giovedì 30 ottobre 2014

IL REGIME NEOLIBERISTA

L’attuale regime neo liberista al servizio della finanza, impersonato dal governo Renzi, tollera ed è accomodante con le manifestazioni della piazza quando queste sono fatte dai gay, dagli pseudo pacifisti, dai cortei degli immigrati extracomunitari che richiedono diaria ed alloggio a spese degli italiani, dalle kermesse del tipo di quella del 1° maggio, persino dalle ributtanti “Femen” che si esibiscono in spogliarelli improvvisati.

Quando invece si tratta di operai che manifestano per il loro posto di lavoro sacrificato agli interessi delle multinazionali, allora il regime si dimostra intollerante e sordo ad ogni richiesta. Si reprimono con la forza coloro i quali non si assoggettano ai cambiamenti imposti dai mercati, dalle multinazionali, nonchè alle nuove regole del lavoro senza tutele e con precarietà assicurata, questo il regime non lo può tollerare perchè deve risponderne ai suoi referenti a Bruxelles, a Francoforte ed alla city di Londra. Il governo non può dimostrarsi debole con il dissenso e le proteste, non può fare “brutta figura” con l’Europa. Matteo Renzi lo aveva già detto: dobbiamo fare i compiti a casa e fare “bella figura” con l’Europa. Forse però non tutti avevano capito che, fra i compiti a casa previsti c’erano proprio la spoliazione dei diritti del lavoro e l’affidamento al mercato dei servizi pubblici una volta privatizzati.

Il mercato italiano deve essere omologato al Nuovo Ordine Mondiale e globalizzato, prestabilito dai poteri finanziari ed i cittadini italiani questo lo devono comprendere con le buone o con le cattive, come è già accaduto ad Atene, a Lisbona ed a Madrid.
Le insurrezioni popolari non devono manifestarsi neanche al loro sorgere e vanno brutalmente represse.

La segretaria della CGIL, Camusso, nel suo sforzo di mantenersi a galla, ha espresso “solidarietà” ai lavoratori, a quegli stessi che il sindacato ha da un pezza tradito consegnando il lavoro italiano all’Europa dei mercati e della finanza.

Lo scempio del lavoro e la macelleria sociale in Italia sono ormai in uno stato molto avanzato ed è già praticamente irreversibile.

In questa situazione si scambiano le accuse fra governo e sindacati di regime e ci sarebbe quasi da ridere, visto che fioccano le accuse di essere al servizio dei “poteri forti” da parte del sindacato al governo Renzi e di essere dei “falsari delle tessere” da parte del governo al sindacato, questo malgrado tutti appartengano allo stesso fronte della sinistra neo liberista del PD, questo partito totalmente asservito agli interessi del grande capitale finanziario.

Cadono le maschere fittizie e si rivelano i ruoli essenziali ed il gioco delle parti nella tragica commedia della decadimento italiano.

mercoledì 29 ottobre 2014

GOLDMAN SACHS TERRORIZZA I PIU' POVERI

Golman Sachs spaventa le famiglie più umili e aumenta gli affitti !
Mentre l'economia spagnola non ha ancora ripreso a crescere, dopo la profonda crisi che ha colpito il paese nel 2008, imprese come la Goldman Sachs stanno terrorizzando i più poveri con l' aumento del prezzo del canone di locazione degli appartamenti.
Quando lo scorso anno, la città di Madrid e altri governi regionali annunciarono la vendita di 5.000 appartamenti a consorzi privati, come Goldam Sachs e Blackstone, si premurarono di rassicurare gli inquilini che i termini fissati per il costo del canone di locazione sarebbero stati garantiti.
Tuttavia, secondo una indagine della Reuters, risulta che alla scadenza dei contratti in essere, è stato comunicato a migliaia di persone che è prevista una rivalutazione e un notevole aumento del costo degli affitti, provocando il panico tra i più poveri del paese, che ora dipendono da donazioni di privati per poter coprire l'aggravio di spese per l'aumento degli affitti.
Bouzelmat Jamila è una tra le migliaia di spagnoli rimasti intrappolati in questa situazione. Madre di sei figli, vive in un appartamento di quattro camere da letto situato nella periferia di Madrid, in un comprensorio recentemente acquisito da Goldam Shachs e da una società spagnola. La donna, di 44 anni, ha detto che, con i 500 euro del sussidio di disoccupazione ricevuto dal marito, fino a marzo di quest'anno la sua famiglia pagava 53 € al mese per l'affitto dell'appartamento. Ma il mese successivo, quando è andata in banca a prendere i soldi per pagare l'elettricità, si è accorta che i nuovi proprietari di casa avevano ritirato 436 € dal suo conto. "Ci hanno lasciato senza soldi in banca", ha detto la donna che ormai vive con l'angoscia di come dovrà fare per pagare l'affitto.
L'inchiesta ha messo in evidenza che altre 40 famiglie vivono una situazione simile a quella di Jamila, compresi i più deboli tra i più poveri di Madrid: madri disoccupate con bambini disabili e persone affette da AIDS, che devono confrontarsi con gli ordini di sfratto, che sono stati temporaneamente sospesi .
Tuttavia, malgrado queste denunce, manca la prova che queste imprese abbiano agito illegalmente. Al contrario, dopo aver acquistato il 15% dell'edilizia residenziale pubblica di Madrid, i nuovi proprietari si avvalgomo semplicemente del diritto di applicare un affitto commerciale alla scadenza dei vecchi contratti.
Allo stesso tempo, in risposta alle richieste degli inquilini, i consiglieri socialisti della città di Madrid hanno intentato delle cause contro chi ha messo in vendite di case, con l'appoggio delle marce di centinaia di persone. La pressione provocata dalle proteste di piazza ha costretto le imprese a rinviare lo sfratto degli inquilini dagli appartamenti.
Alla fin fine, l'indagine conclude con la considerazione che aziende come Goldman Sachs sono state le principali beneficiarie delle politiche di austerità e dei tagli di bilancio attuate in Spagna dal 2008, e hanno approfittato del crollo storico del mercato immobiliare del paese comprando proprietà, messe all'asta dal governo, a prezzi molto bassi. Così, nel 2008-2013, il prezzo delle proprietà in Spagna si è svalutato di quasi il 40%, mentre, secondo i dati ufficiali, continuano a restare ancora vuoti circa 3 milioni di appartamenti; il tutto sta avvenendo in un paese che ha uno dei più bassi livelli, in termini di disponibilità, in Europa.

martedì 28 ottobre 2014

La finzione degli stress test della BCE

Per coloro che sono avvezzi con il mondo del trading è abbastanza chiaro il limite tra realtà e finzione. Lo scrive Martin Armstrong sul suo blog, proseguendo come: “Sono stato invitato da un'università molto nota per un programma pilota finanziato dalle banche volto a addestrare le persone sul trading bancario. Hanno affittato un albergo e hanno preso diverse stanze con ognuna delle quali un finto desk della banca. Il professore poi avrebbe controllato gli schermi e fatto finta di essere la banca centrale. Se gli studenti non rispondevano secondo la teoria, fallivano. Beh rimasi senza parola quando appresi che le banche in questione avevano finanziato il progetto”.

Ecco benvenuti agli stress test della Banca centrale europea, prosegue Armstrong. Designati puramente sulla teoria, questi test presuppongono un mercato perfetto con acquirenti infiniti e non comprendono quello che potrebbe accadere nel caso di panico dei mercati. Nel mezzo di questi tempi caotici di crisi, tutte le banche saranno costrette a vendere gli stessi strumenti contemporaneamente! Dov'è la prova di rischio in questo lavoro di controllo della Bce? Non c'è e, nonostante tutto, il 20 % delle banche non è riuscito a superarli in tali condizioni perfette!

Gli stress test della BCE hanno rilevato come, in perfette condizioni, le banche dell'UE sono carenti di capitale. Ma, onestamente, perché qualcuno dovrebbe acquistare azioni che lo stress test ha rilevato poter evaporare nel nulla? Volete sapere cosa accadrà nel mondo reale?, conclude Armstrong. Le banche non saranno in grado di raccogliare sufficiente capitale sui mercati.

domenica 26 ottobre 2014

Ecco il trattato che permette agli Usa di spaccare l'Europa

Dopo 7 decadi di relativa pace, anche fredda, in Europa si riaffacciano le aspirazioni egemoniche di nazioni che sembravano ormai annichilite e assuefatte all'ordine imposto dopo la seconda guerra mondiale. Il Consiglio europeo appena conclusosi non ha deciso nulla di sostanziale ma ha ratificato la fine dell'egemonia comunitaria che dalla seconda metà degli anni 80 è stata incarnata dalle burocrazie e tecnocrazie di Bruxelles. Per ragioni diverse i capi dei governi britannico, francese e italiano hanno messo in discussione quel consenso europeista che li voleva sottomessi alle decisioni della Commissione europea. In altre parole, per la prima volta dal 1989 sono stati sconfessati e sbeffeggiati i guardiani dei Trattati, cioè la Commissione europea con i suoi mandarini istituzionali e i suoi funzionari. Atti irrituali ma sostanzialmente politici hanno aperto il vaso di Pandora europeo, creando le condizioni per una rifondazione o per il disfacimento dell'Unione europea.

Il mito dell'austerità, imposta surrettiziamente dall'apparato europeo dopo il 2010, è stato smascherato con un rigurgito di identità sovrana sui propri debiti pubblici. La Francia, nonostante l'imbarazzante presidenza di Hollande, ha ritrovato i propri geni dell'eccezionalismo da stato-nazione continentale. Le velleità dell'italiano Renzi, un abilissimo e spregiudicato politico, hanno portato ad una tattica che si è rivelata esiziale. Il Regno Unito, forte dell'unicità dei suoi risultati economici in un'Europa votata alla recessione, ha reagito con ritrovato vigore alle richieste di significativi e ulteriori finanziamenti all'apparato brussellese.

Più che un attacco alla Germania si è trattato di una rivolta degli stati sovrani contro lo strapotere delle banche e della finanza anglo-americana che, con la compiacente regia di Barroso e Draghi, hanno creato in soli 4 anni una situazione di insostenibilità fiscale, economica e sociale nel continente europeo. Il tentativo di sovversione ordito dal potere finanziario si era materializzato in Italia nella prima metà del 2011, nell'estate dello stesso anno in Libia, nel corso del 2012 in tutto l'arco a Sud del Mediterraneo, e nel febbraio 2014 in Ucraina. A questi eventi abilmente orchestrati si è aggiunta la pressione politico-diplomatica rappresentata dal "Sistema Nuland" che pretendeva "fottersene" dell'Ue per estorcere agli europei dannose sanzioni alla Russia, modificare la politica energetica europea, e far ratificare al più presto il Ttip, cioè l'accordo di libero scambio transatlantico che imponeva la marginalizzazione delle giurisdizioni nazionali e comunitarie.

Il prossimo Consiglio europeo di dicembre, che seguirà all'insediamento della nuova Commissione guidata da Juncker, sarà il vero, e forse l'ultimo, banco di prova della determinazione degli stati europei di "trovare la formula per cooperare" (parole della Merkel). Che tutti gli stati europei necessitino di riforme strutturali adatte al proprio rilancio economico, politico e sociale, è cosa più che certa. D'altra parte, questi stati ben sanno che nel mondo globalizzato la loro sopravvivenza di "potenza" non è più percorribile individualmente. Ma essi sanno anche che l'Europa non esiste in base ai presunti valori comuni, bensì può esistere in contrapposizione a minacce esterne oppure per la propria capacità di proiettarsi nel mondo. Nel mondo di oggi, sia la prima che la seconda situazione non può che essere affrontata insieme.

Sul piano esterno è stato artatamente agitato lo spauracchio russo, quello del terrorismo islamico, l'altro spauracchio geofinanziario cinese e infine il terrore biologico della nuova peste, l'Ebola. Appare piuttosto chiaro, anche a chi pensava di beneficiarne, che tali "minacce" esterne invece di compattare l'Europa l'hanno ulteriormente divisa.

Sul piano interno, poiché nessuno degli stati europei riuscirà ad imporre agli altri la propria egemonia, e riconoscendo il fallimento di ipotesi neo-imperiali nazionali o col manto europeista, esiste il concreto pericolo che prevalgano logiche di frizione egemonica che dissolvano la già molto fragile casa comune europea.

Al momento c'è una sola proposta sul tavolo. La maldestra volontà degli Usa di concludere il Ttip entro la fine del 2014. Potrebbe essere una soluzione solo se gli americani accettassero di discutere alla pari con gli europei, cioè mettendo da parte l'eccezionalismo americano e aprendo discussioni trasparenti. La Germania, anche per bocca del neo nominato Juncker, ha chiarito che non può accettare i termini finora imposti dagli americani con il Ttip. Londra e Roma si dichiarano favorevoli perché, come ha dichiarato Matteo Renzi, si tratta "di più di un accordo commerciale, di una scelta strategica che è anche culturale". La Francia pare che abbia salvato solo il settore dell'audiovisivo, ma sostanzialmente non riesce per ora ad opporsi al Ttip. Intanto, la neonata Commissione Juncker si è già spaccata sul Ttip. Infatti, il 22 ottobre scorso, giorno del voto del Parlamento europeo per la Commissione Juncker, 14 ministri del commercio estero degli stati membri hanno inviato una lettera a Juncker chiedendo che "gli ISDS siano mantenuti integralmente nel testo del TTIP". Tra i firmatari figurano il Regno Unito, la Spagna, l'Irlanda, la Danimarca e la Lituania. Non è dato sapere se anche l'Italia abbia firmato la lettera. Per cercare di ridurre le tensioni, Juncker ha annunciato che la responsabilità a trattare gli ISDS è tolta alla Commissaria liberale svedese Malstrom, che ha la competenza per il TTIP, ed è affidata al primo vice presidente della Commissione, il laburista olandese Timmermans. Una mossa che cerca di smontare le accuse già avanzate a Juncker di essere troppo vicino agli interessi tedeschi. Resta il fatto che la grave spaccatura della Ue è tra due blocchi trasversali, che includono parlamentari e governi socialdemocratici, liberali e popolari.

Finora tutto è avvolto nel segreto e non giungono segnali confortanti dagli Usa. Però gli stati europei possono usare la cultura machiavellica per far pesare il loro 16 per cento di importazioni dall'America e il peso dei grandi istituti bancari largamente sovraesposti nel casinò finanziario a stelle e strisce (Deutsche Bank, HSBC, Santander, eccetera). Se non si riuscisse a trovare un accordo conveniente con gli Usa, gli europei dovrebbero prenderne atto e già avere un piano B. Quest'ultimo non può che essere di aprire un negoziato commerciale e strategico con Russia e Cina. Ma anche in questo caso, più che altro per profondi motivi storico-antropologici e culturali, la strada è molto in salita.

Sul piano finanziario si può vedere che il periodo più cupo della crisi dei debiti sovrani sembra essere passata. Infatti anche i noti periferici hanno retto piuttosto bene agli aggiustamenti del mercato di una settimana fa, ed oggi si teme sempre meno il loro default sul debito pubblico.

Resta invece molto grave la situazione dell'economia reale europea, con l'eccezione del Regno Unito che è in crescita. La depressione della domanda interna non si può correggere con piccole misure espansive nazionali e risulta impossibile anche a livello europeo se non si cambiano i principi e i parametri dei Trattati.

Questa situazione sta facendo aumentare il differenziale di rendimento sulle azioni tra area dollaro e area euro. Gli Usa che vorrebbero approfittare della congiuntura per ridurre il programma di QE ed aumentare progressivamente i tassi di interesse, temono che ciò porterebbe al collasso dell'eurozona. Indirettamente ciò creerebbe un danno significativo anche al dollaro. Sul medio termine gli investitori credono che sia il momento di acquistare azioni di imprese europee, che grazie al differenziale sono a buon mercato, e attendere per estrarne i profitti. Una situazione molto complessa e delicata che rischia di sobbalzare se a livello politico gli Usa decidessero di prendere il rischio alzando anche di poco i tassi per creare inflazione. In questo scenario le azioni americane subirebbero una flessione mentre in Europa la Bce sarebbe obbligata a sostenere l'obbligazionario sovrano con ulteriori aumenti di massa monetaria. Il problema per l'Europa è che, a questo punto, il danaro facile europeo finirà per essere investito nelle azioni americane. Inoltre, un tale scenario rafforzerebbe le spinte egemoniche dei paesi europei che sono meno esposti degli altri a coprire i costi del servizio sul debito. In altre parole, i principali beneficiari di un tale scenario sarebbero Germania e Regno Unito. Ma a ben vedere l'Ue è già divisa proprio a livello dell'infrastruttura finanziaria e quindi questo scenario spingerebbe proprio verso uno scisma dell'eurozona e della Ue.

Per tutte queste ragioni, il pericolo del ritorno delle guerre egemoniche in Europa è molto alto.

venerdì 24 ottobre 2014

Le casseforti dell’Isis sono Ubs e Hsbc. Obama sapeva dal 2008

I media occidentali ci hanno raccontato che l’Isis è l’organizzazione terroristica più ricca al mondo, ci hanno raccontato che parte delle risorse finanziarie dell’Isis provengono dalle vendita del petrolio, ci hanno spiegato che l’Isis è un gruppo (il più potente, probabilmente) che fa parte della galassia di Al Qaida. Vi siete mai chiesti dove viene custodita questa montagna di denaro? Otto anni fa la Cia e l’Fbi si erano posti la stessa domanda. L’Isis non esisteva, ma Al Qaida sì. Venne messa su una squadra speciale di cui fecero parte membri di tutti i servizi segreti Usa (compresi dei consulenti esterni). Dopo due anni di indagine la cassaforte era stata individuata. I consulenti vennero pagati profumatamente, venne stilato un rapporto, venne tenuta una seduta a porte chiuse presso una sottocommissione del Congresso. E alla fine venne tutto insabbiato. Chi sapeva e tenne la bocca chiusa fece carriera, chi si ribellò finì in galera. La banca in questione era l’Unione banche svizzere (Ubs). Membro di quella commissione era l’allora senatore dell’Illinois Barak Obama. Il principale finanziatore delle sue campagne presidenziali è divenuto il presidente di Ubs Americans. La rete finanziaria e bancaria di Al Qaida è oggi utilizzata dall’Isis. Ma andiamo per ordine.
In piena “guerra al terrore”, promossa dall’Amministrazione Bush, negli Stati Uniti 2006 venne creata una squadra speciale d’investigazione finanziaria su Al Qaida. Cia ed Fbi stavano nel contrasto al terrorismo. E così si pensò che prosciugando i loro fondi bin Laden e gli altri estremisti islamici potessero esaurire la loro spinta bellica. Popoff in passato ha spiegato (documenti alla mano) di come fossero gli stessi servizi segreti statunitensi ad aiutare Al Qaida. Ma come tutte le strutture umane, anche quella dell’Amministrazione Usa non era un monolite: fianco a fianco lavoravano persone che servivano padroni e ideali diversi e che perseguivano scopi talvolta opposti.
A capo della squadra venne messo un consulente esterno. Booz Allen Hamilton era da tempo già consulente per il Pentagono. Era stato lui ad aver selezionato Edward Snowden quando era stato assunto dal National Security Agency. Hamilton era anche esperto di finanza internazionale. Facevano parte della sua squadra anche l’ufficiale dell’esercito Scott Bennett (vice di Hamilton), il capo dell’ente di controllo dei servizi segreti Mike McConnell e altri quattro funzionari del Nsa: James Clapper, Thomas Drake, William Binney e J.Kirk Wiebe.
Nell’anno e mezzo successivo i sette uomini indagarono sotto traccia in tutto il mondo. Seguirono molto tracce. Ma soprattutto trovarono un uomo, un funzionario della seconda banca svizzera: l’Unione banche svizzere, più conosciuta come Ubs. Brad Birkenfeld era il classico banchiere tutto d’un pezzo e (cosa, invece, non comune) convinto che il buon nome del suo istituto di credito fosse più importante della quantità di soldi ammassati nei suoi caveau.
Birkenfeld era anche un uomo interessato al denaro. E i centoquattro milioni di dollari versati dalla squadra di Hamilton su un suo conto furono un argomento molto convincente. Lo svizzero fornì i numeri di diciannovemila conti bancari, e poi numeri di cellulare, numeri di stanze d’albergo, date di appuntamenti, indirizzi email e altre informazioni in grado di smantellare la rete finanziaria del terrorismo.
«Ci vollero sei mesi per verificare tutte le informazioni dateci da Birkenfeld e per scrivere il rapporto finale. Finalmente, all’inizio del 2008 eravamo pronti per essere ascoltati dalla sottocommissione presieduta dal senatore democratico del Michigan Carl Levin», ha spiegato Benett a Popoff.
Le audizioni si tennero a porte chiuse. Solo i nove senatori poterono ascoltare tutta la storia e leggere il rapporto, intitolato “Shell Game” (127 pagine che Popoff ha avuto modo di visionare). Tra questi c’era il senatore dell’Illinois Barak Hussein Obama, futuro presidente degli Stati Uniti.
Ancora Bennett: «Ascoltarono Birkenfeld, ascoltarono me, ascoltarono altri testimoni chiave. E poi che cosa fecero? Minacciarono l’Ubs e la Hsbc? Le comminarono una multa? Denunciarono pubblicamente la cosa? Si rivolsero al governo svizzero e a quello britannico? Non fecero nulla di tutto questo. Insabbiarono tutto, sbatterono in galera me e Birkenfeld, secretarono “Shell Game” e si dimenticarono della faccenda. Ecco quello che fecero».
I due colossi bancari (l’Hsbc è la quarta banca del pianeta, l’Ubs la quattordicesima) non subirono alcun contraccolpo e i diciannovemila conti proseguirono nel veder transitare i soldi del terrorismo islamico. Bennett: «La cosa che scopersi solo dopo è che parte di quei conti era talvolta utilizzati anche dalla Cia. Ecco perché è stato insabbiato tutto, pensai. Ma forse c’erano anche altre ragioni più importanti, di valore geopolitico».
Che cosa ne è stato dei membri della sottocommissione e di tutti coloro che hanno messo gli occhi su quel rapporto? C’è chi è diventato ambasciatore, chi capo dell’antiterrorismo, chi presidente di commissione e chi inquilino della Casa Bianca.
Lo sapete chi è stato il principale finanziatore singolo della campagna presidenziale di Obama del 2008 e di quella che ha portato alla sua rielezione? Un certo Robert Wolf, presidente della Ubs Americas, il ramo statunitense dell’Unione banche svizzere. Ha donato mezzo milioni di dollari la prima volta e 434.800 dollari la seconda.
Ha concluso Bennett: «Oggi Quei diciannovemila conti sono la linfa vitale dell’Isis. Si sarebbe potuto evitare tutto questo. E, invece… Gli stiamo permettendo di finanziarsi e gli facciamo guerra al tempo stesso». Li hanno anche addestrati e armati, come ha dimostrato Popoff in diversi articoli già pubblicati da questo giornale.

mercoledì 22 ottobre 2014

Il Jobs Act non convince e il ministro le spara grosse

Due italiani su tre - il 64% della popolazione – ritengono che il Jobs Act messo in campo dal governo Renzi non farà crescere l'occupazione nei prossimi mesi. Questo almeno afferma, sulla base un sondaggio, la ricerca realizzata dall'istituto Tecné e dall'Associazione Bruno Trentin. I risultati sono stati presentati ieri dalla Cgil. L'inchiesta è stata condotta tra il 10 e il 13 ottobre, quindi quasi a caldo degli echi del duro scontro avvenuto in Senato proprio sul Jobs Act. Secondo la ricerca dell’Istituto Tecnè, il 54% degli italiani ritiene che sia meglio estendere le tutele, perché ridurle non favorisce l'occupazione. Il 64% ritiene che il provvedimento noto come Jobs Act non farà crescere l'occupazione., una percentuale che sale al 70% tra gli iscritti al sindacato. Il 51% condivide la tesi secondo cui i rapporti di lavoro devono continuare ad essere a tempo indeterminato e la flessibilità deve essere limitata nel tempo. Il 55% degli intervistati , infine, si dice d'accordo con la proposta di estendere la cassa integrazione e di dare l'indennità di disoccupazione a tutti, con una durata rapportata agli anni effettivamente lavorati. L'80% è pessimista sulle prospettive occupazionali: il 55% pensa che la disoccupazione aumenterà ancora nei prossimi 12 mesi, solo il 25% ritiene che non peggiorerà restando sui livelli attuali.
Solo due giorni fa l’Istat aveva presentato un rapporto allarmante secondo cui nei sei anni di recessione la disoccupazione giovanile è aumentata in maniera esponenziale. Dal 2008 ad oggi, si contano oltre 2 milioni di occupati in meno tra i giovani tra 25 e i 34 anni, una fascia di popolazione attiva decisiva per la disoccupazione o, al contrario, lo sviluppo economico in Italia. E’ dentro tale contesto che il ministro dell’Economia Padoan si è messo, anche lui, ad esternare supercazzole come quella sugli ottocentomila posti di lavoro che, nel giro di tre anni, verranno creati con i provvedimenti del governo. “Con le nuove misure messe a punto dal governo potrebbero crearsi 800 mila nuovi posti di lavoro” ha detto il responsabile del ministero del Tesoro nel corso della trasmissione televisiva “In mezz’ora”. Una previsione che appare del tutto aleatoria in presenza di dati concreti e percezioni dell’opinione pubblica che dimostrano il contrario.

martedì 21 ottobre 2014

La tecnocrazia contro i cittadini

Parafrasando Marx, la tecnocrazia europea, i vari governanti liberal-liberisti, gli ex comunisti convertiti al Libero Mercato, e i soliti utili idioti che non mancano mai, lamentano che “uno spettro si aggira per l'Europa”. Uno spettro che chiamano “Populismo” e che non fa dormire sonni tranquilli a quanti, da decenni, sognano una Europa Federale all'interno della quale i singoli Paesi cedano quasi tutta la propria sovranità ad una autorità onnicomprensiva ed invasiva dotata dei più vasti poteri. E' il vecchio progetto vagheggiato da Altiero Spinelli, quando era ospite delle patrie galere in quel di Ventotene. E soprattutto di un autentico criminale quale fu Jean Monnet che, nel secondo dopoguerra, ebbe l'incarico, in virtù delle proprie relazioni con l'Alta Finanza anglofona, di gestire i cordoni della borsa per la distribuzione dei soldi del Piano Marshall. A differenza di Spinelli, la cui influenza pratica si limitò al palcoscenico e alle belle parole, Monnet svolse una influenza fattuale e nefasta pur non avendo mai amato molto l'idea di mettersi in mostra, preferendo semmai agire dietro le quinte. I vari Edward Heat, Giscard d'Estaing ed Helmuth Schmidt lo ebbero e lo riconobbero come loro ispiratore. Monnet, con Spinelli in Italia, è considerato dagli esponenti della canaglia liberista, imbevuta da pulsioni sovra-nazionali, come un nume tutelare al cui esempio ispirarsi. Già, l'esempio. Bell'esempio. Basterebbe pensare alle manovre che Monnet mise in atto nel maggio 1968 per fare cadere De Gaulle, finanziando a piene mani, unitamente al Mossad israeliano, i trotzkisti internazionalisti (!) della Gauche Proletarienne, il gruppo più consistente impegnato nelle rivolte di piazza. Questo perché De Gaulle, si era detto contro l'Europa Federale, schierandosi al contrario per una Europa Confederale, quella da lui definita “L'Europa delle Patrie”. Una colpa imperdonabile per la tecnocrazia. L'anno dopo, e sembra un paradosso, De Gaulle si dimise dopo aver perso un referendum consultivo sul nuovo assetto regionale della Francia. Questo per sottolineare che lo scontro tra tendenze accentratrici e centrifughe è una costante della storia europea. I fautori dell'Unione Europea (all'epoca un semplice Mercato europeo comune e poi Comunità economica europea) hanno basato i propri disegni (loro li chiamavano e li chiamano sogni) sulla considerazione che il mondo stava diventando sempre più stretto e che nuovi soggetti (tipo la Cina) stavano spuntando all'orizzonte e che Paesi, seppure economicamente forti come la Francia e la Germania, da soli non ce la potevano fare.
A questa impostazione economica, ne veniva aggiunta un'altra più politico-istituzionale e riferita all'esempio federale degli Stati Uniti. Se lo hanno fatto oltre Atlantico, vaneggiava il francese anglofono, perché non si potrebbe fare in Europa. Il vecchio cialtrone ignorava volutamente il fatto semplicissimo che gli Usa sono uno Stato costruito ex novo da immigrati che avevano abbandonato l'Europa e che una volta nati decisero di adottare l'inglese come lingua unica ed ufficiale. Una novità che anche gli immigrati tedeschi, il gruppo più consistente, finirono per accettare. In Europa vi è una realtà completamente differente. Anzi opposta. Ogni Paese è caratterizzato infatti da una lingua propria che è il risultato di un processo millenario. Ogni Paese è a sua volta caratterizzato da Regioni, ognuna con proprie peculiarità di usi e di costumi, tra i quali pure quelli alimentari. Molte sono dotate di dialetti che in diversi casi sono delle vere e proprie lingue. Come si possa e si voglia ridurre tutto questo sotto il potere di un Moloch asfissiante appariva come un Eden alle anime belle, prontissime ad applaudire alle soluzioni semplicistiche basate sulla bontà innata dell'uomo e sulla facilità di superare le diversità nazionali. Linguistiche, culturali, economiche e religiose. Oggi, a fronte di una recessione economica senza freni e, al tempo stesso, in presenza di una struttura tecnocratica che da Bruxelles pretende di essere dotata di sempre maggiori poteri, sale alta la rabbia e la protesta dei popoli d'Europa. Il successo politico ed elettorale di forze critiche dell'Europa per come è stata congegnata e per come si è attuata, ne è la più evidente dimostrazione. Nasce la protesta contro un Euro che specie per l'Italia, in conseguenza di un rapporto di cambio euro-lira scelto da Prodi, si è rivelato essere disastroso. Sale la protesta contro le banche, che pur essendo gonfie di denaro grazie ai soldi regalati dalla Bce, non fanno credito alle piccole imprese e continuano invece a speculare e comprare titoli di Stato. E' l'Europa profonda, l'Italia profonda, che protesta ed alza la voce. L'accusa di populismo diventa così l'insulto datato e francamente ridicolo da parte di quegli stessi ambienti che cianciano di “volontà popolare” ma che in realtà non hanno alcuna voglia che essa possa contare qualcosa, volendo soltanto che i cittadini ratifichino provvedimenti per loro dannosi e sulla cui formazione non hanno avuto voce in capitolo.

lunedì 20 ottobre 2014

Un «superticket» per la sanità e blocco dei contratti fino al 2018

La mano­vra Renzi è tutta una sor­presa, per­lo­più nega­tiva. Ieri i gover­na­tori, dopo la “rivolta” di due giorni fa, hanno con­ti­nuato a denun­ciare i tagli e soprat­tutto il rischio che dovranno ricor­rere a pesan­tis­sime ridu­zioni di ser­vizi o a forti rin­cari delle tasse. Intanto i sin­da­cati hanno sco­vato una “chicca”: secondo l’attuale for­mu­la­zione del testo è for­te­mente pro­ba­bile che il governo abbia l’intenzione di bloc­care i con­tratti degli sta­tali per un altro trien­nio, addi­rit­tura fino al 2018. Sarebbe così un con­ge­la­mento pari quasi a un’era gla­ciale, di ben 9 anni (dal 2009).

Il gover­na­tore della Toscana, Enrico Rossi, va al cuore del pro­blema: l’esecutivo sta dicendo pra­ti­ca­mente alle Regioni che la sanità o si auto­ri­durrà al lumi­cino o dovrà essere soste­nuta da un «super­tic­ket». «Se ci tol­gono 4 miliardi, per la Toscana sono quasi 300 milioni in meno. Dob­biamo insi­stere con il taglio dei pri­vi­legi, ma non arri­ve­remo mai a recu­pe­rare 300 milioni o più. Allora, apriamo seria­mente una discus­sione su quel che vogliamo sia il ser­vi­zio sani­ta­rio – dice Rossi – Dob­biamo chie­derci se per man­te­nere un ser­vi­zio uni­ver­sale e gra­tuito per la stra­grande mag­gio­ranza dei cit­ta­dini non sia venuto il momento di chie­dere ai red­diti più ele­vati il paga­mento di un con­tri­buto sulle pre­sta­zioni sanitarie».

Si trat­te­rebbe di una sorta di «super­tic­ket» per gli ita­liani più abbienti, secondo Rossi. Ma noi ci per­met­tiamo di inte­grare con una nota­zione: a bocce ferme, e con quella finan­zia­ria, il «super­tic­ket» rischiano di pagarlo tutti, poveri com­presi; che ovvia­mente non avranno altra strada rispetto alla rinun­cia delle cure.

Sulla legge di sta­bi­lità ha par­lato anche il pre­si­dente della Repub­blica, di fatto blin­dan­dola: «Con­tiene – ha detto Gior­gio Napo­li­tano – un rico­no­sci­mento ampio e ci sono misure impor­tanti per la cre­scita, sia diret­ta­mente per quel che riguarda le poli­ti­che di inve­sti­menti, sia indi­ret­ta­mente per quello che riguarda la ridu­zione della pres­sione fiscale. Penso che le posi­zioni prese con note­vole net­tezza dal governo ita­liano, ma non solo dall’Italia, vadano nel senso di un forte rilan­cio delle poli­ti­che per la crescita».

«Basta coi tweet – dice a Renzi il capo della Con­fe­renza delle Regioni, Ser­gio Chiam­pa­rino – incon­tria­moci». Incon­tro che si potrebbe tenere, ma non è uffi­ciale, gio­vedì 23. Tra l’altro secondo i gover­na­tori i tagli ammon­tano a 6 miliardi, per­ché ai 4 pre­vi­sti da Renzi si devono aggiun­gere il miliardo già cal­co­lato per il 2015 dal governo Monti, i 750 milioni intro­dotti da Letta e i 250 milioni in meno deri­vanti dal taglio dell’Irap.

E la con­tro­pro­po­sta delle Regioni sarebbe già pronta: reste­reb­bero i 4 miliardi di tagli, ma si inter­ver­rebbe con rimo­du­la­zioni delle entrate, tali da con­sen­tire di reg­gere i tagli. Ma tra i gover­na­tori e i primi cit­ta­dini i toni sono anche accesi. Il numero uno della Lom­bar­dia Roberto Maroni minac­cia la chiu­sura di almeno 10 ospe­dali per­ché gli ver­ranno a man­care 930 milioni di euro. Men­tre Ales­san­dro Cat­ta­neo (Fi), vice pre­si­dente Anci, dice «ok ai tagli ma Renzi abo­li­sca l’articolo 18 nella pub­blica amministrazione».

Renzi però non molla: «Figu­ria­moci se non par­liamo con i pre­si­denti delle Regioni. Ma tagliare i ser­vizi sani­tari sarebbe inac­cet­ta­bile. Piut­to­sto si tagli qual­che Asl o qual­che nomina di pri­ma­rio». Secondo il pre­mier, poi, «è esclusa una pro­ce­dura di infra­zione dalla Ue». Infine una bat­tuta per chi pro­te­sta: «C’è chi occupa le fab­bri­che, io le apro».

Dalla Cgil arriva l’allarme sui con­tratti pub­blici: «L’ulteriore e immo­ti­vato anno di blocco dell’indennità di vacanza con­trat­tuale, fino al 2018, che si legge nei testi dispo­ni­bili, con­so­lida il dub­bio che si stiano pre­pa­rando a bloc­care i con­tratti fino a quella data».

domenica 19 ottobre 2014

L’energia costa sempre meno, la bolletta sempre di più

Perché se il costo dell’energia all’ingrosso scende, la bolletta della luce è sempre più cara? Strana legge di mercato o precisa strategia per favorire chi fa cartello e imporre prezzi più salati al dettaglio? Di solito le fregature si nascondono in mezzo a termini incomprensibili, come la voce “oneri e sussidi”, che può raccontarci molto. Ad esempio che ogni anno spendiamo oltre 300 milioni di euro per smantellare (lo chiamano decommissioning) le centrali nucleari, anche se il programma è sostanzialmente fermo da anni.

Oppure gli oltre 800 milioni di euro per la costruzione di un elettrodotto che va dalla Serbia all’Italia (li chiamano progetti di interconnection). Nei piani di chi l’ha pensata, quella struttura che non esiste e che paghiamo, servirebbe per importare energia che costerà 950 milioni di euro l’anno, ovvero il doppio che se la producessimo da soli. Poi ci sono i 48 milioni di euro (oltre 20 l’anno) per 2013 e 2014 per mantenere in vita il rigassificatore Olt di Livorno (di cui ci siamo già occupati), mai messo in funzione. Ma la lista delle cose che non vanno è lunga. E chi ha fatto i conti dice che i cittadini pagano oltre 10 miliardi in più di quello che devono. Perché?

I motivi sono differenti. Ma rimaniamo per ora sul prezzo dell’energia. Sappiamo che la diminuzione del suo costo è dovuta a diversi fattori, tra cui un minor utilizzo delle fonti tradizionali a combustibili fossili a favore delle rinnovabili. Infatti, la grande generazione di energia da eolico e fotovoltaico di questi ultimi anni ha fatto calare i prezzi all’ingrosso. Ma quel risparmio non è ancora stato trasferito nelle bollette degli italiani.

Da tempo l’Autorità per l’energia deve rivedere la struttura della bolletta, come previsto nel decreto Competitività, per far pagare meno i cittadini. Ma per il momento se la prendono comoda e i benefici da rinnovabili non li abbiamo ancora visti, anche se ci sono. Pressioni dalle lobby delle fossili? Forse. Ma di fatto esiste una differenza tra prezzo in borsa dell’energia (in costante calo dal 2009) e quella al dettaglio che invece è sempre più alta. Parliamo di 10 miliardi di euro, conti del M5S in Senato.

La forbice in questi anni si è allargata in maniera anomala, impedendo di fatto che l’effetto calmierante delle rinnovabili sul prezzo all’ingrosso arrivasse in bolletta. Stiamo parlando di una cifra spaventosamente alta, che in dieci anni ha fatto schizzare in alto i costi al dettaglio del 53%. Tutti soldi sottratti ai bilanci delle famiglie italiane, che ormai da tempo si sentono ripetere che devono tirare la cinghia.

Anche per la Commissione europea i produttori hanno esagerato, aumentando i propri utili a dismisura e in modo improprio. La situazione italiana è anche peggio: le utilities pubbliche realizzano profitti anche più alti delle cugine europee. Il margine di Enel, ad esempio, è cresciuto da 116 milioni di euro nel primo trimestre del 2009 a ben 322 milioni di euro nel primo trimestre del 2014. Troppo? Considerate premesse sembrerebbe di sì. Soprattutto perché l’Italia sconta un ritardo preoccupante tra investimenti per così dire sbagliati e norme stranamente ignorate. Ogni provvedimento mancato però è un danno economico per le famiglie.

venerdì 17 ottobre 2014

RENZI LA MANOVRA COL "BOTTO"

Come era facile immaginare, anche in occasione della presentazione della Legge di Stabilità, il governo Renzi ha impugnato il megafono per urlare e alzare la posta.

Il documento appena presentato è presente al momento su tutti i siti di informazione. Si tratta di un elenco di misure e di cifre che è impossibile da commentare a fondo, visto il carattere attuale di mero annuncio. Ma anche solo a prima vista, salta immediatamente all’occhio che si tratta di cifre tanto grandi dal rendere impossibile anche solo pensare a una loro reale applicazione.

Valga solo uno dei punti più esilaranti, sul quale si regge poi buona parte dell’impalcatura generale di questa manovra: “il governo ha messo nero su bianco che il rapporto tra deficit e Pil sarà del 2,9%: così facendo ha conquistato 0,7 punti di spazio finanziario in più rispetto al 2,2% inizialmente indicato. In soldoni, si tratta di circa 11 miliardi di euro che si potranno andare a raccogliere sui mercati, generando deficit aggiuntivo ma non intaccando il parametro del 3% voluto dall'Europa."

Le parole chiave per capire il trucco sono le prime: “il governo mette nero su bianco”. Cosa? Una previsione. Noncurante di tutte quelle sino a ora sbagliate, in merito al Pil dell’anno in corso e al suo rapporto col debito, il Governo si arroga il diritto non solo di fare una previsione tanto importante per il 2015, ma addirittura di incardinarci sopra una buona metà della manovra. Che ha un totale di 36 miliardi.

Si tratta di cifre enormi. Impossibili da raggiungere. Impossibili da andare a pescare da nessun bacino, o tesoretto, di cui l’Italia non dispone da decenni. Solo un anno addietro si è discusso mesi e mesi, in Parlamento, per trovare 4 miliardi in merito all’affare dell’abolizione dell’Imu sulla prima casa. E, sempre che gli italiani se ne siano nel frattempo accorti, anche in quel caso a fronte dell’annuncio di aver poi trovato, alla fine, tale cifra, il tutto si è concepito e realizzato con la sua abolizione ma anche con l’introduzione della Tasi, semplicemente differita di un po’. È notizia di questi giorni, in merito, che la Tasi alla fine, nella maggior parte dei casi, concorre a far pagare tasse sulla casa più alte di quelle che si sarebbero pagate, e che si pagavano a suo tempo, quando invece l’Imu era cosa corrente. In quel caso, visto che di denaro per finanziare l’operazione non ce ne era, il Governo vendette pubblicitariamente una operazione che non è altro che un gioco delle tre carte. Via l’Imu, dentro la Tasi. A somma negativa, per il contribuente.

Le cose, oggi, non sono cambiate. Perché non è cambiata la traiettoria disastrosa dei conti pubblici. Anzi, semmai questi sono peggiorati, e anche se l’ultima rilevazione sul debito pubblico vede una discesa di 20 miliardi, i livelli di disoccupazione e quelli dei consumi sono arretrati ulteriormente, per non parlare del Pil e del relativo rapporto con il debito sul quale l’Europa è in procinto di chiederci conto.

Come è possibile allora che oggi, a conti peggiorati, il Governo sia in grado di varare una manovra così ampia e con spese così “folli” per i nostri conti pubblici? Ovviamente non è possibile nei numeri, per un semplice calcolo aritmetico. E ovviamente ciò significa che, posto che agli annunci seguiranno i decreti attuativi, il che è tutto da vedere, il denaro per coprire tale manovra dovrà essere racimolato altrove. Cioè, per dirla in altre parole, rastrellato da una parte delle tasche dei cittadini e poi immesso, in qualche percentuale, da altre parti. Gli ulteriori tagli a Comuni, Province e Regioni - cioè ai servizi al cittadino - ne sono già un assaggio.

La sola copertura dell’operazione degli 80 euro in busta paga, confermata per il 2015, consta di quasi 10 miliardi. Che non ci sono. E che devono dunque essere raggranellati altrove. Nel complesso, del 36 miliardi della manovra, ben 26 vengono da tagli e da spesa in deficit.

Come accaduto in passato, i mezzi attraverso i quali qualsiasi Governo può rastrellare denaro sono le tasse. Dirette e indirette. Palesi o mascherate. Visibili e invisibili. Per tasse invisibili intendiamo tutte quelle voci, quei balzelli, che non saltano all’occhio immediatamente, ma che poi concorrono all’esproprio complessivo cui ogni cittadino viene condannato. Un esproprio articolato in varie voci, diversificate, e sparpagliate all’interno di tantissimi ambiti in modo da non essere percepite immediatamente come tanto importanti e impopolari. In modo da non destare immediatamente il sospetto, o la certezza, che una concessione fatta da una parte sia poi vanificata da un prelievo dall’altra.

Per intenderci, se a fronte degli 80 euro di Renzi fosse stata varata immediatamente una nuova tassa che andava a concorrere per un importo uguale, il bluff sarebbe stato percepito immediatamente, e il gioco mediatico non avrebbe retto. Invece in occasioni del genere - e lo abbiamo visto innumerevoli volte in passato - si concede 50 e si preleva 55, o 60, spalmando il tutto in voci ulteriori di tassazione di non facilissima e immediata identificazione.

Ora, posto che i denari necessari alla manovra appena annunciata non ci sono, si tratta di capire dove essi saranno prelevati. Per buona parte, almeno a quanto si sa in queste ore, come abbiamo visto la spesa che il Governo ha deciso di effettuare è in deficit, anche se si è premurato immediatamente di precisare che tale spesa andrà a incidere per alcuni punti di Pil ma sempre rientrando all’interno del tetto del 3% per quanto attiene al 2015. Cosa significa? Lo ribadiamo in parole molto semplici: il Governo scommette su delle previsioni. Scommettendo - letteralmente - che nel 2015 il nostro Pil possa essere in ripresa rispetto al disastro del 2014, il Governo conta di poter investire oggi in deficit, e poi aspettare la crescita per ripagare il tutto, come da previsione.

Sulle reali possibilità di vincere la scommessa in merito alla crescita del Pil nel 2015 nutriamo qualche dubbio. Non solo perché le previsioni, in merito, sono periodicamente riviste al ribasso rispetto a quelle precedenti, ed è cosa che accade da molti anni, ormai, ma anche perché non c’è un solo indicatore che sia uno in grado di far pensare che il Pil possa riprendere a crescere. Né in Italia né in tutta Europa e men che meno negli Stati Uniti (visti i crolli di ieri?).

Ecco, l’Italia sta scommettendo su questo quando a livello europeo persino la Germania, ed è notizia anche in questo caso recente, è costretta ad ammettere forti rallentamenti. In estrema sintesi: scommettiamo di andare più forte dei tedeschi, nel 2015. E ognuno può supporre, a questo punto, ciò che vuole.

Lo scenario sperato è quello di spendere ciò che non si ha, essendo certi di effetti sulla ripresa economica tanto forte da essere poi in grado di coprire nel 2015 ciò che si va a fare a debito oggi.

Lo scenario realistico è invece quello della deriva del “sistema del debito” della nostra società, i cui effetti sono evidenti in ogni parte del mondo, che ha già ampiamente dimostrato di non funzionare.

Se si dovesse verificare il primo, tutto a posto, si fa per dire. In caso contrario, delle due l’una: o si sfora pesantemente con il deficit e si aumenta ulteriormente il debito pubblico - con tutto ciò che a livello europeo la cosa comporta - oppure il denaro dovrà essere drenato ai cittadini in altro modo.

L’annuncio di oggi del Governo Renzi va a nostro avviso letto come una fatale condanna per quello che sarà nel prossimo futuro: un inasprimento delle tasse nella migliore della ipotesi, per esempio mediante l’aumento ulteriore dell’Iva e delle accise, un esproprio con una patrimoniale consistente (e ovviamente più visibile) nell’ipotesi a nostro avviso più probabile, oppure il traghettamento diretto verso il commissariamento da parte della troika.

L’operazione di Renzi di oggi non va dimenticata, perché dovremo rammentarla, tra qualche mese, come l’innesco di una ulteriore pesante fase di declino del nostro Paese

mercoledì 15 ottobre 2014

La fine dello Stato-nazione pianificato fase per fase

Garmisch-Partenkirchen è un nome ignoto a molti, eppure è qui che nel 1955 la globalizzazione, l’Euro e l’Unione Europea sono stati concepiti, in una quieta e pacifica località della Baviera meridionale, circondata dal verde e dalle montagne.

I membri del Gruppo Bilderberg, uno dei circoli più importanti per le élite transazionali, si riunirono nel Grand Hotel Sonnenbichl per discutere, come già facevano da un anno dalla sua fondazione, e dettare l’agenda dei Paesi dell’Europa Occidentale e del Nord America. Nel documento sui lavori del meeting di questa riunione i membri del Bilderberg già discutevano dell’idea di una moneta unica europea retta da un’istituzione sovranazionale, l’Unione Europea.

Ma chi sono i Bilderberghini e come nasce l’idea di costruire questo gruppo? Ufficialmente nasce per favorire la cooperazione tra gli stati, su idea del miliardario David Rockefeller e il nome Bilderberg prende il nome dall’omonimo hotel dove gli appartenenti al club hanno tenuto la loro prima riunione nel 1954. Caso singolare vuole che l’accesso alle riunioni sia proibito alla stampa, per non “disturbare la quiete dei lavori” si sono giustificati gli appartenenti al club, dimenticando che nelle democrazie rappresentative questo tipo di riunioni vanno contro la trasparenza e il diritto all’informazione previsto nelle Costituzioni dei paesi occidentali.

Se al cittadino comune del 1955 aveste detto che il futuro dei prossimi 50 anni sarebbe stato concepito con l’istituzione di una Confederazione europea di Stati il cui governo, si legga la Commissione Europea, non avrebbe risposto ai parlamenti eletti democraticamente dai cittadini degli stati membri, probabilmente vi avrebbe preso per pazzi o nella migliore delle ipotesi, riso in faccia. Il processo di costruzione di un ordine sovranazionale che avochi a sé tutti i poteri degli stati sovrani non si è realizzato in un giorno, e la sua gestazione va avanti da più di mezzo secolo. Parafrasando Craxi si potrebbe dire: guarda il Bilderberg e capirai dove si va a parare. Non passarono due anni dalla riunione di Garmisch-Partenkirchen, che già nel 1957 nasce la Comunità Economica Europea, con sei stati europei fondatori, tra i quali l’Italia. La CEE rappresenta il primo passo per costruire una struttura sovranazionale, e si partì con un’unione doganale e commerciale, per favorire come fu detto allora, il libero scambio e il commercio tra gli stati membri.

Il liberismo commerciale è presente in ogni trattato che ha accompagnato la costruzione di questo meccanismo centralizzante del potere, poiché la liberalizzazione degli scambi e la teoria della concorrenza perfetta sono i principi centrali sui quali la globalizzazione ha costruito il suo asse portante. Il mercatismo rappresenta infatti il dominus della società globalizzata, in un sistema dominato da oligopoli economici che controllano non solo larghe fette dell’economia nazionale, ma la gestione dei servizi pubblici essenziali. I quattro elementi che costituiscono le parti vitali dello Stato nazione del XX secolo possono identificarsi nelle quattro sovranità: legislativa, territoriale, monetaria e militare. Qualora venisse a mancare uno o più di questi elementi, la struttura stessa dello Stato nazione sarà compromessa e sostituita da una nuova struttura sovranazionale, non controllata e dai tratti dispotici, intollerante al dissenso e pronta a reprimere con la macchina della propaganda mediatica quegli elementi che minacciano il trionfante cammino dell’accentramento del potere.

I membri del Gruppo sono riusciti a depredare pezzo dopo pezzo tutti e quattro questi strumenti, con il Trattato di Schengen (1985), sottraendo agli stati il controllo delle frontiere, con il Trattato di Maastricht (1992) che sigla la cessione della sovranità monetaria e legislativa fino ad arrivare al 2007 con la firma del Trattato di Velsen che istituisce una milizia sovranazionale che non risponde alle autorità giudiziarie nazionali degli stati membri.

Gli uomini e le donne del Bilderberg sono frequenti scegliere lussuosi alberghi a 5 stelle per le loro riunioni, e tra le placide stanze da conferenza di questi hotel si è deciso il destino del mondo e del secolo senza sovranità, partorito dagli ideali e della volontà di non più di 150 persone, l’esigua minoranza e gotha dell’industria, della comunicazione, e della politica mondiale. Stephen King recentemente ha dichiarato che il mondo assomiglia sempre di più a “1984”, il famoso romanzo di George Orwell, che immagina appunto una struttura dittatoriale capace di controllare e reprimere il dissenso nella società autoritaria. Il linguaggio che viene utilizzato nei lavori del meeting parla di un “ appianamento delle divergenze” e l’obbiettivo è quello di un progresso dei rapporti e delle relazioni tra gli stati, ma sotto la cortina fumogena della ritualità del linguaggio formale, si realizza il progetto del Sovrastato, il Leviatano vorace che divora tutte le prerogative e i diritti che sono connaturati allo Stato sociale. Non occorre nemmeno affannarsi a smentire i debunker che dipingono il Bilderberg come un circolo della caccia o un ritrovo da cure termali per anziani affetti da reumatismi.

La realtà è ormai manifesta, la globalizzazione è stata scientemente voluta e programmata ed il tempo e la gradualità sono stati gli strumenti che hanno diluito in un lento e inesorabile declino lo Stato nazione. L’ineluttabilità della globalizzazione che i media e i governanti sottomessi all’elite continuano a ripetere come un mantra per convincere forse loro stessi, non è altro che l’ostinata volontà che hanno i circoli sovranazionali di ridurre le masse, gli “useless eaters” , i mangiatori inutili come sono concepiti da loro, in una condizione di impotenza non solamente economica ma anche psicologica.

Esiste un principio in fisica chiamato terza legge della dinamica, applicabile anche ai processi sociali ed economici, che recita: ”Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria". Una legge che l'élite forse ha trascurato, quando si comprimono sempre di più le masse queste prima o poi avranno un moto spontaneo di reazione, che quando sgorgherà sarà arduo arginare.

lunedì 13 ottobre 2014

Il decreto sblocca cemento

Non è solo Genova ad affon­dare a sca­denze tem­po­rali sem­pre più rav­vi­ci­nate. È l’Italia intera che rischia di crol­lare sotto i colpi dell’abbandono, della cul­tura della manu­ten­zione e della pro­gres­siva cemen­ti­fi­ca­zione del territorio.

L’Italia paga un prezzo inau­dito in ter­mini di per­dite di vite umane, di lavoro e di ric­chezza di fronte a quello che sta avve­nendo. Il decreto « Sblocca Ita­lia » di Mat­teo Renzi, all’articolo 7, stan­zia 110 milioni per la ridu­zione del rischio idro­geo­lo­gico in Ita­lia. All’articolo 3 ven­gono invece desti­nati quat­tro miliardi di euro al sistema delle «Grandi opere», che è affon­dato nella cor­ru­zione e ha vuo­tato le casse dello Stato. È que­sta la ver­go­gna dello « Sblocca Ita­lia », di fronte a un Paese che affonda nel fango i soldi ven­gono dati sem­pre e sol­tanto a opere spesso inutili.

C’è un altro ele­mento da sot­to­li­neare. Di fronte all’ennesimo disa­stro di Genova, oggi tutti si strac­ciano le vesti sul fatto che a causa di un ricorso ammi­ni­stra­tivo di un’impresa che non aveva vinto l’appalto, i soldi per risa­nare la città erano rima­sti fermi dopo la pre­ce­dente deva­stante allu­vione di tre anni fa.

È la respon­sa­bi­lità dei governi ad aver pro­vo­cato quel blocco dei soldi, per­ché a furia di sem­pli­fi­care e acce­le­rare sono sal­tate tutte le regole della tra­spa­renza dell’azione dello Stato ed è dun­que ine­vi­ta­bile che le imprese che si sen­tono escluse ingiu­sta­mente, cer­chino di difen­dere il pro­prio diritto, spe­cie in tempi di crisi.

La grande azione che dovrebbe essere com­piuta da un governo degno di que­sto nome, sarebbe dun­que quella di rico­struire le regole che hanno distrutto la Pub­blica ammi­ni­stra­zione in Ita­lia. Si con­ti­nua invece, come fa il decreto « Sblocca Ita­lia », ad aumen­tare la discre­zio­na­lità delle pub­bli­che amministrazioni.

E toc­chiamo così l’ultimo punto del decreto che con­ti­nua ad indi­care nella buro­cra­zia la respon­sa­bi­lità di qual­siasi ritardo nella rea­liz­za­zione delle opere. Non è vero, in primo luogo per­ché da anni la buro­cra­zia non esi­ste più, sosti­tuita da diri­genti scelti in piena auto­no­mia dalla poli­tica e ad essa ubbi­dienti. È dun­que colpa della mala poli­tica se lo Stato non fun­ziona, e la causa vera dei ritardi del sistema Ita­lia va tro­vata nell’assurdo numero delle Grandi Opere inse­rite nell’elenco sta­tale. Sono 504 e anche un paese molto più attrez­zato del nostro avrebbe dif­fi­coltà ad attuarle. Biso­gne­rebbe dimi­nuirle ma così facendo si scon­ten­te­reb­bero, evi­den­te­mente, le grandi lobby del cemento.

L’Italia con­ti­nua dun­que ad affon­dare nel fango per­ché il governo Renzi non ha il corag­gio di creare e dotare di cospi­cui finan­zia­menti un nuovo Mini­stero di cui c’è urgente biso­gno: quello della cura del ter­ri­to­rio ita­liano per difen­derci dalle allu­vioni e dal fango che lo sta sommergendo.

domenica 12 ottobre 2014

LA TRAGEDIA DI GENOVA

Un giorno di pioggia intensa e a Genova si manifesta, per l’ennesima volta, l’intesa perfetta tra urbanizzazione e stagione delle piogge. L’ennesima, repentina, alluvione. Un deja-vù. A una quantomeno strana estate, è seguito un torrido settembre e, così, nel giro di pochi giorni, i primi giorni di piogge, torrenziali, hanno di nuovo bussato alla porta di Genova. Senza scomodare i cambiamenti climatici, certamente influenti sulle dinamiche meteorologiche e ecologiche dell’area del mediterraneo, senza dilungarsi sui fenomeni meteorologici importanti a cui è sottoposta questa particolare area geografica, senza inoltrarsi nella climatologia ligure, con piogge intense e ben localizzate, né nelle dinamiche idrografiche e del regime torrentizio ligure, è evidente che, a Genova, il problema è l’urbanizzazione e la saturazione di cemento e infrastrutture, il cui impatto sull’ambiente è ormai sotto gli occhi di tutti, innegabile. Chi dice il contrario, chi nega, mente, parla in malafede, o in ignoranza. Ancora una vittima, ancora un morto. Sempre a Marassi.
La causa dell’ alluvione, degli allagamenti, di tutti i “danni” della pioggia di oggi sono da addebitare alla colata di cemento a cui è sottoposto il territorio genovese dallo scorso secolo, a chi l’ha voluta, sostenuta e sviluppata, a quella classe dirigente politico-economica assassina, che tutt’ora persevera nel gonfiarsi le tasche con la distruzione del territorio, dividendosi il bottino con aziende, lobby e affaristi senza scrupoli. Non è una caso che le zone più colpite, ancora una volta, siano la Valbisagno e la Valpolcevera, i quartieri collinari e le aree urbane a fondo delle valli genovesi. Ma è tutta la città di Genova, da ponente a levante, a subire di nuovo i disastri voluti dalla classe politico-economica, fautrice locale di quel modello di sviluppo che sta devastando il pianeta: lo sviluppo capitalista. Aggressione edilizia del territorio, estesi disboscamenti, sfruttamento delle aree fluviali, l’urbanizzazione, con il suo treno di cementificazione, di dissesto idrogeologico e costrizione delle dinamiche idrografiche naturali, l’industrializzazione, sono all’origine dell’eterna emergenza di Genova. Ebbene, vediamo che negli anni la classe dirigente, ha trovato sempre il modo di tradurre i disastri che ha causato in nuovi profitti e nuovi progetti distruttivi (oltre che in più ampi spazi di potere e controllo), di nascondere tutto sotto una spessa coltre di menzogne, e senza neanche domandarsi se fosse il caso di fermarsi, ha continuato (per nulla indisturbata) a perseverare nel distruggere il territorio per farne profitto. Le esondazioni dei torrenti Sturla, Scrivia, Bisagno e Fereggiano e dei rii minori sono fenomeni naturali; a non esserlo sono il contesto urbano che le determina e caratterizza, in cui avvengono e in cui sono costrette, con tutte le conseguenze. Per Genova, l’ennessimo bollettino di guerra.
A Trasta, ancora una volta, un fiume di fango dovuto al dilavamento delle zone disboscate per i cantieri del TAV-Terzo Valico ha invaso la strada principale. Allagamenti e colate di fango diffuse in tutta la Valpolcevera, sia sul lato destro che sinistro di tutta la vallata. Laddove sorgevano i boschi e le colline di Trasta e San Quirico, sorgono ora due enormi cantieri dell’Alta Velocità, quello della “galleria Campasso” e quella della “finestra Polcevera”, voluti da COCIV con la sentita partecipazione del Comune di Genova, Regione Liguria e dello Stato italiano. Qui, fino all’anno scorso, vivevano le due colline sopra Via Castel Morrone e Via Tecci, che giorno dopo giorno vedevano la città avvicinarsi minacciosa sempre più. I loro boschi saldavano i versanti, impedivano il veloce scorrere dell’acqua, ne rallentavano la forza. COCIV e istituzioni, lì, hanno avuto la meglio sulla lotta no tav che da due anni continua con coraggio da Genova fino al Basso Piemonte. Gli operai del COCIV, incitati dai sui dirigenti, acclamati dal governi Comunale e Regionali per bocca di Doria, La Paita e Bernini, applauditi da Ministri e segretari di governo, hanno iniziato la loro opera distruttiva. Benne, ruspe, trivelle, camion e gallerie hanno sostituito quelle distese di alberi. E le conseguenze non hanno tardato a presentarsi. Non è la prima volta che Trasta viene colpita dai fiumi di fango dei cantieri del TAV, solo pochi giorni fa era successo a San Quirico-Pontedicimo. Così più volte nell’ultimo anno, così chissà quante altre volte ancora. Questo è solo l’inizio. Chi ancora avrà il coraggio di dire che le priorità di Genova sono le grandi opere e il Tav-Terzo Valico, si commenta da solo, dovrà essere zittito in ogni occasione.
Quello che abbiamo sotto gli occhi ancora una volta oggi, è lo scenario a cui ci vorrebbero abituare, se non fermiamo i loro piani scellerati. Questo, il triste futuro a cui ci vorrebbero rassegnati e impotenti. La realtà dei fatti ci travolge; a chi ancora non ha aperto gli occhi, a chi ancora non ha alzato la voce, a chi ancora non si è messo di mezzo sul serio: questo è il momento. Sollevarsi, ribellarsi, rivoltarsi, è possibile.La rassegnazione è il primo nemico da sconfiggere.La consapevolezza di chi si oppone a questo modello di sviluppo e alle Grandi Opere trova ancora una volta la realtà a dargli conferma ulteriore.C’è dice NO, chi lotta, chi resiste a questa devastante e disastrosa idea di mondo che anche nell’Alta Velocità si concretizza.
Quello che i no tav, insieme a tanti altri, dicono da anni si manifesta ogni giorno di più. Lo scenario di oggi fa rabbia, rabbia enorme: bisogna continuare a lottare. Bisogna bloccare il Terzo Valico e le grandi opere, una volta per tutte. Fermiamoli.

venerdì 10 ottobre 2014

La crisi spinge i più giovani lontano dall'Italia: in 94 mila se ne sono andati

Al primo gennaio 2014 sono 4.482.115 i cittadini italiani residenti all’estero iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani all’estero), con un aumento in valore assoluto rispetto al 2013 di quasi 141 mila iscrizioni (+ 3,1 per cento nell’ultimo anno). La maggior parte delle iscrizioni sono per espatrio (2.379.977) e per nascita ( 1.747.409). E’ quanto emerge dal Rapporto italiani nel mondo 2014, realizzato dalla fondazione Migrantes e presentato oggi a Roma.
Il primo paese di residenza per tutti gli italiani è l’Argentina. Fanno eccezione solo i campani, i pugliesi, i sardi, i siciliani e i trentini che sono presenti soprattutto in Germania. Laziali e veneti invece, sono soprattutto in Brasile; mentre i lombardi e i valdostani in Svizzera e gli umbri in Francia. Oltre la metà (il 52,1 per cento) degli italiani iscritti all’Aire è di origine meridionale (più di 1,5 milioni del Sud e circa 800 mila delle Isole) mentre il 32,6 per cento (quasi 1,5 milioni) è partito dalle regioni del Nord. Quasi 700 mila, infine, coloro che hanno dichiarato di essere originari di una regione del centro Italia.
La crisi pesa. Secondo il rapporto Migrantes, sono stati 94.126 gli emigrati dall'Italia nel 2013 (nel 2012 sono stati 78.941), con un saldo positivo di oltre 15 mila partenze, una variazione in un anno del +16,1%. In generale, nel 2013 il 56,3 per cento degli italiani all’estero è composto da uomini, non sposati nel 60 per cento dei casi e coniugati nel 34,3 per cento; la classe di età più rappresentata è quella dei 18-34 anni (36,2 per cento), a seguire quella dei 35-49 anni (26,8 per cento), "a riprova - si legge nel rapporto - di quanto evidentemente la recessione economica e la disoccupazione siano le effettive cause che spingono a partire".
I minori sono il 18,8 per cento e, di questi, il 12,1 per cento ha meno di 10 anni. La prima meta dei nuovi migranti è il Regno Unito.

mercoledì 8 ottobre 2014

L’insostenibile evanescenza della Bce

Uno dei tratti caratteristici della recessione che continua ad attanagliare il Vecchio Continente è l’assuefazione generale rispetto alle misure straordinarie che periodicamente adotta la BCE ed alla tendenza di queste a tradursi in poco più che palliativi di breve periodo.
La prima asta di liquidità della Banca Centrale, con la quale ha preso il via, a distanza di due anni dalla prima, la nuova campagna anti crisi e anti deflazione di Mario Draghi, ha avuto un esito deludente. A fronte delle ottimistiche previsioni degli analisti (Bloomberg prevedeva un valore mediano di domanda da parte delle banche europee pari a 170 miliardi di euro) la richiesta degli operatori si è fermata a 82,6 miliardi (il ministro Pier Carlo Padoan si attendeva una domanda da parte delle banche italiane pari a 37 miliardi mentre il dato finale è stato di soli 23 miliardi di euro richiesti). Non sembra, dunque, che la prospettiva di finanziare imprese che mettono in fila esclusivamente previsioni fosche o famiglie terrorizzate dal quotidiano peggioramento delle condizioni economiche generali alletti particolarmente le banche europee.
La geografia delle banche che hanno scelto di partecipare attivamente all’asta della BCE (su 382 istituti aventi diritto alla partecipazione ben 127 si sono astenuti scegliendo di rimanere alla finestra) ha visto una prevalenza degli istituti italiani e spagnoli. Una plausibile giustificazione dell’attendismo delle banche del centro e del nord Europa è legata alla loro abbondante dotazione di liquidità che, in questa fase, le rende poco interessate all’acquisizione di nuovi fondi. Quest’ultimo elemento è una rappresentazione plastica della polarizzazione che non accenna a ridursi in Europa fra un centro, imperniato sulla Germania, forte dei surplus accumulati e del potere politico che questi le stanno garantendo, ed una periferia economicamente, socialmente e politicamente fragilissima.
La politica monetaria espansiva della BCE dovrebbe, in condizioni normali, rappresentare un occasione allettante per gli istituti finanziari europei. Tuttavia, il governatore Draghi si muove in un contesto che Keynes avrebbe definito di “trappola della liquidità”, una tipica situazione in cui “il cavallo non beve pur se condotto in riva al fiume”. Sembrerebbe, dunque, che la natura strutturale della crisi e degli squilibri che stanno asfissiando l’Europa renda risibile l’effetto degli interventi di politica monetaria per quanto straordinari essi siano.
In questo quadro, due sono le domande alle quali val la pena provare a dare una risposta.
La prima riguarda l’uso dei fondi che, seppur limitati, sono stati acquisiti da alcuni istituti di credito europei. In particolare, per quel che riguarda le banche italiane e spagnole, queste si trovano di fronte al seguente dilemma. Tentare la strada rischiosa e piena di incognite del finanziamento di un sistema imprenditoriale stremato da un continuo calo della domanda o proseguire nella più sicura e tranquillizzante azione di ripianamento dei propri bilanci in sofferenza? Appare evidente come la propensione verso la seconda ipotesi potrebbe rivelarsi la scelta maggioritaria tra coloro che hanno ottenuto parte dei fondi BCE. Oltre a ciò va ricordato che a fine anno giungeranno in scadenza i precedenti prestiti straordinari operati dalla BCE. Molti commentatori sospettano che una buona parte dei fondi acquisiti, e acquisibili da qui a Dicembre, saranno usati dalle banche per ripagare i prestiti precedenti in un gioco paradossale che non sembra aver molto a che vedere con l’auspicata ripresa dell’economia reale.
La seconda domanda riguarda l’adeguatezza generale della politica monetaria della Banca Centrale Europea di fronte alla crisi originata dagli squilibri interni alla zona euro. L’attuale ondata deflazionistica non accenna a diminuire e si sta materializzando in un contesto di politica monetaria incredibilmente espansiva. Questo dato, assieme al fatto che il tasso di interesse obiettivo della Banca Centrale, se calcolato con i dati macroeconomici più recenti, è ormai entrato in territorio negativo, sta palesando l’evidente inefficacia della stesse politiche BCE. Il quantitative easing , ultimo strappo verso l’ormai il celebre “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi potrebbe, entro breve, divenire l’ultima e obbligata cartuccia da sparare per il governatore italiano della banca di Francoforte. Sempre che convincere la componente tedesca del board della Banca si riveli una missione possibile.
Dunque, se per i commentatori ufficiali l’esito dell’asta BCE ha rappresentato al tempo stesso una sorpresa ed una delusione, per chi giudica negativamente l’intero impianto di politica economica della Unione Europea, come il premio Nobel Paul Krugman, si è trattato di un amara conferma delle proprie previsioni. Il continuo stupore per una altresì prevedibile inefficacia delle misure espansive della BCE, così come la stridente contraddizione di quest’ultime con la pesante austerità imposta dalla Commissione ai paesi del Sud, continuano a evidenziare come quella culturale sia una delle componenti più profonde della crisi che affligge l’Unione Europea.

lunedì 6 ottobre 2014

Dopo l'Agenda Monti, arriva quella Cei

Ennesima ingerenza della Conferenza episcopale nella politica italiana. Eppure Renzi finora sembra non aver disatteso alle sue richieste. Ce ne sono altre?
«Basta slogan. Renzi ridisegni l'agenda politica». Non lo dice l'opposizione né qualche illustre politologo, bensì la Conferenza episcopale italiana. Secondo il segretario generale Nunzio Galatino, il governo dovrebbe prima di tutto affrontare i temi legati al lavoro e dà precise indicazioni in merito. Ma la strigliata non risparmia neanche i sindacati, secondo la Cei «troppo conservativi».
Che simili concioni provengano da chi nella vita non ha mai lavorato fa un certo effetto, ma in fondo siamo abituati: i vescovi parlano di famiglia senza averne una, di amore senza poterlo provare, di sessualità quando non dovrebbero conoscerla, di educazione dei ragazzi senza avere figli. E questo è solo il lato comico. Quello tragico è un altro, e cioè che una minuscola monarchia teocratica pretenda di dare ordini politici a uno Stato democratico confinante. Salvo poi accusare di indebite ingerenze chi, viceversa, critica il suo ordinamento. È il caso dell'Onu, che a febbraio di quest'anno ha chiesto esplicitamente al Vaticano di modificare il diritto canonico e l'insegnamento morale riguardo alla pedofilia, alla confessione (il cui inviolabile segreto ha permesso il proliferare indisturbato degli abusi sui minori), alla contraccezione, all'aborto, e alle discriminazioni verso l'omosessualità. Richiesta bollata dalla Santa Sede come «un tentativo di interferire nell'insegnamento della Chiesa Cattolica sulla dignità della persona umana e nell'esercizio della libertà religiosa».
Insomma, c'è qualcosa che non torna. Anzi due: perché la Cei strattona pubblicamente Renzi? A ben guardare, l'ex sindaco di Firenze non ha mai toccato gli interessi di Oltretevere e anzi li ha assecondati in questi pochi mesi più e meglio dei suoi predecessori. A cominciare dalle scuole paritarie tanto care ai vescovi: «Va offerto al settore privato e no profit un pacchetto di vantaggi graduali per investimenti in risorse umane e finanziarie destinato a singole scuole o reti di scuole, attraverso meccanismi di trasparenza ed equità che non comportino distorsioni». E che dire del Fondo edifici di culto, dedicato alla ristrutturazione di immobili ecclesiastici, magicamente comparso tra i beneficiari della quota di otto per mille statale da quest'anno riservata all'edilizia scolastica? Ma già che ci siamo parliamo di Imu e Tasi: in barba al timido tentativo di Monti di farle pagare alle strutture ecclesiastiche dedite ad attività commerciali, il regolamento dell'Agenzia delle Entrate pubblicato a giugno di quest'anno esonera sia le cliniche convenzionate sia le scuole che chiedono alle famiglie un "importo simbolico" (stimabile, secondo Il Fatto quotidiano, a circa 700 euro al mese). Sul fronte dei diritti della persona (nel linguaggio della Chiesa «valori etici»), infine, solo un velocissimo accenno del presidente del Consiglio durante la presentazione alla Camera del programma dei Mille giorni: «Al termine dei mille giorni ci sarà una legge sui diritti civili perché non è pensabile che questo tema torni a essere argomento di discussione politica». Che messa così non fa capire neanche di cosa stia parlando.
Cosa vuole (ancora) la Cei, dunque? Ce lo facesse sapere in modo un po' più chiaro, ché a fare troppi giri di parole si rischia di non essere ben compresi.

domenica 5 ottobre 2014

La Democrazia: un insediamento fallito in Afghanistan

Nel 2000 George W.Bush e Al Gore sono stati il vincitore e il perdente in un’elezione presidenziale degli Stati Uniti molto combattuta, con Gore che aveva ottenuto il 48,4% dei voti, e Bush il 47,9%, tra irregolarità e brogli. Alla fine il problema è stato
risolto non ricontando i voti, ma con una decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di non contare i voti. Questo è stato irregolare, bizzarro e una parodia dell’elezione. Ma la recente elezione afgana è stata peggiore.
Considerate tutta la disperazione di coloro che si sono resi conto che i loro voti non contavano, tutta la disillusione per un sistema elettorale non trasparente che si è avuta negli Stati Uniti nel 2000, e immaginate dei cambiamenti. Immaginata un paese straniero, diciamo il Regno Unito, che arriva a negoziare un accordo di condivisione del potere tra Gore e Bush. Immaginate l’accordo che comportava il dover fare cambiamenti d’urgenza alla Costituzione degli Stati Uniti per soddisfare le ambizioni sia del vincitore che del perdente della competizione. Immaginate il perdente che insiste non soltanto per l’annullamento del risultato elettorale, ma anche perché il risultato non venga mai reso pubblico. Questo ci porta più vicino – ma la recente elezione afgana è stata ancora peggiore.
L’antefatto: nell’ottobre del 2001, il vincitore dichiarato dell’elezione degli Stati Uniti, George W. Bush, ha mandato le truppe a invadere l’Afghanistan e a causare un cambiamento di regime a Kabul. La maggior parte degli afgani dal 1996 al 2001 erano stati sotto il controllo dei talebani, un gruppo appoggiato dal Pakistan che stava combattendo per il controllo del territorio e delle risorse dell’Afghanistan. Gli oppositori dei talebani erano una coalizione di comandanti, che univano il potere militare, territoriale e commerciale con l’attività legale e illegale, in modo che li ha caratterizzati come ‘signori della guerra’. I signori della guerra avevano governato a Kabul, avevano distrutto e saccheggiato le loro parti di Afghanistan dal 1992 al 1996 e avevano ancora il controllo di zone dell’Afghanistan nel 2001. L’invasione di Bush ha fatto ritirare i talebani e ha riportato al potere i signori della guerra. I talebani sono andati prima al di là del confine con il Pakistan, e poi, anni dopo, sono ritornati a combattere il governo afgano e gli Stati Uniti dalle loro basi nelle zone dell’Afghanistan meridionale.
Dall’invasione degli Stati Uniti del 2001 fino ad adesso, l’Afghanistan è stato governato di un tipo diverso di coalizione. I signori della guerra sono tornati. Il governo afgano, creato dagli Stati Uniti, e guidato dal presidente Karzai, ha cercato di assorbire in esso i signori della guerra, con un certo successo. Gli Stati Uniti hanno sovrainteso alla nomina dei signori della guerra al governo, alla stesura della costituzione, e a due eventi elettorali che hanno portato nella legislatura quei signori della guerra, con Karzai alla sua guida. La forza militare è stata fornita dalle forze armate degli Stati Uniti (dal Canada e da altri partner) che hanno combattuto i talebani dalle loro basi fortificate, e hanno condotto attacchi aerei in tutto l’Afghanistan meridionale e nelle zone di confine con il Pakistan. Anche l’economia è stata organizzata dagli Stati Uniti e dai loro partner della NATO che hanno incanalato i finanziamenti per un modello neo-liberale, motivato dalla beneficienza che favoriva le organizzazioni non governative (NGO) invece che i programmi governativi. Il governo afgano era appoggiato contemporaneamente dall’Occidente in campo militare ed economico ed era anche deriso come corrotto e inefficace.
Gli Stati Uniti sono riusciti a installare le loro basi in Asia centrale e ad assicurarsi l’influenza nella regione, ma hanno anche istruito l’Afghanistan sul modo in cui dovrebbero farcela da solo – opponendosi, presumibilmente, all’alleato degli Stati Uniti, il Pakistan, e ai talebani. Il 2014 è stato fissato come la data per il ritiro degli Stati Uniti, e anche se sarà un ritiro tipicamente ambiguo, con le truppe e le basi che rimarranno, è stata stabilita una data simbolica e importante, e l’elezione afgana del 2014 si è stabilito che fosse importante. Se andrà bene, sarà un pacifico passaggio di potere da un governo eletto a un altro. Dopo 13 anni di occupazione, gli Stati Uniti sarebbero in grado di sostenere che avevano instaurato con successo una democrazia, almeno nel senso più limitato di una ‘democrazia’ come paese che ha avuto due s governi eletti l’uno dopo l’altro.
Quello che ha invece avuto l’Afghanistan non ha una precisa definizione secondo la scienza politica, ma in nessun modo potrebbe essere chiamata una democrazia in nessun senso della parola.
I talebani hanno minacciato gli elettori e hanno tentato di fermare le elezioni, ma la gente ha comunque votato. Secondo la costituzione afgana, se un candidato non ha ottenuto la maggioranza assoluta al primo turno, ce ne è un secondo con i candidati arrivati primo e secondo posto al ballottaggio. Al primo turno di voto nell’aprile 2014, Abdullah ha avuto il 45% dei voti, Ashraf Ghani il 31,56%.
Entrambi i candidati principali hanno collegamenti con i signori della guerra. Abdullah era vicino ad Ahmed Shah Massoud, che era il capo dell’Alleanza del Nord contro i talebani, fino alla sua uccisione appena prima dell’11 settembre 2001, e ha fatto la propaganda elettorale parlando della sua contiguità con il famoso militare e politico. Ashraf Ghani ha legami più deboli con i signori della guerra, ma il suo partito comprende il generale Rashid Dostun, uno dei signori della guerra che è sopravvissuto più a lungo e che è meglio organizzato ( vedere il libro di Anthony Giustozzi “Empires of Mud – Imperi di fango – per conoscere il contesto di vita di Dostun e di altri signori della guerra). Ghani ha condotto la sua propaganda come fautore del libero mercato, vicino all’Occidente, interessato allo sviluppo economico e nemico della corruzione. Partecipa anche un TED talk, una credenziale filo-occidentale molto solida. E’ stato al secondo turno, in giugno, che le cos hanno cominciato ad andare storte. E’ diventato chiaro all’inizio del secondo turno che Ghani avrebbe vinto. I risultati preliminari avrebbero dovuto essere annunciati in luglio, ma sono stati rimandati. Quando sono stati annunciati, con Ghani al 56,44% e Abdullah al 43,56%, Abdullah ha detto che avrebbe rifiutato di accettare il risultato, dichiarando che c’erano brogli. Dato che il nuovo governo dell’Afghanistan dovrebbe o combattere o negoziare con i talebani, (probabilmente entrambe le cose) e forse non potrebbero permettersi il lusso di un’opposizione assoluta da parate di una potente fazione, Abdullah deve aver deciso che aveva potere sufficiente per imporre dei termini indipendentemente dal risultato elettorale. E’ stata organizzata una verifica dei voti con la supervisione dell’ONU ed è stata completata in settembre.
Quale è stato il risultato della verifica dei voti fatta con la supervisione degli Stati Uniti? Potremmo non saperlo mai, perché gli Stati Uniti hanno negoziato un accordo di condivisione del potere, nominando Ghani presidente e creando una carica che potrebbe occupare Abdullah, che si chiama “Chief Executive”. Una delle clausole dell’accordo su cui insisteva Abdallah, era che i risultati del riconteggio non siano resi pubblici. Non soltanto i voti degli afgani non contano, i conteggi non possono essere neanche conosciuti.
Alcuni dei commenti occidentali sono stati strani quanto l’elezione stessa. L’editoriale del New York Times sull’argomento loda simultaneamente Kerry per aver negoziato l’accordo che chiamava “lungi dall’essere democratico” e notando che “alla fine della giornata i milioni di elettori afgani che hanno sfidato le minacce talebane di i voti sono stati lasciati a domandarsi se i loro voti contavano.” Un commentatore della BBC, David Loyon, ha deciso di pubblicare le congetture che ha sentito circa il risultato elettorale: “una fonte mi ha riferito che il margine della vittoria poteva essere del 3%, ma altre cifre che vengono citate dai funzionari afgani dicono che è più probabile si del 10%,” ma poi ha concluso che “nulla è sicuro a meno che o fino a quando la Commissione Elettorale Indipendente dell’Afghanistan non pubblicherà il risultato finale,” lasciando i lettori a chiedersi perché ha buttato lì le cifre 3% e 10% .I media occidentali hanno anche notato che sia Ghani che Abdullah appoggiano un accordo che permetta alle forze statunitensi di restare in Afghanistan. Un modo di riassumere questi commenti potrebbe essere: in realtà non sappiamo e non ci importa come hanno votato gli afgani, ma sembra che gli interessi occidentali saranno protetti dall’accordo che l’Occidente ha negoziato.
Tra tutte le incertezze circa quello che era accaduto, circa le agende reali e nascoste dei protagonisti, sui erano contati e ignorati, cioè una costante: ci si prende cura degli interessi occidentali. Questi interessi sono il motivo per cui gli afgani sono stati bombardati, sono questi il motivo per cui agli afgani sono stati offerti questi candidati, sono il motivo per cui i voti sono stati contati e sono il motivo per cui i loro voti sono stati fondamentalmente ignorati. Sia che l’accordo regga o che non regga – e probabilmente non reggerà – l’Afghanistan è un altro esempio di come le invasioni degli Stati Uniti non portano la democrazia anche più di dieci anni dopo.

giovedì 2 ottobre 2014

LA BOMBA FRANCESE CADE A BERLINO

La Francia ha dichiarato solennemente che non si atterrà all’obbligo dell’eurozona di non superare il 3% di deficit, e ciò fino al 2017. Quest’anno il deficit sarà del 4,4% (praticamente il 50% in più del consentito) e nel 2015 del 4,3% (sempre un buon 43% più del consentito). Parigi rifiuta inoltre di adottare nuove misure di austerità. Naturalmente – come sempre – si prevede che successivamente tutto comincerà ad andar bene. Il futuro – visto dalle stanze del governo – è sempre “un’aurora dalle dita rosate”.
Fino ad ora una sorta di tacita convenzione ha fatto sì che riguardo ai grandi Paesi si parlasse di ripresa per la Spagna, di stagnazione per l’Italia e di “difficoltà” per la Francia. In realtà quest’ultima ha raggiunto un debito pubblico di duemila miliardi – il nostro gli è superiore soltanto dell’11% – corrispondente a oltre il 90% del pil; le misure d’austerità hanno cominciato a produrre addirittura problemi di ordine pubblico, e infine si è avuto un drammatico calo di consensi dell’esecutivo e di François Hollande personalmente.
Sapevamo che la Francia era nei guai ma non ci aspettavamo che prendesse così risolutamente il toro per le corna. Infatti ha brutalmente messo Berlino di fronte al fatto compiuto. Probabilmente l’ha fatto in base al suo grande orgoglio nazionale e col coraggio che le viene dall’avere un peso specifico notevolmente più grande del nostro. L’Europa, magari con qualche problema borsistico, sopravvivrebbe senza alcuna difficoltà alla defezione della Grecia. Forse anche alla defezione di un grande Paese. Ma la Francia è, insieme alla Germania, l’elemento essenziale dell’Unione Europea. Non si può dimenticare che i principali fautori dell’Europa Unita sono stati, dopo la Seconda Guerra Mondiale, proprio i francesi e i tedeschi, perché volevano scongiurare, per i secoli avvenire, la possibilità di un conflitto fra di loro.
Ci si può chiedere come mai tutto ciò sia avvenuto proprio ora. A parte il fatto che non si può costantemente peggiorare senza che accada nulla, non si può non osservare che la crisi dell’Europa e dell’euro, invece di risolversi, sembra incancrenirsi. In secondo luogo essa ormai coinvolge i due partner più importanti dopo la Germania, cioè la Francia e l’Italia. In terzo luogo la Germania, che fino ad ora s’è intestardita ad esigere il rispetto dei patti sottoscritti, non ha tenuto conto del fatto che l’intero continente, col rallentamento della sua crescita, dimostra che la politica economica fin qui seguita non conduce da nessuna parte. Essa è stata favorevole alla Germania (anche se ormai meno di prima), ma non si può far pagare a tutti gli altri Paese un regolamento che favorisce soltanto uno di essi e qualche suo satellite economico.
Non è un caso che il ministro francese Sapin, invece di scusarsi, abbia detto che l’Unione europea “deve a sua volta assumersi le sue responsabilità, in tutte le sue componenti”. In particolare “i Paesi in surplus”: espressione che si legge “Germania”. In altri termini, la Francia s’è assunta la responsabilità di distruggere un sistema dannoso e di mettere tutti i partner dinanzi all’evidenza del problema; l’Unione Europea, e in particolare Berlino, devono ora trarne le conseguenze. Devono adattare le norme alla realtà, invece di inchiodare la realtà sul letto di Procuste delle regole sottoscritte.
Il presupposto di una moneta comune è che essa abbia più o meno lo stesso potere d’acquisto in tutti i Paesi che l’adottano. Se invece un Paese ha un deficit (e dunque, tendenzialmente, un’inflazione) del 4,5% e un altro del 3%, nel corso del tempo con quella moneta si comprerà parecchio di più nel secondo Paese (la Germania) che nel primo (la Francia). E dunque il flusso di merci andrà ancor di più dalla Germania alla Francia, danneggiando l’industria francese. Sembra evidente – sempre salvo errori – che provvedimenti del genere siano assurdi. È stato assurdo incatenare economicamente Paesi diversi da molti punti di vista ad una moneta unica, senza averli prima unificati politicamente, ed è assurdo pensare che si possano adottare politiche economiche differenti mantenendo la stessa moneta.
Infine rimane l’interrogativo riguardante le future prospettive e l’effetto che questi ultimi avvenimenti potrebbero avere sui mercati e sulle Borse. Nel dubbio, incrociamo le dita.