domenica 31 agosto 2014

Hollande consegna la Francia alle banche

Come si dice “commissariamento” in francese? Perché questo è quello che è successo al governo transalpino, dopo le dimissioni di Manuel Valls e il reincarico affidatogli da François Hollande.
Galeotte furono le esternazioni di Arnaud Montebourg, ex ministro dell’Economia, reo di aver criticato la linea del rigore portata avanti dall’esecutivo, nonché una certa sudditanza di Parigi rispetto ai diktat di Berlino. Il ribelle è stato messo alla porta senza tanti complimenti.
Il neoministro dell’Economia e dell’Industria è Emmanuel Macron, uomo catapultato al governo direttamente dal settore bancario. Diplomato dell‘Ena, la prestigiosa Scuola della pubblica amministrazione francese, Macron è uno dei consiglieri più fedeli e devoti di Hollande, fin dai tempi delle primarie del 2011, in cui lo sostenne attivamente, pur non essendo ufficialmente membro del partito socialista.
Nel 2007 è stato relatore della Commissione Attali ‘per la liberazione della crescita francese’, nell’ambito della quale ha scambi con diversi economisti europei, tra cui anche l’ex presidente del Consiglio Mario Monti.
Entrato all’Eliseo nel 2012 come segretario generale aggiunto incaricato dei dossier economici, il trentaseienne ex banchiere d’affari da Rothschild si è rapidamente ritagliato un ruolo di spicco nelle stanze del potere e ai tavoli negoziali. All’ultima riunione del gruppo Bilderberg, in Danimarca, figura nell’esclusivissimo gruppo degli invitati.
Insomma, il segnale è chiaro: Parigi non sgarrerà più, nemmeno a parole. È una promessa a garanzia Rothschild.

giovedì 28 agosto 2014

L'INCEPPAMENTO DELLO SBLOCCA ITALIA

Il copione è ormai noto: il governo annun­cia un prov­ve­di­mento e poi si sco­pre che le risorse non ci sono. La novità que­sta volta sta nel fatto che la sco­perta della man­cata coper­tura nel caso del decreto Sblocca Ita­lia è avve­nuta prima ancora del Con­si­glio dei mini­stri di venerdì che deve varare il provvedimento.
Le voci sulle resi­stenze del mini­stro dell’Economia Pier Carlo Padoan sono di lunedì. Ma ieri è arri­vata un’implicita con­ferma dallo stesso col­lega Mau­ri­zio Lupi, il mini­stro più coin­volto nelle misure che «devono sbloc­care le opere pub­bli­che incom­plete dando volano alla ripresa».
Tor­nato alla casa del padre, il Mee­ting di Comu­nione e Libe­ra­zione di Rimini, Lupi ha cer­cato di smus­sare le pole­mi­che con Padoan. Ma nel farlo ha dovuto ammet­tere che «può essere che una parte delle coper­ture sia anti­ci­pata con lo Sblocca Ita­lia per non lasciare sco­perti que­sti quat­tro mesi, e una parte a gen­naio 2015 con la legge di sta­bi­lità» pre­vi­sta per otto­bre, con­fer­mando dun­que che ad oggi i soldi — o buona parte di essi — non ci sono e non sono stati trovati.
E a con­ferma della magra figura fatta dal tito­lare delle Infra­strut­ture, nel pome­rig­gio si sono sus­se­guite le prese di posi­zione di fonti di palazzo Chigi, vice­mi­ni­stri e sot­to­se­gre­tari a ras­si­cu­rare che «le risorse si stanno tro­vando». Arri­vando addi­rit­tura a dover con­fer­mare l’esistenza stessa del decreto, come è toc­cato fare al sot­to­se­gre­ta­rio all’Economia «Lo Sblocca-Italia si farà, sarà un prov­ve­di­mento molto cor­poso che darà una spinta agli inve­sti­menti», spe­ci­fi­cando che sulle risorse «il lavoro è in iti­nere e le scelte saranno fatte nelle pros­sime ore. L’ultima parola spet­terà al pre­si­dente del Con­si­glio e al Con­si­glio dei mini­stri».
Poco prima da palazzo Chigi si chie­deva di «atten­dere la ver­sione uffi­ciale che sarà defi­nita nei pros­simi giorni prima di ragio­nare su illa­zioni arbi­tra­rie e anti­ci­pa­zioni sca­dute». Ma di certo non basterà il pic­colo teso­retto da 3 miliardi annun­ciato da Lupi «legato agli effetti del bonus sulle ristrut­tu­ra­zioni, in grado di por­tare tre miliardi di Iva in più rispetto alle pre­vi­sioni ini­ziali della Ragio­ne­ria di Stato».
A quanto pare l’incontro deci­sivo fra Mau­ri­zio Lupi e Pier Carlo Padoan dovrebbe tenersi domani, alla vigi­lia del Con­si­glio dei mini­stri di venerdì nel quale a pren­dere la deci­sione finale sarà come al solito Mat­teo Renzi. Il pre­mier dovrà tut­ta­via fare i conti con le ristret­tezze di bilan­cio fatte pesare nei giorni scorsi dal tec­nico guar­diano dei conti impo­sto­gli da Gior­gio Napo­li­tano al tempo della for­ma­zione del governo.
Ma dun­que cosa con­terrà in con­creto il decreto che sarà esa­mi­nato dai mini­stri venerdì? E’ plau­si­bile imma­gi­nare che delle farao­ni­che opere citate da Lupi ieri a Rimini («il col­le­ga­mento dell’Alta Velo­cità e dell’Alta Capa­cità Bari-Napoli sarà il punto prin­ci­pale dello Sblocca Ita­lia», e per que­sta opera «sarà neces­sa­rio un inve­sti­mento di 4,5 miliardi di euro con il can­tiere che verrà avviato entro novem­bre 2015») rimarrà ben poco. E che a pre­va­lere saranno la modi­fica dell’impianto nor­ma­tivo. Anche su que­sto ieri Lupi si è “tra­dito”: «Nello Sblocca Ita­lia — ha spie­gato il mini­stro — l’obiettivo prin­ci­pale è quello di sbloc­care la buro­cra­zia. Noi abbiamo la lotta con­tro la buro­cra­zia, con­tro la len­tezza delle pro­ce­dure, con­tro i tempi che non fini­scono mai, con­tro nes­suna assun­zione di respon­sa­bi­lità da parte di chi entro 90 giorni deve espri­mere un parere e dopo il novan­te­simo giorno non esprime il parere ma non gli suc­cede niente e nel frat­tempo con­ti­nuiamo ad aspet­tare il parere: il cuore del prov­ve­di­mento dovrà essere que­sto», ha concluso.
Sul tavolo ci sono poi la “sta­bi­liz­za­zione” dell’ecobonus al 65% per il rispar­mio ener­ge­tico e il man­te­ni­mento dell’agevolazione al 50% per il recu­pero edi­li­zio. C’è infine la que­stione “banda larga”: si pen­sava a un cre­dito di impo­sta gene­ra­liz­zato al 70%, ma anche in que­sto caso le coper­ture per il prov­ve­di­mento al momento non ci sono.
L’unico annun­cio che il mini­stro Lupi è riu­scito a fare è quello dell’arrivo dell’Alta velo­cità a Fiu­mi­cino e Mal­pensa, come da dichia­ra­zione in pompa magna del nuovo Ad delle Fs Michele Mario Elia, con­di­zione impo­sta da Ethiad nell’affare Alitalia.
La lista delle opere annun­ciate il primo ago­sto da Renzi era invece molto lunga e altre si erano inse­rite nei giorni scorsi (la metro­po­li­tana di Genova, ad esem­pio). Le risorse poi arri­ve­ranno in gran parte dai Fondi di coe­sione euro­pei dedi­cati alle Regioni del Sud. «Lo Sblocca Ita­lia è un prov­ve­di­mento ambi­zioso per mobi­li­tare 43 miliardi di risorse già dispo­ni­bili e si occu­perà anche di effi­cienza ener­ge­tica, reti digi­tali e sem­pli­fi­ca­zioni buro­cra­ti­che», ha riba­dito anche sabato scorso il pre­mier Mat­teo Renzi. Venerdì vedremo se le cifre annun­ciate saranno confermate.

martedì 26 agosto 2014

I GUAI DELL'EUROZONA

Sulla caduta caduta del governo francese, conseguenza della crisi economica che vive tutta l'eurozona, si  constata che, se non ci dovesse essere un atteggiamento cooperativo da parte della Germania, l'eurozona - e la stessa Unione Europea - rischiano di collassare. E noi sappiamo bene quali siano le probabilità di un ravvedimento da parte della politica tedesca.
Se c'erano ancora dubbi sulla gravità della crisi che minaccia il futuro dell'euro - e potenzialmente della stessa Unione Europea - l'annuncio shock della crisi di governo in Francia dovrebbe metterli a tacere.
Le tensioni all'interno del governo socialista francese sono andate crescendo per mesi, mentre l'economia minacciava una doppia recessione. Ma è stata la critica pubblica da parte del ministro dell'economia francese, sull'accettazione da parte di Parigi dell'austerità imposta dall'eurozona, che ha portato il presidente Hollande a chiedere la formazione di un nuovo governo.
L'ironia è che alcuni dei timori espressi dal ministro dell'economia circa l'economia francese che si avvia alla deflazione sono stati espressi anche dal presidente della Banca centrale europea (BCE), Mario Draghi, in un importante ma poco noto discorso tenuto venerdì sera negli Stati Uniti. Draghi non ha nascosto la sua crescente preoccupazione per la stagnazione dell'economia dell'eurozona e il mancato stimolo alla domanda da parte dei paesi in grado di farlo. Questo è un messaggio abbastanza ovvio per la Germania.
Si può presumere che - sotto le direttive del presidente Hollande - il primo ministro francese, Manuel Valls, proporrà debitamente un nuovo governo, depurato dai dissidenti. Ma sarebbe molto sorprendente se lo stesso dibattito innescato da Montebourg non tornasse molto presto a perseguitare i responsabili politici francesi. Ma quel che è nuovo, e potenzialmente molto preoccupante, è la prospettiva che il tempo a disposizione del governo francese per evitare il disastro - e il tempo di tutta l'eurozona nel suo insieme - si stia rapidamente esaurendo.
Draghi e la BCE vogliono chiaramente agire rapidamente per ammorbidire ulteriormente la politica monetaria, possibilmente includendo gli acquisti su larga scala di debito pubblico e privato. Ma tempi per farlo non sono interamente nelle mani della BCE, ed è ancora possibile che il governo di Berlino - sotto la pressione della Bundesbank - punti i piedi. Né vi è molto entusiasmo a Berlino sull'adozione di misure fiscali per stimolare la domanda in tutta l'eurozona.
Il pericolo è che se la zona euro dovesse scivolare sempre più in una deflazione vera e propria, diventerà ancora più difficile invertire la tendenza economica. Sotto la superficie, tuttavia, il dibattito potrebbe centrarsi sulla scala dell'azione da intraprendere, per timore che la scelta possa diventare o salvare l'euro o salvare la stessa UE. All'interno della coalizione della Merkel, aumentano le pressioni per un cambio di direzione economica al fine di evitare una catastrofe, non solo economica, ma anche politica, sull'integrazione europea.
Questa presunta "nuova direzione" non solo deve includere un QE di emergenza da parte della BCE, ma anche uno stimolo alla domanda da parte dei governi, eventualmente accompagnato dalla parziale temporanea sospensione di alcune delle regole della zona euro su deficit e inflazione. Ma è pure essenziale il massimo dispiegamento delle capacità complessive della UE di finanziare una sorta di "New Deal", guidato da un massiccio aumento degli investimenti sull'energia, i trasporti, l'ambiente e le infrastrutture sociali.
E' una direzione che lo stesso presidente Hollande sarebbe ben felice di sostenere, se solo potesse mantenere la facciata di un'incontrastata autorità di governo e di continuità della strategia di Parigi. Sarà un trucco difficile da attuare, per lui. Anche il governo italiano guidato da Matteo Renzi è consapevole del fatto che la sua luna di miele politica sta volgendo al termine, e sta conducendo una campagna, appena dissimulata, per un cambio di strategia nell'eurozona.
Quando il gioco si fa duro, nei conclavi delle riunioni ministeriali dell'eurozona potrebbe formarsi una chiara maggioranza favorevole a politiche nuove da realizzare con urgenza. Perfino in Finlandia, tradizionale alleato della Germania sulla linea dura dell'austerità, si sentono nuove voci che mettono in guardia sull'imminente catastrofe economica.
La Merkel cederà alle pressioni per una nuova iniziativa nell'eurozona? Sarebbe sorprendente se non lo facesse. Più di ogni altro governo dell'UE, la Germania sa fin troppo bene quello che potrebbe seguire la disintegrazione dell'euro. La sopravvivenza dell'integrazione europea potrebbe essere in gioco. Gli eventi in Ucraina e altrove mostrano un promemoria riguardo il prezzo che un'Europa debole e disunita potrebbe ora pagare per un errore di calcolo economico.

domenica 24 agosto 2014

Ice Bucket Challenge una buffonata

Parliamoci chiaro: il giochino dell’Ice Bucket Challenge è una stronzata sesquipedale che serve ai soliti noti per diventare ancora più noti e pulirsi quella coscienza sporca che sanno di avere. Tanto è vero che si gettano la secchiata d’acqua gelata in testa ma non tirano fuori un euro: le donazioni in favore dei malati di Sla ammontano ad appena 33 mila euro. Per non parlare del Premier Renzi, definito “penoso” dalla Vice Presidente del Comitato 16 Novembre, che – in un’intervista esclusiva rilasciata a Fanpage – non le manda a dire. Ecco le sue parole.
Il web trabocca di docce gelate, all’estero e in Italia: da Zuckerberg a Bill Gates passando per Belen, Fiorello, e Matteo Renzi. È l’ice bucket challenge, una sfida a colpi di video virali e cubetti di ghiaccio, idea nata proprio da un ammalato di Sla per stimolare la raccolta fondi per la ricerca sulla Sclerosi laterale amiotrofica, terribile malattia incurabile che solo nel nostro Paese conta 6mila casi. Secchiata d’acqua dopo secchiata d’acqua, sembra che la sfida virale stia funzionando. Almeno sul fronte delle donazioni per la ricerca: sono stati raccolti oltre 40 milioni di dollari negli Usa. Molto meno in Italia: appena 33mila euro. In ogni caso il grande problema, a casa nostra, è un altro. Quando si parla di disabilità, in Italia, chi segue queste tristi vicende ricorda spesso Raffaele Pennacchio, il dottore-eroe morto a Ottobre scorso: da giorni, senza sosta, presidiava il ministero dell’Economia insieme al Comitato 16 Novembre Onlus. Cosa chiedevano, questi “violenti” (qualche esponente delle istituzioni li ha definiti così) e facinorosi in carrozzina? Un’assistenza domiciliare dignitosa. Molto semplicemente.
Il fondo per la non autosufficienza è stato ripristinato solo recentemente. Alcuni dati: nel 2009 i soldi stanziati erano 400 milioni. Poi il fondo è stato cancellato nel 2011. Dopo una dura lotta ingaggiata dai disabili, il fondo è stato ripristinato nel 2013.
Per quest’anno, il fondo ammonta a 340 milioni. Pochi spiccioli, sottolinea il Comitato.
È infinitamente di più di una secchiata d’acqua gelata, l’inferno di carboni ardenti che un disabile grave o gravissimo e la sua famiglia attraversano: di fronte ai pochi fondi stanziati e ripartiti tra le regioni, l’Asl stabilisce cosa può offrire al malato in termini di assistenza domiciliare; l’alternativa è la Rsa, la Residenza sanitaria assistenziale. Possibilità di scelta? Ridotta ai minimi termini.
La storia finisce spesso con l’ammalato lasciato alle cure dei familiari, che abbandonano tutto per potersi dedicare a lui, con ricadute pesantissime in termini economici, sociali, psicologici, sanitari.
“Noi vogliamo un piano serio per la non autosufficienza – ribadiscono i malati di Sla – finalizzato all’assistenza domiciliare indiretta. L’ammalato deve restare al proprio domicilio, deve essergli corrisposto un assegno di cura corrispondente allo stadio della malattia, e deve essergli garantita la possibilità di scegliersi un assistente. Non è umanamente pensabile che il congiunto più stretto debba lasciare il posto di lavoro per assistere il familiare, senza pensione, senza alcun sostentamento, senza riconoscimento. Queste persone hanno bisogno di una assistenza vigile, non possono stare nelle Residenze sanitarie assistenziali, dove il rapporto è di un operatore per dieci ammalati. Per coloro che sono affetti da Sla questo non è possibile: non solo vivono un dramma grandissimo, in più sono abbandonati in una struttura che non garantisce loro assistenza per 24 ore; è una cosa che non si può tollerare”.
Una buffonata. Sarebbe bastato che Zuckerberg o Bill Gates avessero donato un po’ di quello che hanno per permettere alla ricerca di andare avanti.
E di nuovo il nodo, centrale, dell’assistenza:ù, essi dichiarano: “Il fondo per la non autosufficienza deve diventare strutturale, deve esserci e deve essere aumentato di anno in anno: non possiamo continuare a fare manifestazioni ogni anno.

venerdì 22 agosto 2014

Droga e contrabbando.Tutto fa Pil

Da settembre faranno Pil anche le attività criminali. Ennesimo giochino di illusionismo renziano per non sforare la soglia del 3%. Ma il miracolo della crescita non ci sarà comunque.
Si rimane a dir poco interdetti di fronte alla decisione di Eurostat, a cui l’Italia ha aderito, di annoverare tra le voci che contribuiscono al Prodotto interno lordo del paese anche lo sfruttamento della prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando di sigarette e alcol, attività per la maggior parte controllate dalle mafie.
In sostanza, già da settembre, l’Istat dovrà elaborare le nuove stime del Pil, utilizzando le nuove norme statistiche del Sistema europeo di calcolo in attuazione del regolamento del parlamento e del consiglio europeo.
Tra le novità introdotte per il calcolo del Pil, oltre alle già citate attività criminali, ci sono:
- le spese in ricerca e sviluppo sostenute dai singoli paesi che non saranno più considerate come uscite, ma come investimenti fissi lordi, con un effetto positivo sul Pil;
- le spese per gli armamenti utilizzati per più di un anno che vengono riclassificate in maniera simile, ma in questo caso l’effetto positivo riguarda solo gli ammortamenti;
Ma lo sfruttamento della prostituzione, il narcotraffico e il contrabbando rappresentano l’aspetto innovativo che può avere un effetto più rilevante sul calcolo del Pil. Secondo le stime Eurostat, la media europea potrebbe crescere del 2,4 per cento, mentre nel nostro paese si attesterebbe tra l’1 e il 2 per cento in più, pari a circa 30 miliardi di euro.
Un tesoretto, per il governo Renzi, da tenere in conto nell’elaborazione dei fatidici rapporti tra deficit e Pil e tra debito e Pil. Per il deficit un aumento del Pil dovrebbe garantire all’esecutivo un margine di sicurezza ulteriore per scongiurare lo sforamento della soglia del 3%, stabilita da Maastricht.
Detto questo, trascurando l’aspetto etico, qualche creatura innocente potrebbe pensare che da settembre saremo quindi più ricchi. Ma è l’ennesimo giochetto truffaldino del “carta vince carte perde”. Quando l’economia è al collasso basta truccare i numeri e il gioco è fatto. Poi, sarà sufficiente presentarsi davanti alle telecamere ad annunciare il tanto agognato aumento del Pil e tutti saranno felici e contenti. Renzi si mostrerà trionfante in tv e gli italiani “medianarcotizzati” crederanno al miracolo della crescita
Federconsumatori e Adusbef dichiarano di trovare la cosa di cattivo gusto, che eleva le attività illegali in mano al rango di produttrici di ricchezza nazionale”. In ogni caso, sfruttamento e commercio illegale rimangono sempre attività intollerabili e da condannare, indipendentemente dal loro volume di affari. Non possono magicamente assumere sfumature positive solo se fa comodo annoverarle nella computazione del prodotto interno lordo. Facciamo appello ai parlamentari europei e al Governo italiano affinché si intervenga con determinazione per contrastare ed eliminare questa pessima decisione

mercoledì 20 agosto 2014

L’allegra gestione della monnezza italiana

Affari milionari girano intorno al settore dei rifiuti. E ora l’Antitrust vuole vederci chiaro. Affidamenti disomogeni, scarsa concorrenza e norme poco chiare. Alla fine chi ci guadagna sono le lobby della spazzatura.
Affidamenti disomogenei su base territoriale, criticità concorrenziali, quadro normativo incerto. Su queste basi l’Antitrust ha dato il via a un’indagine conoscitiva sul settore della gestione dei rifiuti solidi urbani. Ora si effettuerà una ricognizione degli assetti istituzionali, gli operatori e la relativa compagine azionaria, nonché gli strumenti con cui vengono concessi gli affidamenti.
Il Garante evidenzia “l’esistenza di un ricorso significativo all’affidamento diretto” e “una durata degli affidamenti nella maggior parte dei casi superiore a quella che sembra necessaria per recuperare gli investimenti, tali da scoraggiare lo sviluppo della concorrenza e favorire il consolidamento delle posizioni di mercato”. I bandi di gara, poi, presentano spesso clausole che appaiono limitare dal punto di vista geografico gli impianti ai quali conferire i rifiuti raccolti e per tale motivo sembra esserci una limitazione della concorrenza a favore degli impianti di trattamento che si trovano maggiormente nelle vicinanze. Criticità, che secondo l’Antitrust, sarebbero aggravate da un quadro normativo frammentario e disomogeneo, che spesso fornisce incentivi scorretti agli enti locali responsabili della corretta ed efficiente gestione dei rifiuti urbani.

lunedì 18 agosto 2014

Gaza: la guerra di Israele contro i bambini

Per il governo di Israele e la maggior parte dei media del cosiddetto ‘stato ebraico’ più della metà dei morti provocati nella Striscia di Gaza durante l’operazione militare denominata ‘Margine protettivo’ sarebbero miliziani delle organizzazioni islamiche palestinesi – quindi terroristi – e i civili rimasti uccisi sarebbero in buona parte stati usati da Hamas e dalla Jihad Islamica come ‘scudi umani’.
Ma secondo i dati aggiornati sulle vittime dell’ennesima guerra di Tel Aviv contro la popolazione di Gaza diffusi in queste ore appare più che evidente che i bombardamenti dal cielo e dal mare, e i rastrellamenti dei militari israeliani casa per casa dopo l’invasione di terra, abbiano colpito nel mucchio, in maniera indiscriminata, colpendo soprattutto civili inermi.
Secondo l’agenzia di stampa al-Ray il numero di palestinesi uccisi dall’inizio dell’offensiva “Margine Protettivo” contro la piccola e sovraffollata enclave supera i 2.000. I morti accertati sarebbero 2.016, mentre i feriti sono stimati in 10.193. La maggior parte degli uccisi – sottolinea l’agenzia – sono bambini, donne e anziani. Secondo il ministero della Salute palestinese sotto le bombe israeliane sono morti 541 bambini, 250 donne e 95 anziani.
La traballante tregua in atto da alcuni giorni nella Striscia ha consentito all'Unicef di inviare alcuni preziosi aiuti ai bambini, ma l'agenzia dell’Onu – che fornisce un bilancio leggermante inferiore a quello di al-Ray - sottolinea che è "necessaria una pace duratura per raggiungere centinaia di migliaia di bambini che hanno un disperato bisogno di sostegno per ricostruire le proprie vite". "Questo conflitto ha avuto un impatto devastante sui bambini, che costituiscono la metà della popolazione di Gaza. In un comunicato l'agenzia dell'Onu ricorda che sono più di 450 i bambini morti negli attacchi aerei e nei bombardamenti con l’artiglieria, più di 2.900 quelli rimasti feriti e ben 50.000 quelli che non hanno più un tetto sotto il quale ripararsi.
Il cessate il fuoco temporaneo ha permesso a squadre di tecnici sostenuti dall'Unicef di iniziare a riparare le infrastrutture critiche danneggiate da attacchi aerei e bombardamenti, compresi acquedotti e sistemi sanitari.

sabato 16 agosto 2014

La presidente Argentina, Cristina F. de Kirchner, ha annuciato l’applicazione della legge antiterrorismo ad una multinazionale USA


La presidente argentina, Cristina Fernandez de Kirchner , ha annunciato che applicherà per la prima volta una legge antiterrorismo nei confronti di una impresa multinazionale nordamericana, la Donnelley, che pochi giorni prima, a sorpresa aveva dichiarato il fallimento, chiuso di colpo il suo stabilimento in Argentina, lasciando per la strada 400 lavoratori.
Questa mossa è stata collegata alla vicenda dei “fondi avvoltoio” ed è stata indicata dal governo argentino come una manovra preordinata.
La Cristina Kirchner ha presentato denuncia di fronte alla corte penale della Giustizia federale per il reato di “alterazione dell’ordine economico e finanziario”, come ha sostenuto la presidente la quale ha inforcato le lenti per leggere l’articolo che si riferisce alla legge antiterrorismo promulgata nel Dicembre del 2011 ,in mezzo a forti polemiche per la sua possibile utilizzazione nei conflitti sociali.
Secondo la Cristina, anche alcuni grandi giornali del paese avevano avallato tale manovra ed avevano annunciato con grandi titoli che 400 persone si trovavano dalla sera alla mattina senza lavoro, un sistema fraudolento per spaventare la popolazione e seminare il panico.
La Presidente argentina ha spiegato che vi era stato un atto preparatorio della chiusura della multinazionale Donnelley (leader nel settore della grafica con 55000 dipendenti in tutto il mondo) e lo ha collegato con la vicenda dei fondi avvoltoio che, ha assicurato, non vogliono arrivare ad un accordo, non solo per avarizia e cupidigia ma anche per una decisione geopolitica di voler tornare ad indebitare l’Argentina. Le loro argomentazioni hanno svelato un piano ordito, una cospirazione che spiegherebbe quanto accaduto anche alla Donnelley, dove non esisteva alcuna crisi.
La Cristina ha spiegato come siano strettamente collegati i fatti quali il contenzioso dei fondi avvoltoio con l’Argentina, la NML di Paul Singer, che aveva trasferito un 13% delle azioni di una multinazionale che si trova in Argentina (non ha indicato quale) al fondo di investimento Blackrock. Successivamente P.S. lo stesso aveva dichiarato che la Donnelley era parte per il 60% o 70% di fondi di investimento e che uno di questi era Black Rock.
“Esiste una trama mafiosa a livello internazionale che sta manovrando l’economia mondiale”. ha assicurato la Cristina.

La presidente argentina, Cristina Fernandez de Kirchner , ha annunciato che applicherà per la prima volta una legge antiterrorismo nei confronti di una impresa multinazionale nordamericana, la Donnelley, che pochi giorni prima, a sorpresa aveva dichiarato il fallimento, chiuso di colpo il suo stabilimento in Argentina, lasciando per la strada 400 lavoratori.
Questa mossa è stata collegata alla vicenda dei “fondi avvoltoio” ed è stata indicata dal governo argentino come una manovra preordinata.
La Cristina Kirchner ha presentato denuncia di fronte alla corte penale della Giustizia federale per il reato di “alterazione dell’ordine economico e finanziario”, come ha sostenuto la presidente la quale ha inforcato le lenti per leggere l’articolo che si riferisce alla legge antiterrorismo promulgata nel Dicembre del 2011 ,in mezzo a forti polemiche per la sua possibile utilizzazione nei conflitti sociali.

giovedì 14 agosto 2014

CRESCE LA DISEGUAGLIANZA NEL MONDO

All’interno del “Rapporto mondiale sui salari 2012-13” dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), si possono trovare numerose prove del rallentamento della crescita dei salari in tutto il mondo dalla crisi globale capitalistica del 2008. I dati evidenziano in modo indiscutibile che il reddito dei lavoratori cresce molto più lentamente rispetto alla produttività del lavoro e del reddito dei capitalisti, con una tendenza che ci riporta ad un ciclo di disuguaglianza paragonabile al periodo antecedente la grande ascesa del movimento operaio e comunista internazionale. Il periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale, in cui il divario tra “ricchi” e “poveri” si è assottigliato, è stato un fatto eccezionale nel corso della storia del mondo. Ora questo periodo è finito.
A metà degli anni ’70, la quota destinata al lavoro era al 75% (sul reddito nazionale) per passare al 65% nel periodo antecedente la crisi del 2008, diminuendo di anno in anno, passando all’attuale 45%. Nei paesi in via di sviluppo è scesa dal 70% nel 1970 all’attuale 50%. Nei paesi sviluppati sono cresciuti i dividenti agli azionisti, ad esempio in Francia, nel 1980, tali pagamenti erano pari al 4% della massa salariale totale, nel 2008 già al 13%.
La produttività del lavoro, in tutto questo periodo, è cresciuta più velocemente dei salari dei lavoratori. Negli Stati Uniti, dal 1980, la produttività del lavoro nell’industria è aumentata dell’85% mentre i salari solo del 35%. Per gli altri paesi sviluppati le statistiche sono simili. Dal 1999, la produttività del lavoro nel mondo è cresciuta due volte più veloce rispetto al salario medio. Quanto più l’operaio produce, tanto meno è il suo salario. 
Numeri che evidenziano le contraddizioni del capitalismo e la forte riduzione dell’influenza del movimento operaio organizzato in tutto il mondo; la forza collettiva dei lavoratori si è indebolita notevolmente negli ultimi decenni e la distribuzione del reddito nazionale avvantaggia fortemente i capitalisti, focalizzati alla massimizzazione della valorizzazione del capitale incrementando l’aggressività, riducendo il “costo del lavoro” in nome della competitività nel mercato.
Sono le leggi della via di sviluppo capitalistica, a cui solo un forte movimento operaio e comunista internazionale organizzato può dare un freno, nel cammino per il rovesciamento di questo sistema giunto nella sua fase parassitaria, putrescente e marcia, salvando l’intera umanità dalla barbarie, fatta di sfruttamento, guerra e disoccupazione di massa.

martedì 12 agosto 2014

Articolo 18 va abolito. Il governo Renzi si spacca

Alfano esce allo scoperto, dopo la pubblicazione dei dati dei maggiori enti internazionali sulla nostra economia. Il leader del Nuovo Centrodestra, in un'intervista a Repubblica, propone tre misure per il rilancio del paese, da inserire a fine agosto nello Sblocca Italia: pagare quindici miliardi di debiti della pubblica amministrazione entro fine settembre, delega fiscale, abolizione dell'articolo 18.
Su quest'ultimo punto si è già aperta una piccola disputa all'interno governo, ma Ncd sembra determinato ad andare avanti e propone la revisione del licenziamento illegittimo in temi brevi. Alfano, infatti, sottolinea che l'eliminazione della tutela è una necessità nel lungo periodo, ma allo stesso tempo è possibile abrogarla da subito per i neo-assunti. Ecco cosa ha detto il ministro degli Interni: "Proponiamo che nello Sblocca-Italia non valga l'articolo 18 per i nuovi assunti. Dobbiamo superarlo [...] basta con i totem e le ideologie di una certa sinistra [...] Quella tutela non è stata abolita finora perché ha retto un asse fra il Pd e i sindacati. Ma ormai è il momento di mettere davanti al resto la necessità di dare un lavoro a chi non ce l’ha, liberando da ogni laccio l’imprenditore che vuole assumere qualcuno’".
La risposta del ministro per la Pubblica Amministrazione non si è fatta attendere. Marianna Madia, sempre su Repubblica, ha commentato negativamente la presa di posizione del suo collega di governo: “L’articolo 18? Non è questo il problema. Se una cosa deve dividere tanto vale non dividersi. Se si potesse risolvere il dramma del lavoro cancellando l’articolo 18 lo avremmo già fatto. Ma non è così”.
La risposta dei sindacati, come prevedibile, non è stata meno tenera. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, ha subito mandato un messaggio chiaro ad Alfano: "l'articolo 18 è agitato ideologicamente, non risolve nessun problema in particolare rispetto all'occupazione. Anche qui il Governo si era presentato, il Presidente del Consiglio in particolare, dicendo che la soluzione era il contratto unico a tutele crescenti, che avrebbe dovuto sostituire tutte le altre forme di lavoro. Siamo ancora qui che aspettiamo".
Sulla stessa lunghezza d'onda Raffaele Bonanni. Il segretario della Cisl ha dichiarato: "Sulle modifiche all’articolo 18 si dibatte solo per un puntiglio ideologico, pur di sfuggire ai nodi veri del mercato del lavoro".
A sostenere la posizione di Madia e sindacati c'è anche il sottosegretario all’Economia del Pd, Pier Paolo Baretta. Quest'ultimo ha invitato i suoi colleghi a discutere di contratti, ammortizzatori e flessibilità in uscita. Mentre Luigi Bobba, sottosegretario al lavoro dei democratici, ha parlato di "annuncio simbolico" da parte di Alfano.
Tuttavia, a noi non pare una semplice boutade estiva. A tale riguardo, ricordiamo che a sostenere il ministro degli Interni pare esserci tutto il suo partito, che rivendica un ruolo più centrale nelle scelte dell'esecutivo. Gaetano Qaugliarello, coordinatore nazionale di Ncd, ha voluto rimarcare come il superamento dell'articolo 18 si ponga in un piano più ampio di riforme: "Servono riduzione della spesa, semplificazione e interventi sul mercato del lavoro". Tuttavia, rivedere la norma contenuta nello statuto dei lavoratori, nell'ambito di un'azione di rilancio dell'economia, appare un obiettivo irrinunciabile. Della stessa idea Maurizio Sacconi, che della sua opposizione alla tutela non ha mai fatto mistero in passato.
Così Alfano prova a reagire al "ritorno" di Berlusconi. Dopo la sentenza Rubi, il Cavaliere sa che può giocare su due tavoli, ponendosi come ago della bilancia per le riforme e come unica possibile alternativa di governo a Renzi. Se da un lato può mettere in seria difficoltà la sopravvivenza dei suoi ex alleati con la nuova legge elettorale, dall'altro sta già elaborando una strategia di opposizione economica per il prossimo autunno. Una strategia che potrebbe pagare, nel caso in cui il governo fosse obbligato ad una manovra aggiuntiva.
In questo scenario Alfano cerca di non farsi schiacciare. Per ricompattare il partito, diviso proprio sull'alleanza con Forza Italia, ha incominciato ad agitare temi cari alla destra: deregolamentazione del mercato del lavoro e abbassamento della pressione fiscale. Il tentativo è quello di sottrarli alla propaganda del Cavaliere, giocando d'anticipo.
Tuttavia, tutto ciò non potrà far emergere ulteriori fibrillazioni all'interno dell'esecutivo. Staremo a vedere cosa accadrà da qui a fine mese.

domenica 10 agosto 2014

IL PROBLEMA "LAVORO" DIMENTICATO NELL'AGENDA DI GOVERNO

L’Istat ha sentenziato che l’Italia è a tutti gli effetti in recessione tecnica. Ma di lavoro, neanche e a parlarne. E d’altronde come possono gli italiani pretendere il lavoro da uno che non ha mai lavorato e che per altro ha nominato ministro del lavoro un ‘collega’ che non ha mai lavorato?
Questo dato è sufficiente per prendere atto che in questi sei mesi il governo renziano non è riuscito a fare nemmeno una O col bicchiere al nostro economicidio. Quando invece, solo se ne avesse avuto la capacità e soprattutto la volontà – sempre che i suoi datori di lavoro della Troika glielo avessero consentito – avrebbe potuto almeno gettare le basi per avviarne la ripartenza.
Appare quindi ovvio che il parolaio di Firenze ha solo perso un sacco di tempo in chiacchiere per la riforma del Senato – che in relazione alle priorità del Paese conta come il due di picche quando Briscola è bastoni - che non interessa affatto agli italiani ai quali preme solo il lavoro. Perchè gli italiani sanno che il lavoro è libertà, che il lavoro è dignità ed è vita. Neanche a dirlo Renzi non anteporrà alcuna riforma per risolvere l’economicidio, ma dopo il risultato del Senato continuerà imperterrito con la riforma della legge elettorale.
Lavoro? Che roba é? E d’altronde come si può pretendere il lavoro da uno che non ha mai lavorato.

venerdì 8 agosto 2014

Per l’Italia si avvicina la fine

Qualcosa di esplosivo sta accadendo nei piani alti del mainstream italiano: a rompere il tabù, prospettando l’arrivo della famigerata Troika, il triumvirato tecnocratico composto da Commissione Ue, Bce e Fmi, è stato il direttore del “Corriere della Sera” Ferruccio De Bortoli. «Il direttore del “Corriere” ci descrive lo scenario che ci aspetta il prossimo autunno», «quando vedremo realizzarsi le peggiori nemesi nella manovra economica, che prevederà un probabile prelievo forzoso sui conti correnti». Sarebbe la riedizione del 1992, quando l’allora primo ministro Giuliano Amato «decise di approvare questo furto a danno del risparmio dei cittadini italiani». Solo allora «verrà dichiarata la resa ai tecnocrati». E sarà «messo in un angolo» il governo presieduto da Matteo Renzi, «che non ha vinto nessuna elezione democratica ma è stato nominato dal Capo dello Stato». Tutto questo, mentre i signori della Troika faranno all’Italia quello che fecero nel 2011 alla Grecia, che in cambio dei 50 miliardi ricevuti sta privatizzando tutto: sono all’asta «porti, aeroporti, isole e acquedotti».
È questa, «la forma più subdola e criminale con la quale il colonialismo finanziario distrugge e depreda gli Stati sovrani, ostaggi di un debito sovrano denominato in una valuta straniera che non possono stampare». Parole profetiche: «Datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi importa di chi farà le sue leggi», disse un certo Mayer Amschel Rothschild. Auspicio «portato a compimento nella moderna Eurozona», dal momento che «gli Stati ex-sovrani sono messi nelle condizioni di una colonia: per poter finanziare la propria spesa devono bussare alle porte dei colonizzatori, che vorranno in cambio la linfa economica degli Stati e prenderanno il possesso monopolistico di tutti i settori strategici di quel paese». L’Italia è già da tempo in vendita, e gli investitori stranieri stanno facendo man bassa dei suoi gioielli, «gentilmente offerti dal governo Renzi», come la Cassa Depositi e Prestiti, Poste Italiane (che dismetterà il 40% della partecipazione pubblica), nonché Eni e Enel, «che potrebbero cedere il 5% delle azioni.
Mentre gli italiani provano a godersi quei pochi spicchi di sole di quest’estate anomala, l’ipotesi che la Troika venga qui nel Belpaese non è più remota. «Il giorno dopo che De Bortoli ha annunciato questo scenario, Rcs fa sapere che non si avvarrà più della collaborazione del direttore. È stato infranto un vincolo di riservatezza, qualcosa che doveva essere taciuto è stato rivelato». Forse il direttore «ha pagato questa delazione», anche se «l’impressione è quella di un Ponzio Pilato che vuole lavarsi le mani del sangue degli italiani e non intende accollarsi la responsabilità morale di un disastro sociale ed economico senza precedenti». Non passano che pochi giorni dalle scioccanti dichiarazioni di De Bortoli che Eugenio Scalfari», fondatore di “Repubblica”, si augura una venuta della Troika che “deve combattere la deflazione che ci minaccia”».
Per Scalfari, la Troika – proprio lei, la massima responsabile dell’euro-disastro – deve «puntare su una politica al tempo stesso di aumento del Pil, di riforme sulla produttività e la competitività, di sostegno della liquidità e del credito delle banche alle imprese». Scalfari, che non ha ancora digerito la detronizzazione del suo beniamino Letta (con quale cenava, addirittura insieme a Draghi e Napolitano) non manca di inviare un messaggio a Renzi: «Capisco che dal punto di vista del prestigio politico sottoporsi al controllo diretto della Troika sarebbe uno scacco di rilevanti proporzioni, ma a volte la necessità impone di trascurare la vanagloria e questo è per l’appunto uno di quei casi». Parole chiare: caro Renzi, ti è stato affidato un compito ben preciso e non lo stai portando a termine come previsto.
«Questo il contenuto del messaggio che Scalfari manda al premier, al quale potrebbe essere dato il ben servito molto presto se non esegue pedissequamente le istruzioni che gli sono state date». E la fine che lo attende, se non “obbedisce”, «è quella dei suoi predecessori Monti e Letta, i quali sono stati gettati via come due scarpe vecchie appena diventati inutili». Nessuna sorpresa: «E’ il meccanismo infernale che ha progettato l’élite transnazionale che detesta gli Stati e i popoli che li abitano, considerati alla stregua di una plebe ignorante priva di diritti», «De Bortoli e Scalfari sanno molto bene quale sarà il trattamento che attende l’Italia e ne stanno discutendo nei primi giorni di agosto, mese ideale per sferrare l’ennesimo calcio nelle gengive agli italiani, distratti dalle vacanze». Al loro ritorno, «potrebbero trovare ciò che è stato conquistato
ieri dai loro padri completamente distrutto nel giro di pochi mesi oggi».

giovedì 7 agosto 2014

Riforme progettate per noi, docile bestiame da decimare

Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.
L’unico organo elettivo, cioè il Parlamento, ha poteri limitati, che preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un rendiconto), e la Matteo Renzisua natura di cagnolino da passeggio è stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente dell’Ue: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza. Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e la sua Costituzione devono essere riformate in questo senso per integrarsi nella struttura autocratica dell’Ue.
La seconda linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché Friedrich Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’Ue fa per contro tutto questo, Von Hayekanzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.
Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche. Quando la politica economica è affidata ai banchieri centrali, che, per statuto, deliberano e operano non solo in autonomia ma nella segretezza e nella irresponsabilità, la democrazia rappresentativa è finita, il consenso popolare è superato. Il risultato – prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che ora si prospetta pure per la Germania.
La Costituzione italiana del 1948 è, per contro, esplicitamente keynesiana: l’articolo 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’Ue e della Bce, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale. La storia della cosiddetta integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione di un modello socio-economico-istituzionale con un modello opposto, ossia dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia elettiva e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassitismo finanziario e autocrazia.
E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune, di promesso sviluppo che non arriva mai. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano, e pensano che le cause siano la corruzione o l’evasione o l’articolo 18. In Italia, oltre a queste piaghe, le due linee di riforme di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e artefici (soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla, deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per intervenire nella politica dei partiti) sul piano economico sta producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e cervelli, con la deindustrializzazione del Letta e Montipaese e la moria delle sue aziende (dirò poi perché queste loro azioni non vanno condannate, nemmeno moralmente).
La direzione, la finalità autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali, politici. Il modello economico in via di imposizione, con le sue riforme, non importa se produce recessione o stagnazione; il suo scopo reale e non detto non è la crescita, ma una riforma dell’ordinamento sociale e giuridico che assicuri il dominio sulla popolazione generale, la possibilità di sfruttarla senza limiti, l’estrazione da essa di rendite certe per il capitale finanziario anche in periodi di contrazione del Pil, e il tutto in modo formalmente legittimo. A questo servono le riforme. E le privatizzazioni, che ieri Padoan ha ripromesso, parlando in Cina, che verranno eseguite. Quindi è assurdo ciò che promette Renzi, ossia che queste riforme strutturali rilancerebbero l’economia. Possono solo rilanciare l’affarismo spartitorio e screditare ulteriormente il settore pubblico – e questo credo sia il vero obiettivo.
Attualmente in Italia abbiamo un programma di tagli alla spesa pubblica, una pressione fiscale che non può calare anche a causa dei 40 miliardi all’anno di riduzione del debito pubblico che il governo dovrà fare in esecuzione del Fiscal Compact, un reddito e una capacità di spesa in picchiata anche a causa dell’alta disoccupazione e maloccupazione, soprattutto giovanili; inoltre le banche stanno riducendo il credito alle imprese e alle famiglie e tengono altissimi i tassi: sanno che gli aspiranti mutuatari, data la mancanza di continuità del loro reddito, non avranno i mezzi per ripagare i prestiti, quindi logicamente non erogano prestiti, se non raramente e con spread altissimi, al decuplo dell’Euribor, per compensare il rischio – dicono. Quindi oggettivamente non ci sono le condizioni per un’uscita dalla depressione economica. Anzi, è in corso un avvitamento recessivo, che determinerebbe rendimenti altissimi sul debito pubblico, senonché qualcuno – la Bce e/o la Fed – comprando sul mercato secondario, e distorcendo il mercato, li tiene artificialmente bassi – come fa ancora più vistosamente con le nuove emissioni del debito pubblico greco.
Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano, promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata flessibilità, promette che l’Ue porta allo sviluppo – quando promette queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”, “il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire, mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato attraverso l’Ue e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro, sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri: consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio) sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il significato è: “se non ci lasciate riformare la Costituzione per Napolitanorealizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande finanza vi lascia senza soldi”.
Diversamente da altri, io non biasimo moralmente i progettisti e gli autori di quanto sopra. Non dico che sono criminali perché sacrificano il 99% della popolazione agli interessi dell’1%. Infatti, il loro modello socioeconomico deflativo-parassitario-autocratico è più adeguato a ciò che i popoli sono, al loro effettivo livello mentale e di consapevolezza, che non è molto diverso da quello del bestiame, come dimostra la bovina docilità con cui si lasciano “riformare”. Il modello democratico, e anche il modello (post)keynesiano, presuppongono che l’uomo mediano e il popolo siano qualcosa che in realtà non sono affatto, quindi semplicemente non possono funzionare. Il modello socioeconomico deflativo ha, inoltre, il vantaggio di riuscire a imporre coercitivamente e dall’alto, di fronte al raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo e alla necessità di ripiegare, la necessaria decrescita ecologica dei consumi e della stessa popolazione, che in regime di democrazie nazionali non si potrebbe ottenere.

martedì 5 agosto 2014

IL NUOVO POPULISMO DI RENZI

Ai tempi del suo indi­scusso pro­ta­go­ni­smo, sull’altalena dello spread ci si acca­lo­rava in ogni bar d’Italia tanto quanto sul cam­pio­nato di cal­cio. Eppure si trat­tava di un argo­mento non privo di risvolti meta­fi­sici e di com­pli­ca­zioni tecniche.
Le riforme isti­tu­zio­nali non sem­brano godere di altret­tanto suc­cesso di pub­blico. Non capita spesso in un auto­bus affol­lato o tra gli avven­tori di un caffè di cogliere appas­sio­nate discus­sioni sulle com­pe­tenze del senato della repub­blica o i premi di mag­gio­ranza. La spie­ga­zione più ovvia e dif­fusa è che la vita quo­ti­diana dei più impone pre­oc­cu­pa­zioni e urgenze assai diverse dal ridi­se­gno delle archi­tet­ture istituzionali.
Para­dos­sal­mente, tut­ta­via, il gene­rale fasti­dio dei cit­ta­dini per que­sti temi fini­sce con l’entrare in con­so­nanza pro­prio con quel deci­sio­ni­smo ren­ziano che ne san­ci­sce l’assoluta prio­rità. Come si spiega que­sta sin­go­lare combinazione?
In primo luogo l’insofferenza riguarda soprat­tutto il pro­trarsi di una discus­sione rite­nuta del tutto irri­le­vante per le con­di­zioni di vita impo­ste dalla crisi. Da cui con­se­gue una natu­rale pro­pen­sione per chi, pur avendo capar­bia­mente posto la que­stione, intenda tagliar corto e pas­sare oltre. Anche se di que­sto “oltre” non si per­ce­pi­sce alcun indi­zio con­so­lante. Su simili stati d’animo Renzi può senz’altro con­tare nono­stante il fatto che buona parte degli “insof­fe­renti” si ten­gono sem­pre più spesso e volen­tieri alla larga dalle urne.
All’attuale pre­mier si deve rico­no­scere il fatto di avere preso sul serio più di chiun­que altro la “crisi della rap­pre­sen­tanza” e il suo radi­ca­mento strut­tu­rale nell’economia libe­ri­sta e nelle forme sociali che ne sono per­vase. E di avere avviato una sta­gione poli­tica che si pro­pone il nean­che tanto pro­gres­sivo sman­tel­la­mento della rap­pre­sen­tanza e del suo uni­verso pro­ce­du­rale. Anche se, a onor del vero, molti si sono pro­di­gati negli ultimi trent’anni ad aprir­gli la strada e oggi trovi al suo fianco quella vec­chia destra comu­ni­sta che la demo­cra­zia l’ha sem­pre intesa come ordine e disci­plina. Si per­dono ormai nella notte dei tempi le prime allar­mate denunce dell’eccessivo ricorso ai decreti legge in nome della cra­xiana “governabilità”.
La sini­stra più tra­di­zio­nale ha sem­pre for­te­mente sot­to­va­lu­tato il pro­blema, rite­nendo che quella crisi fosse dovuta a stor­ture ed errori poli­tici che pote­vano essere cor­retti. Non si con­tano gli appelli a «ritor­nare tra i cit­ta­dini e i loro pro­blemi quo­ti­diani», non­ché le auto­cri­ti­che di maniera della cosìd­detta “casta”. Fatto sta che la sini­stra si è illusa (e ha illuso) che la rap­pre­sen­tanza potesse essere rista­bi­lita dalla “buona poli­tica” senza tener conto del fatto che la com­po­si­zione sociale su cui pog­giava la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva del dopo­guerra era ormai com­ple­ta­mente sba­ra­gliata. Pre­ten­dendo che la demo­cra­zia potesse essere sal­va­guar­data, e addi­rit­tura estesa, senza toc­care gli inte­ressi domi­nanti (di cui oggi si nega per­fino l’esistenza) e la sem­pre più evi­dente strut­tura oli­gar­chica della società, la quale non avrebbe sop­por­tato nean­che il più pal­lido riflesso della tra­di­zione social­de­mo­cra­tica. Per non par­lare del sistema fiscale più ini­quo del mondo che stran­gola i ceti medi e medio-bassi, allar­gando a dismi­sura la for­bice sociale. In que­ste con­di­zioni era ine­vi­ta­bile che la reto­rica della rap­pre­sen­tanza venisse vis­suta come lo stru­mento di auto­con­ser­va­zione di una classe poli­tica meri­te­vole di “rot­ta­ma­zione”. Mat­teo Renzi, forse più per istinto che per ragio­na­mento poli­tico, non solo ha preso sul serio la crisi della rap­pre­sen­tanza, ma la pra­tica e cerca di darle una forma che la porti a com­pi­mento, avendo buon gioco nell’indicare l’illusorietà di qua­lun­que ipo­tesi di ritorno al pas­sato. In que­sto è all’altezza dei tempi e in que­sto trova la sua forza.
Vi è tut­ta­via, nella sua poli­tica, un ele­mento di debo­lezza altret­tanto deci­sivo. Si imputa spesso al capo del Pd di essere un popu­li­sta. Il ter­mine viene usato fre­quen­te­mente a spro­po­sito. Ma gene­ral­mente con lo scopo di sot­to­li­neare l’enfasi posta sul rap­porto diretto tra il lea­der e gli elet­tori (il cosìd­detto “popolo sovrano”) smi­nuendo il ruolo delle isti­tu­zioni e della col­le­gia­lità par­ti­tica; per indi­care il ruolo deci­sivo del talento e delle stra­te­gie media­ti­che, non­ché la capa­cità dema­go­gica di indi­vi­duare quelle misure che con poca spesa, e ancor meno sostanza, pos­sano garan­tire il mas­simo del consenso.
Anche il popu­li­smo sto­rico e il fasci­smo (che pure non è inte­ra­mente sovrap­po­ni­bile al primo) si nutri­vano di que­sti ele­menti. Tut­ta­via si trat­tava di espres­sioni poli­ti­che stret­ta­mente legate a un con­te­sto di eco­no­mia indu­striale e di moder­niz­za­zione dell’agricoltura e delle infra­strut­ture. Alla reto­rica nazio­nal­po­po­lare e alla tra­sfor­ma­zione auto­ri­ta­ria del sistema poli­tico si accom­pa­gna­vano impo­nenti rea­liz­za­zioni di carat­tere mate­riale o sociale (boni­fi­che, colo­nie, indu­strie sta­tali, edi­li­zia, pre­vi­denza, per non dire del riarmo). Que­sta base mate­riale man­che­rebbe quasi inte­ra­mente al cosìd­detto popu­li­smo con­tem­po­ra­neo. Le pro­ie­zioni eco­no­mi­che e l’andamento di tutti gli indi­ca­tori lo esclu­dono in maniera piut­to­sto netta. Gli scarni dati su una lieve fles­sione della disoc­cu­pa­zione e le discu­ti­bili misure “svi­lup­pi­ste” pro­messe non sem­brano capaci di inci­dere in nes­sun modo sulla ten­denza alla sta­gna­zione e all’impoverimento. Cosic­ché di “popu­li­smo” non sarebbe pro­ba­bil­mente il caso di parlare.
Tut­ta­via, abban­do­nando ogni rife­ri­mento impro­prio ai pre­ce­denti sto­rici e rife­ren­dosi esclu­si­va­mente a quelle carat­te­ri­sti­che che molti riten­gono acco­mu­nare Renzi a Ber­lu­sconi ci si potrebbe doman­dare se possa darsi una forma di “popu­li­smo” nel tempo del capi­ta­li­smo finan­zia­rio e in cosa si distin­gua da quello cre­sciuto nel e col capi­ta­li­smo indu­striale. Azzar­diamo una rispo­sta prov­vi­so­ria: il “popu­li­smo”, nel senso restrit­tivo che abbiamo indi­cato, può darsi oggi nei ter­mini di una “bolla spe­cu­la­tiva”. Inten­dendo con que­sto un pac­chetto “tos­sico” di pro­messe e di pro­spet­tive, di sug­ge­stioni e di esi­bi­zioni capace di ren­dersi cre­di­bile, appe­ti­bile e facil­mente spen­di­bile sul mer­cato poli­tico, indi­pen­den­te­mente dai suoi con­te­nuti mate­riali, qua­lora ve ne siano. Il che non signi­fica affatto che si tratti di un feno­meno effi­mero che si sgon­fierà lasciando le cose come le ha tro­vate. Non è così in eco­no­mia e non è così in poli­tica, come l’esperienza del ven­ten­nio ber­lu­sco­niano ci ha dimo­strato. Ed esat­ta­mente come accade nel capi­ta­li­smo finan­zia­rio, l’esplosione di una bolla ne genera un’altra. Con carat­te­ri­sti­che diverse, ma con il mede­simo scopo: l’accumulazione di denaro o l’accumulazione di potere.
Lasciando ogni volta sul ter­reno non poche vit­time. Così quando la “bolla” ren­ziana, del tutto priva di risorse, scop­pierà sbat­tendo con­tro que­sto o quello spun­zone, non vuol dire che lascerà spa­zio alla restau­ra­zione di una rap­pre­sen­tanza che ha perso la sua base sociale. La difesa degli equi­li­bri isti­tu­zio­nali del dopo­guerra senza un pro­gramma poli­tico che incida sulle con­di­zioni di vita e i rap­porti sociali, senza atten­zione all’affermarsi di nuove sog­get­ti­vità che poco ne erano garan­tite, sconta un livello di astra­zione eguale e con­tra­rio al deci­sio­ni­smo che si accinge a rot­ta­marli sulla base di una misti­fi­ca­zione gene­ra­zio­nale, senza sfio­rare i rap­porti di forze che si sono con­so­li­dati nel corso della crisi.

domenica 3 agosto 2014

Le sanzioni economiche colpiranno l'Europa più che la Russia

I ministri degli Esteri dell'UE, riuniti a Bruxelles il 24 luglio, hanno approvato un nuovo catalogo di sanzioni contro la Russia. L'ambasciatore russo ha ammonito più volte che le nuove misure UE si ritorceranno contro l'Occidente. Gli esperti più competenti in Occidente sono dello stesso parere.
Si fa notare sul Guardian quanto siano dipendenti le economie dell'UE dall'export in Russia. Nel 2013 il commercio con la Russia è stato di 66 miliardi di Euro per la Germania, 37 miliardi per l'Olanda, 30 miliardi per l'Italia, 27,6 miliardi per la Polonia, 18 miliardi per la Francia e 12,6 miliardi per il Regno Unito. Prima delle sanzioni, la Camera di Commercio tedesca aveva già proiettato un 10% di calo del commercio con la Russia ed una perdita di 4 miliardi per il 2014.
Le nuove sanzioni "proibiscono a qualsiasi soggetto UE di investire nel debito sovrano, equity o altri strumenti finanziari con una maturità superiore a 90 giorni emessi da istituti finanziari di proprietà dello stato russo una volta che entreranno in vigore le misure restrittive ovunque nel mondo" sentenzia la bozza del documento UE. È chiaro il tentativo di tagliare fuori la Russia dai mercati del debito pubblico, e di bloccare gli accordi a lungo termine, in particolare perché la Sberbank, principale partner delle banche tedesche nel concedere prestiti a piccole e medie imprese della Bundesrepublik, è sull'elenco delle sanzioni.
Informata del nuovo catalogo di ulteriori sanzioni, l'Associazione Tedesca delle Piccole e Medie Imprese ha espresso la sua netta opposizione. Il presidente dell'associazione ha dichiarato che "chiunque esiga sanzioni contro la Russia mette a rischio 300.000 posti di lavoro in Germania, in ultima istanza". La Russia, invece, può sostituire l'Europa con la Cina, ha aggiunto.
Come aveva già fatto il ministro degli Esteri francese, ha denunciato l'"ipocrisia" del governo britannico che chiede un atteggiamento più duro contro Mosca, ma non ha annullato neanche uno dei suoi 250 accordi militari con la Russia. I francesi sono riusciti ad ottenere l'esenzione delle navi portaelicotteri Mistral dall'elenco delle sanzioni, ma a quanto pare l'Italia ha ceduto alle pressioni britanniche sospendendo la cooperazione con la Russia nella costruzione del sottomarino S-1000, anche se ricorrendo a motivazioni burocratiche.

venerdì 1 agosto 2014

Lo Stato italiano fantoccio che piace all’Ue

Mentre fioccano dati sempre peggiori in campo economico, i partiti italiani, quasi tutti, si uniscono per approvare un insieme di riforme che niente hanno a che fare con l’efficienza e la competitività e il rilancio economico del paese, ma che tutte servono a diminuire la partecipazione democratica dei cittadini, il controllo giudiziario indipendente sull’operato dei politici e ad aumentare il potere della partitocrazia nonché, soprattutto, la sua capacità di mangiare addosso alla gente, indisturbata e impunemente. La casta ladra vuole meno interferenze dei cittadini e dai magistrati. Ecco l’elenco delle riforme in questione. Aumento da 50.000 a 250.000 delle firme per le leggi di iniziativa popolare. Aumento da 500.000 a 800.000 delle firme per proporre un referendum abrogativo. Restrizione del referendum abrogativo alle sole norme che non siano connesse ad altre – quindi a ben poche. Abolizione della eleggibilità popolare dei consiglieri provinciali, che ora vengono nominati da organi di partito. Abolizione della eleggibilità popolare dei senatori, che ora vengono nominati pure dai partiti.Senato riorganizzato in modo da fungere da moltiplicatore di spesa pubblica, soprattutto regionale. Camera interamente dominata dai segretari dei partiti – praticamente non vi è più una Camera che rappresenti il popolo. Esclusione di milioni di elettori di piccoli partiti dalla rappresentanza nella Camera. Segretario del partito di maggioranza relativa che, anche solo sulla base del 20 o 22% dei voti, decide tutto. Presidente della Repubblica nominato praticamente dal segretario del partito di maggioranza. Corte Costituzionale e Csm indirettamente nominati, in buona parte, dal segretario del partito di maggioranza. Commissioni di controllo controllata dal segretario del partito di maggioranza. Controllo partitico aumentato sulle Procure della Repubblica.Bisognava trovare una soluzione a tutti questi scandali, dal Mose all’Expo all’Aquila. Bisogna impedire che vengano alla luce quello della sanità di certe Regioni e dell’alta velocità. Gli apparati dei partiti devono potere fare in sicurezza e il loro lavoro di prelievo sulle risorse pubbliche. Facile unire tutte o quasi le forze partitiche intorno a siffatti interessi. Il campionato mondiale di calcio doveva fornire opportuna distrazione dell’opinione pubblica dal lavoro di trattative necessario per realizzare questa serie di riforme, ma la Nazionale ha sfloppato. Per fortuna una distrazione alternativa è stata trovata nella vicenda di Yara Gambirasio con il caso Bossetti, reso ancor più appassionante dai risvolti adulterini e genetici.Non dimentichiamo che questo Parlamento può continuare nelle sue suddette riforme grazie al fatto che la Corte Costituzionale, con la famosa sentenza 1/2014, nel dichiarare l’illegittimità della sua elezione con quel premio di maggioranza che appunto consente oggi queste riforme, ha violato l’articolo 136 della Costituzione che stabilisce che le norme dichiarate costituzionalmente illegittime perdono subito efficacia. Ha violato questo articolo, e si è contraddetta, affermando che questo Parlamento, che legifera grazie ha un premio di maggioranza incostituzionale, però legittimò e legittimato anche a fare le riforme costituzionali. Quanto sopra sarebbe abbastanza per costringere questo Stato-pagliaccio a rinunciare alla presidenza semestrale dell’Unione Europea per palese indegnità e violazione dei principi basilari della legalità e della democrazia. Ma ai tecnocrati dell’Unione Europea torna utile proprio uno Stato-pagliaccio e una serie di riforme che consente di derubare meglio gli italiani del loro risparmio e delle altre risorse rimaste. Fate le valigie, finché avete ancora qualcosa da metterci dentro