentica barzelletta. Come dimostrano i casi della Salerno-Reggio Calabria e dell'Expo di Milano, con lungaggini ignobili, pagamento di mazzette e gonfiamento di costi oltre ogni decenza. Oltre alle infiltrazioni di imprese legate alla Mafia, alla Ndrangheta e alla Camorra. Dovete tagliare la spesa pubblica, ci dicono da Berlino e Bruxelles e con i soldi risparmiati potrete fare gli investimenti pubblici dei quali avete bisogno per ripartire. Facile a dirsi, molto meno facile a farlo. Con le resistenze che il governo sta incontrando sulla sua strada per attuare la cosiddetta “spending review”, si tratta di una impresa proibitiva. Del resto dicono, la culona tedesca e il suo fido Juncker, è l'Italia ad aver scelto di firmare il Patto di Stabilità. E' l'Italia che ha scelto di stare nell'euro (anche se Prodi che stabilì un rapporto di cambio lira-euro semplicemente demenziale che ha massacrato l'economia italiana). Di conseguenza, cosa volete. Un ragionamento ineccepibile quello dei crucchi e dei tecnocrati di Bruxelles ma che fa però a pugni con la realtà di una economia europea ed italiana che sta collassando e per salvare la quale non basta e non basterà la trasformazione del mercato del lavoro all'insegna del precariato e della flessibilità. La maggiore competitività che ne dovrebbe derivare è l'obiettivo dichiarato. Ma è un traguardo che passa dal sempre maggiore impoverimento dei lavoratori europei ed italiani, costretti a competere con gli stipendi dei colleghi cinesi che sono otto volte minori dei nostri. E' il Libero Mercato, ragazzi. Il Mercato Globale. Renzi si è impegnato a realizzare tale trasformazione ma gli ostacoli che sta incontrando dimostrano che in Italia c'è ancora qualcuno che tiene ad un minimo di decenza. Osteggiato in Europa, a Renzi non è restato che invocare appoggio al G20 da parte di Gran Bretagna ed Usa, due Paesi che hanno basato la loro ripresa economica sull'aumento della liquidità in circolazione. In altre parole ad una barca di soldi messi a disposizione delle banche e quindi degli ambienti finanziari. Ma ovviamente meno soldi a disposizione dell'economia reale, ossia delle famiglie e delle imprese. Un appoggio quello anglofono che per Renzi può trasformarsi in un boomerang, isolandolo ancora di più in Europa. Ma anche in Italia, dove i sondaggi parlano di un crollo delle intenzioni di voto dal 41% delle europee all'attuale 30%. Semmai è paradossale che Renzi abbia scelto il G20 per andare all'attacco. Quel G20 indetto per discutere di evasione ed elusione fiscale. Le quali, è sempre bene tenerlo presente, hanno come propri principali centri mondiali non già il Lussemburgo di Juncker ma le isole di Jersey e Guernsey nella Manica, sotto sovranità britannica. E le Cayman nei Caraibi, giuridicamente sotto controllo di Londra ma dove Washington fa sentire tutto il suo peso. Dal che ne deriva che i paradisi fiscali fanno comodo a tutti. Tanto per dirne una alle compagnie petrolifere Usa ed inglesi che, grazie ai fondi neri là parcheggiati, pagano tranquillamente tangenti ai governi dei Paesi dove operano, senza avere, a differenza dell'Eni, magistrati che non conoscono il mondo e che si svegliano la mattina con l'idea di dare vita ad una nuova Mani Pulite.

venerdì 14 novembre 2014

Grecia in ginocchio: il governo chiede ai maestri di lavorare gratis

La troika, che ha tassato la Grecia fino allo sfinimento, è colpevole d’averla fatta regredire all’età della pietra: I professori inizieranno ad insegnare.. senza ricevere uno stipendio in cambio.
Da mesi è noto il fatto che i privati, ridotti alla povertà più totale dall’euro, si son visti costretti a tornare al baratto. E la situazione non fa’che peggiorare:
Anche il governo, prostrato, ha iniziato ad implorare ai maestri…di insegnare gratuitamente.
Andreas Loverdos, il ministro dell’educazione del governo greco, ha chiesto a 1100 persone di sostituire gratuitamente gli insegnanti pagati. Sperando di trovare più di un miliaio di individui grati ed orgogliosi disposti a lavorare su base volontaria tenta di sopperire ai gravi problemi economici del paese che non può più permettersi di sostenere il peso dell’istruzione pubblica.

Coloro che saranno abbastanza benestanti per lavorare gratuitamente verranno premiati con dei punti “bonus”, che li aiuteranno a trovar lavoro quando l’economia si ristabilizzerà. A parer mio, questi individui sono degli eroi: Sacrificare la propria dignità per la più grande grande delle ricchezze, ossia la Conoscenza, è un gesto meraviglioso. Andrà a finire che alle lezioni di chimica insegneranno ai bambini a costruir ordigni esplosivi da adagiare nei parcheggi sotterranei del Parlamento Europeo di Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo.

giovedì 13 novembre 2014

NAPOLITANO: L’uomo che volle farsi Re

Molto è stato detto sulla figura di Giorgio Napolitano, del quale si è tornato prepotentemente a parlare in questi giorni, dopo l’ipotesi rimbalzata sulla carta stampata di dimissioni a gennaio, ponendo fine anticipatamente al suo mandato. Il ruolo di Napolitano nel determinare la storia recente dell’Italia è stato determinante e ha fatto discutere animatamente costituzionalisti e giuristi sulle posizioni e gli atti assunti dall’inquilino del Quirinale, che secondo l’interpretazione di alcuni analisti e costituzionalisti avrebbe traghettato l’Italia in nuovo sistema costituzionale, con le figure del Capo dello Stato e Capo del Governo che si sono fuse indistintamente, senza che questa nuova figura introdotta da Napolitano godesse di un’investitura popolare.

Senza Napolitano, non sarebbe stato possibile nominare Monti primo ministro, né tanto-meno nominarlo senatore a vita. E' stato determinante per aprire le porte alla tecnocrazia europea. Se le ricostruzioni recenti, che ipotizzano un intervento diretto da parte di Napolitano già nell’estate del 2011 per procedere alla nomina di Mario Monti, quando in quel momento era al potere un governo nominato dalle urne, allora le attribuzioni costituzionali conferite al Capo dello Stato sarebbero state spezzate, irrimediabilmente piegate per asservire interessi sovranazionali. L’Euro, l’UE, la struttura gerarchica della Commissione Europea di Bruxelles, non sono altro che strumenti per trasferire poteri decisionali in sedi remote e di cui non si conoscono appieno i meccanismi, dove questi stessi centri di potere sono esecutori di una politica neoliberista, figlia del There is No Alternative e del pensiero unico, il cui unico scopo è trasformare gli stati sociali delle democrazie costituzionali in stati minimi sul modello di von Hayek.

Se l’attacco alla sovranità dello Stato italiano è riuscito pienamente, è stato grazie agli uomini delle istituzioni che scelleratamente hanno permesso la violazione della Carta e la decostruzione pianificata di decenni di conquiste sul piano del lavoro. Il “vincolo esterno” trova la sua giustificazione nell’incapacità della classe dirigente di saper gestire con trasparenza la cosa pubblica, ma la corruzione è stata la cartina di tornasole per cedere e trasferire i poteri alle facce austere e spesso rancorose dei burocrati europei.

Giorgio Napolitano in questo, rappresenta al meglio, il cavallo di troia dell’eurismo e della logica spesso ripetuta dell’“indietro non si torna”, come se l’unione monetaria e la globalizzazione che mira alla deflazione dei salari, fossero processi irreversibili. Spesso abbiamo sentito aspre critiche del Capo dello Stato contro chi non vuole piegarsi alle dinamiche sovranazionali, che agiscono senza alcuna legittimazione popolare. L’intera idea di integrazione nasce negli anni’50 e gli ideatori della globalizzazione hanno agito sempre con un unico obbiettivo; quello di accentrare i poteri degli stati nazione, considerati ingombranti e obsoleti per la costruzione di una società senza stato, ovvero una società senza garanzie dove le logiche di mercato sono preminenti e possono determinare il destino di un popolo, condannandolo agli stenti.

L’equilibrio costituzionale è stato spezzato, e la parte nota come “ costituzione economica” che mediava tra stato e mercato è stata sepolta, lasciando spazio alla logica della concorrenza perfetta, che altro non è che un oligopolio dominante sui servizi pubblici. Napolitano ha fatto propria questa logica, l’ha propugnata al popolo italiano per descriverlo come un insieme di cittadini che hanno vissuto “ al di sopra delle proprie possibilità”, oltraggiando i sacrifici e gli sforzi di chi ha costruito il Paese e lo ha reso una nazione civile. Un Presidente con queste caratteristiche, forse non era immaginabile nei pensieri dei padri costituenti, che dibattendo a lungo sulle funzioni e sul ruolo del Capo dello Stato hanno preso in considerazione forme e modi diversi di elezioni.

L’Onorevole Bozzi , membro della Commissione dei 75, nel dibattito in Assemblea Costituente, ipotizzava un presidente eletto con suffragio diretto per evitare una dipendenza diretta dalle Camere: “Creato un sistema che, sotto l'apparenza bicamerale, è nella sostanza un sistema unicamerale, il Capo dello Stato viene ad esser posto in una posizione di dipendenza dalla Camera. Questo rappresenta veramente un grave pericolo: siamo sul piano inclinato del regime di Assemblea, che è una delle forme dittatoriali più pericolose. Credo che dovremo rimeditare questo punto per giudicare se non sia preferibile che il Capo dello Stato venga eletto direttamente dal popolo. Si è detto, ed anch'io ho partecipato a questa opinione, che ciò potrebbe presentare un pericolo: l'investitura troppo vasta, troppo popolare, potrebbe dare al Capo dello Stato la sensazione di essere titolare di poteri personali. Pericolo, cioè, di dittatura. Ma credo che questo pericolo non esista. Non esiste se noi, come è e come ritengo debba rimanere, terremo distinte le funzioni di Capo dello Stato da quelle di Capo del Governo, e non faremo del Presidente della Repubblica anche un Cancelliere, secondo lo schema delle repubbliche presidenziali. Un pericolo di regime personale, dittatoriale, può esistere là dove nell'unica persona del Capo dello Stato si cumuli anche la funzione di Primo Ministro; ma dove c'è distinzione il pericolo non si presenta. Viceversa, si avrebbe il grande vantaggio di dare al Capo dello Stato una posizione di prestigio e di indipendenza, sicché egli potrà essere veramente il titolare di quella che è stata definita una potestà neutra, il grande moderatore dei supremi poteri.”

La situazione immaginata dall’Onorevole Bozzi, si è verificata, con le due funzioni di Capo dello Stato e Capo di Governo che sono unite ormai dal presidenzialismo di Napolitano, con la variabile fondamentale della mancanza di suffragio diretto da parte del popolo. Un presidenzialismo de facto, che indirizza la vita politica del Paese da tempo ormai e che rimette in discussione l’opportunità di eleggere direttamente il Presidente, per staccarlo da una dipendenza troppo diretta dall’Assemblea parlamentare. La logica del vincolo esterno, ha reso di fatto, gli organismi costituzionali come il Parlamento e la Presidenza della Repubblica, gusci vuoti, esecutori del modello mercantilista, prono alle indicazioni degli organismi sovranazionali. Se dunque quel cordone di garanzia fondamentale che la prima carica dello Stato ricopriva è stato reciso, violando il ruolo di arbitro imparziale e garante dell’unità della nazione, con il superamento delle attribuzioni fondamentali e della prassi istituzionale della non rielezione, poiché nessun Presidente ha mai pensato di accettare un secondo mandato vista la lunghezza del settennato, sarà necessario ripartire da un’assemblea costituente che attribuisca più poteri al popolo evitando derive personalistiche, in ossequio a disegni di cessioni di sovranità politica, giuridica e monetaria.

Le parole dell’Onorevole Nitti nell’Assemblea Costituente, il quale proponeva un mandato più breve per il Presidente paventando il timore di un distacco dalla realtà popolare, riassumono lo spirito di una costituzione con il popolo protagonista:” Credo anche che la scelta del Presidente debba essere fatta in tal modo da dargli sempre la sensazione che il suo ufficio non è duraturo, perché soltanto questa sensazione lo avvicina alla realtà. Più si allontana il Presidente dalla realtà e meno opere compie.” Gli equilibri della Prima Repubblica che prevedevano un’alternanza costante tra maggioranza e opposizione nell’assegnazione del Quirinale, sono stati stravolti, come la prassi di affidare una delle due Camere all’opposizione per evitare squilibri e dare un peso troppo forte alla maggioranza.

Un nuovo processo di ricostruzione della forma e dell’organizzazione dovrà necessariamente passare per un coinvolgimento maggiore della consultazione popolare nella decisione del Presidente, e nella previsione di un referendum abrogativo anche per i Trattati internazionali ad oggi proibito dall’art. 75, poiché essi determinano e hanno determinato il destino del popolo ed è legittimo che i cittadini siano chiamati ad esprimersi a favore o contro la loro ratifica. Se le dimissioni di Napolitano effettivamente avranno luogo, l’elezione del nuovo Presidente non cambierà poi molto ai fini del sistema politico e costituzionale, di fatto ci troviamo già in un presidenzialismo privo di suffragio, che obbedisce a precetti estranei alla Costituzione. Sarà opportuno costruire un nuovo sistema di legittimazione degli organi costituzionali per sanare quella frattura che si è creata nella storia recente.

Nel romanzo di Rudyard Kipling,” L’uomo che volle farsi Re”, il progonista Daniel Dravot, si fa credere fraudolentemente una divinità da un popolo primitivo, e quando l’impostore viene scoperto per quello che in realtà è, un semplice uomo, il popolo si ribellò. Il Re continua a fare la sua parte, e il soggetto che è assente, da troppo tempo ormai, è il popolo.