mercoledì 30 luglio 2014

LA GUERRA GIUSTA SECONDO ISRAELE

«Non esiste guerra più giusta di questa». Lo ha dichiarato in conferenza stampa il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu. «Sono necessari coraggio e determinazione per combattere un gruppo terrorista che vuole la nostra distruzione», ha aggiunto, affermando che l'operazione delle forze armate israeliane non si fermerà finché non saranno neutralizzati i tunnel che collegano la Striscia di Gaza a Israele. «Dobbiamo prepararci a una campagna prolungata, fino a che la nostra missione non sarà realizzata. Questa operazione non sarà conclusa fino a che non avremo neutralizzato i tunnel».
Già la guerra di per sè non è giusta. Se poi si uccidono indiscriminatamente centinaia di uomini, donne e bambini innocenti non si capisce dove è la giustizia! Gli sforzi diplomatici in corso sanno tanto di ipocrisia, compreso l’ennesimo appello del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che ha chiesto «un cessate il fuoco immediato e incondizionato». Il governo israeliano va avanti senza che nessuno a livello internazionale gli "imponga" di fermarsi davvero.
Anche nella giornata di ieri si sono registrate nuove vittime soprattutto tra i bambini. Il bilancio più grave arriva dal campo profughi di Shati, dove sono stati uccisi almeno 10 persone, di cui 8 bambini che giocavano in un parco giochi. Il più grande aveva 13 anni. Anche una quarantina di feriti, tra cui una ventina i bambini. Secondo alcuni testimoni a provocare la strage sono stati 5 missili lanciati da un F-16 israeliano. 
Dopo 21 giorni di sangue le vittime palestinesi hanno raggiunto quota 1.065.

lunedì 28 luglio 2014

RIDARE LA MONETA ALLO STATO

Il monopolio della banca centrale nell'emettere moneta in tempi di crisi provoca più problemi di quanti ne risolve.
Nel sistema economico attuale la moneta che definiremo "pubblica" è creata da banche centrali indipendenti dal potere politico, mentre lo Stato non può stampare moneta ma può agire esclusivamente attraverso il debito, un tipo di intervento che alla lunga può diventare insostenibile. D'altra parte, le banche private per mezzo del credito hanno la possibilità di creare liberamente una moneta che si può considerare di origine "privata".
Più precisamente, quando c'è crescita le banche private tendono a concedere prestiti molto generosi amplificando l'espansione, ma quando scoppia una crisi queste banche esasperano le difficoltà poiché in presenza di aspettative negative restringono il credito e quindi riducono l'offerta di moneta all'economia reale.
E' proprio durante una crisi che diventa cruciale il ruolo della moneta pubblica per sostenere l'economia.
Ma chi ha detto che il monopolio dell'emissione di moneta pubblica in capo alla banca centrale rappresenta il sistema più efficiente per contrastare una crisi? Perché lo Stato non può creare moneta in una fase di crisi? Se consideriamo il patrimonio economico e la legittimazione democratica, lo Stato è in grado di dare garanzie ben maggiori sul valore della moneta rispetto alle banche centrali che possiedono lingotti d'oro e non hanno nessuna responsabilità sociale.
Se lo Stato creasse moneta la banca centrale ne perderebbe il monopolio. Per questo la proposta che abbiamo fatto è eversiva: i titoli di Stato dovrebbero funzionare non solo come riserva di valore ma anche come strumento di pagamento e cioè dovrebbero circolare ed essere scambiati sul mercato per finanziare spese correnti e in conto capitale.

Eppure vi sono esperienze storiche in cui lo Stato ha creato la moneta: ai tempi di Abraham Lincoln negli Stati Uniti e con Hjalmar Schacht, ministro dell'Economia nonché Presidente della Reichsbank nella Germania degli anni trenta. Il presidente Lincoln aveva bisogno di denaro per finanziare la guerra civile e i banchieri internazionali gli offrirono un prestito al 24-36% di interesse; Lincoln rifiutò la loro richiesta perché non voleva gettare la nazione in un debito insostenibile e avanzò una proposta al Congresso affinché approvasse una legge che autorizzasse a stampare banconote del Tesoro degli Stati Uniti.
Così Lincoln ignorò le pressioni dei banchieri e fece stampare oltre 400 milioni di dollari per pagare i soldati e gli impiegati e per comprare le forniture per la guerra. Le banconote statali permisero di finanziare le spese militari dell'esercito nordista che nel giro di un paio di anni riuscì a prevalere sulla confederazione sudista.
Oggi dobbiamo considerare la possibilità di superare il monopolio delle banche centrali che, essendo indipendenti dai governi democraticamente eletti, non hanno alcuna responsabilità sociale e lavorano con altri obiettivi rispetto a quello di assicurare il benessere collettivo.
Mettere in discussione il monopolio della banca centrale è un'idea che va contro tutte le convinzioni dominanti. Però, non possiamo nasconderci che in questa fase di crisi prolungata il sistema attuale non sta funzionando: gli Stati non possono continuare a espandere l'indebitamento per creare lavoro e assicurare un reddito dignitoso a tutti poiché il costo del debito impedisce l'espansione dell'economia. Il debito pubblico è diventato ormai una forma di schiavitù che sta mettendo a rischio l'esistenza dello stato sociale e la possibilità di realizzare una convivenza civile nella maggior parte delle società occidentali.
Se fosse emessa una moneta statale - i titoli pubblici lo potrebbero essere - verrebbe intaccato il monopolio della Banca centrale europea, colpendo alle fondamenta l'edificio della moneta unica. Sarà la storia a dire se l'euro riuscirà a sopravvivere senza che vi siano cambiamenti radicali, oppure se sarà destinato a crollare sotto il peso di una disoccupazione e di una povertà insostenibili.

domenica 27 luglio 2014

GLI USA CONTRO I RUSSI

Siamo a Cipro. Una decina di uomini vestiti di nero entrano nella banca FBME e la "sequestrano".
Assomiglia a una scena del film Matrix e visto il surrealismo del precipitarsi degli eventi internazionali, potrebbe esserlo.
Gli uomini vestiti in completo nero dipendono dalla Banca Centrale di Cipro (CBC), e prendono il controllo della FBME perché un’ignota agenzia governativa americana ha diffuso un documento nel quale la FBME è accusata di riciclare denaro sporco.
In questa banca… e i generale a Cipro … casualmente, moltissimi cittadini russi detengono enormi fortune.
Tenete a mente: non ci sono prove che è stato commesso questo reato, non c’è stata nessuna udienza in un qualsiasi tribunale, non esiste un capo d’accusa e nemmeno il Governo cipriota ha contestato qualcosa alla banca.
C'era solo un rapporto generico scritto a 10 mila miglia di distanza. da qualche burocrate.
La cosa divertente è che quando la HSBC, lo scorso anno, è stata colta in fragrante a riciclare fondi per un cartello della droga messicano, il governo degli Stati Uniti si è limitato a una reprimenda e alla fine la banca se l’è cavata con un multa.
Eppure, quando il governo americano si limita a suggerire che l'FBME potrebbe essere coinvolta in un riciclaggio di soldi, la banca viene immediatamente presa di mira.
Benvenuti nella guerra nel 21esimo secolo. Non si tratta di navi da guerra, truppe di terra e altro di simile.
Questa volta gli avversari che si stanno combattendo tra di loro utilizzano quello che colpisce in ultima analisi tutti: i soldi.
E su questo campo di battaglia gli Stati Uniti in realtà non hanno molte opzioni.
- Le banche americane ancora costituiscono il nucleo del sistema finanziario globale, ma stanno per essere sostituite rapidamente .
- Proprio la scorsa settimana le nazioni appartementi ai BRICS si sono incontrate a Fortaleza, in Brasile per lanciare l'inizio di un nuovo “brand” alternativo all'attuale, un sistema finanziario non più a egemonia Usa.
- Gli Stati Uniti sono ancora la più grande economia del mondo, ma probabilmente entro la fine dell'anno. perderanno il primo posto a scapito della Cina.
- Il dollaro è ancora la valuta più utilizzata nel commercio mondiale, ma anche i più stretti alleati dell'America (Canada, Europa occidentale) hanno inziato a riconoscere che è arrivato il momento di andare oltre al dollaro.
Così, mentre gli Stati Uniti sono ancora in giro a far la voce grossa, il fiato si sta rapidamente affievolendo .
La loro unica tattica è quella di attaccare a casaccio interessi russi ovunque si possa.
Stanno sanzionando le imprese russe. Stanno cercando di mettere il bastone fra le ruote al sostegno internazionale alla Russia. E adesso hanno inziato a saccheggiare asset russi depositati in altre nazioni sovrane.
Immaginate di essere il Qatar. O la Cina. O il Kuwait. O Singapore. O chiunque altro che detiene ingenti somme di debito USA.
Tutti questi paesi capiscono la lezione forte e chiara: quando agli Stati Uniti non vai a genio, faranno tutto il possibile per renderti la vita difficile.
Questo ispira fiducia? Se siete in possesso di centinaia di miliardi di dollari di titoli del Tesoro USA, fa davvero migliorare il vostro livello di fiducia negli Stati Uniti?
Probabilmente no.
Cercando di terrorizzare gli interessi russi, l'amministrazione Obama sta implorando il resto del mondo a riconsiderare la loro fiducia, mal riposta, negli Stati Uniti.
Tutti questi paesi stranieri che hanno veramente a che fare con gli Usa, se vogliono rivalersi è iniziare un dumping dei loro titoli di stato americani. O semplicemente smettere di reinvestirli quando i proventi maturano.
Ciò causerà conseguenze catastrofiche negli Stati Uniti. I tassi di interesse salgono, l'inflazione inizierà a manifestarsi, e il governo sarà di nuovo vicino al default più di quanto non lo sia già.
Inspiegabilmente, Mr, Obama sta praticamente implorando il mondo a fare questo. Questo è un atto terribilmente arrogante.
C'è un'equivalenza tra la guerra economica d Obama e l'esercito esausto in Russia che Napoleone pomposamente portò a una dura prova.
E né Napoleone né Obama hanno valutato le vaste conseguenze che queste decisioni potrebbe portare.
Con oltre i 17 mila miliardi di dollari, di debito pubblico, intorno al 105% del pil, gli Stati Uniti stanno cercando di scatenare una guerra economica senza munizioni. E questa azione non è certo positiva per loro.

venerdì 25 luglio 2014

Sei povero? Tranquillo, la riforma del Senato è pronta

Chissà come sono contenti della riforma del Senato i sei milioni e ventimila poveri assoluti d’Italia, aumentati nell’ultimo anno di un milione e 206 mila unità. E chissà come sono entusiasti del nuovo corso i dieci milioni di poveri “relativi” e come gongolano vedendo che le priorità di chi li governa riguardano il castigo per i senatori dissidenti, le mediazioni di Calderoli e il patto del Nazareno. Faranno la òla, altroché, di fronte al nuovo che avanza. Per ora il “nuovo” è che loro aumentano a ritmo spaventoso, e un altro “nuovo” è che la povertà – anche quella assoluta – riguarda anche gente che lavora. Come dire che il disagio e l’indigenza non sono più (da un bel pezzo) faccende di marginalità, ma componenti strutturali del paese (il 10% di poveri assoluti, quasi il 15% di poveri relativi), componenti strutturali a cui si presentano priorità come “governabilità”, “stabilità” e non, come si sarebbe detto un tempo, pane e lavoro.
I dati Istat diffusi ieri, come spesso fanno i numeri, specie se spaventosi, fanno un po’ di giustizia di tanti discorsetti teorici. Uno su tutti: l’eterna, Renzinoiosissima, stucchevole diatriba su destra e sinistra. Categorie vecchie: ora va di moda il sopra e sotto, il di fianco, l’oltre, e altre belle paroline utili all’ammuina. Poi, in una pausa della creatività ideologica corrente, arrivano quei numeri a ricordare che la forbice della diseguaglianza continua ad aprirsi, che i poveri aumentano (di moltissimo) e che il paese è ormai due paesi: chi ce la fa e chi non ce la fa. Con in mezzo chi ce la fa a fatica e vive nel terrore del passaggio di categoria, verso la retrocessione, ovviamente. A questi ultimi sono andati gli 80 euro di Renzi: un po ’ di ossigeno ai “quasi poveri” che un tempo si sarebbero detti ceto medio.
I numeri dell’Istat sono il solo vero discorso politico sentito in Italia negli ultimi mesi. L’unico che meriti di essere approfondito, un filino più serio dei pranzetti con Verdini, degli incontri in streaming, della pioggia di emendamenti sulla riforma della Costituzione. Un discorso che dovrebbe parlare anche a quella sinistra dispersa e bastonata che si oppone (ah, si oppone?) alle larghe e larghissime intese. Un solo punto, un solo programma, basta una riga: ridurre le distanze, attenuare le differenze, diminuire le diseguaglianze. Le cifre dell’Istat – e le persone che mestamente ci stanno dietro – indicano l’unica vera priorità del paese, altro che Italicum. E sarebbe interessante capire, sia detto per inciso, quanti di quei milioni di nuovi Alessandro Robecchipoveri, assoluti o relativi, sono scivolati indietro a causa dell’affievolirsi della parola “diritti”. Parola vecchia, bollata come conservatrice.
E così non è più un diritto il lavoro, non è più un diritto la casa, e di scivolata in scivolata, la povertà diventa questione privata, colpa individuale e non, come dovrebbe essere, piaga pubblica e sociale. Il “governo più di sinistra degli ultimi trent’anni” (cfr. Matteo Renzi, febbraio 2014) non solo ha altre priorità, ma pare intenzionato a intaccare alcune forme di welfare (la cassa integrazione in deroga, per dirne una) facilitando, e non contrastando, lo scivolamento verso l’indigenza di altre centinaia di migliaia di italiani. Per questo i numeri dell’Istat sono il solo vero discorso politico sentito negli ultimi tempi: dicono di come oggi una sinistra che lotti contro le diseguaglianze non esista, e di quanto invece ce ne sarebbe bisogno. Come il pane. Appunto.

giovedì 24 luglio 2014

Il patetico tentativo di Washington di isolare la Russia

Nel suo tentativo di isolare la Russia, la Casa Bianca ha isolato Washington.
Le sanzioni unilaterali da parte degli USA annunciate da Obama il 16 Luglio, che bloccherebbero l’accesso al credito statunitense per le imprese dei settori strategici della Russia, dimostrano l’impotenza di Washington.
Il resto del mondo, incluso le maggiori organizzazioni statunitensi ha voltato le spalle ad Obama, la Camera di Commercio degli Stati Uniti e l’associazione nazionale degli industriali hanno infatti pubblicato annunci a pagamento nei giornali. come il New York Times, il Washington Post, The Wall Street Journal, protestando contro queste sanzioni con effetto a doppio taglio. L’ultima di queste organizzazioni si è mostrata molto sconcertata per il fatto che gli USA amplino le sanzioni in forma unilaterale, cosa che affosserà molti degli accordi commerciali statunitensi.
Tre sono gli aspetti molto caratteristici di Wahington- l’arroganza, l’orgoglio e la corruzione- che la trasformano in un soggetto instabile.
Quando affrontano una qualche resistenza, rispondono con corruzione, minacce e coercizione.
La diplomazia richiede di essere pronti per apprendere, tuttavia Washington ha lasciato la diplomazia da un lato già da anni, e confida soltanto nella forza.
Non vi sono dubbi sul fatto che le menzogne di Washington circa le armi di distruzione di massa in Iraq o l’utilizzo di armi chimiche da parte di Assad, le armi nucleari iraniane, siano tutte percepite come tali da altri governi. 
Queste menzogne sono state impiegate da Washington per distruggere certi paesi e per minacciarne o distruggerne altri, apportando nel mondo una situazione di costante confusione.
Tuttavia il problema è che Washington non offre alcun vantaggio che possa compensare questa confusione. L’amicizia con Washington richiede l’ottemperare a tutte le esigenze di Washington, da questo i governi traggono la conclusione che questa amicizia non ha molto valore.
Vi sono indizi precisi anche di una operazione tipica di Washington e delle modalità di operare degli americani nelle conclusioni precipitose tratte sulle circostanze dell’abbattimento del volo MH17 nell’est dell’Ucraina.

martedì 22 luglio 2014

LA PACE IMPOSSIBILE

Oltre quattrocento morti palestinesi, più di duemila feriti e 55mila sfollati, cui vanno aggiunte due vittime israeliane: è questo il bilancio provvisorio dei primi 12 giorni dell’offensiva israeliana a Gaza che è entrata nel vivo giovedì 14 con l’invasione terrestre della Striscia da parte dell’esercito israeliano. Ufficialmente l’operazione ha lo scopo di interrompere i lanci di razzi Qassam da parte di Hamas, ma il vero scopo di Israele è quello di spezzare l’unità del popolo palestinese, riconquistata con l’entrata della stessa Hamas nel governo di unità nazionale palestinese e mantenere Hamas al potere nella Striscia, (seppur militarmente indebolita) in modo da giustificare la “prigione a cielo aperto” che Gaza è diventata dopo il disimpegno israeliano dell’estate del 2005.
Per comprendere appieno la strategia di Tel Aviv nella sua dichiarata guerra contro il terrorismo è necessario comprendere la natura del conflitto israeliano-palestinese, nonché l’essenza stessa del sionismo. Nonostante Israele abbia sempre cercato di descrivere il conflitto come uno scontro religioso o ideologico, infatti, la natura dello scontro è sempre stata di carattere demografico.
Agli albori del sionismo, quando Theodor Herzl teorizzò la creazione di uno stato ebraico in Palestina, si pose il problema della popolazione araba che era largamente maggioritaria nei territori in cui doveva sorgere lo Stato degli ebrei. Rovesciare questo dato demografico e creare una maggioranza ebraica dal fiume Giordano al Mare è sempre stato lo scopo ultimo del sionismo. Per raggiungere questo scopo il sionismo ha utilizzato tutti i mezzi possibili, dall’immigrazione di massa durante il mandato britannico al terrorismo per spingere la popolazione araba ad abbandonare le proprie case fino all’occupazione e colonizzazione della Cisgiordania, con conseguenti misure oppressive per il popolo palestinese, volte non a tutelare la sicurezza degli israeliani ma a rendere impossibile la vita ai palestinesi, per convincerli a trasferirsi in uno qualsiasi degli stati arabi esistenti.
Nonostante questa politica di pulizia etnica mascherata, portata avanti nel silenzio complice dell’Occidente per oltre sessant’anni, il numero di palestinesi tra il Giordano e il mare, ossia in quei territori che Israele rivendica come suoi per diritto divino, non solo non è diminuito, ma al contrario è aumentato fino a raggiungere i 6 milioni di persone, divise tra Cisgiordania, Gaza e la stessa Israele, dove vivono attualmente circa un milione e mezzo di palestinesi.
Vista l’impossibilità di cancellare la presenza araba i sionisti hanno dovuto ripiegare su una soluzione differente, ossia quella di concentrare quanti più arabi possibili in piccoli spazi e annettere tutti i territori rimanenti. Si comprende facilmente che questa strategia, che ha come scopo la colonizzazione e annessione di vaste aree della Cisgiordania, non è applicabile a Gaza, una minuscola striscia di terra abitata da due milioni di palestinesi, dove non esiste lo spazio fisico per colonizzazioni e annessioni. Da qui la politica, apparentemente senza senso, del falco Sharon che ha visto il disimpegno dalla Striscia, dove Hamas (organizzazione terroristica per Israele e per l’Occidente) aveva preso il potere, mentre ha mantenuto una ferrea occupazione sulla Cisgiordania, dove “governa”, nonostante il suo mandato sia largamente scaduto, il moderato Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Ritirare i propri militari da una zona governata da “terroristi” per concentrarsi su un’area amministrata da moderati appare infatti irrazionale dal punto di vista della sicurezza, ma è assolutamente sensato se l’obbiettivo non è l’autodifesa ma l’annessione di territori. A mettere in crisi questo piano strategico sionista sono però intervenuti tre fattori.
Il primo è la presa di coscienza da parte dell’Occidente che lo status quo che Israele mira a prolungare “sine die”, per proseguire con il processo di colonizzazione, non è più tollerabile, e questa consapevolezza ha avuto la sua manifestazione più eclatante nel voto che ha riconosciuto la Palestina come Stato Osservatore all’ONU, dove solo 9 paesi hanno votato contro il riconoscimento dello Stato di Palestina (tra cui vari “Paesi” da operetta come le Isole Marshall, la Micronesia, Palau e Narau) mentre 138 Stati hanno votato per il sì e 41 si sono astenuti.
Il secondo elemento a rendere sempre più tortuoso, se non impossibile, il percorso tracciato dal sionismo per liberare la Palestina storica dalla sua popolazione araba è l’emersione di un equilibrio globale sempre più multipolare, in cui gli USA, alleati storici di Israele, sono uno Stato che, seppur ancora influentissimo sul piano diplomatico e potentissimo sul piano militare, deve venire a patti con le altre grandi potenze globali, in primis Russia e Cina, alleati degli arabi e sostenitori della causa palestinese. In un contesto simile gli Usa non hanno più la forza (e forse neppure la volontà) di costringere il mondo a “guardare altrove” per tutto il tempo necessario a Israele per terminare il lavoro intrapreso.
In questo contesto il terzo dato, ossia il tentativo di ricomposizione della fazioni palestinesi in guerra e la nascita di un governo di unità nazionale, è visto dallo Sato ebraico come una minaccia mortale alle sue mire espansionistiche per due ragioni. La prima è che proprio la divisione dei palestinesi in due fazioni, di cui solo una riconosce il diritto all’esistenza di Israele (ossia Al-Fatah, è la motivazione ufficiale addotta di Israele per evitare di concedere l’autonomia allo Stato Palestinese che, obietta Tel Aviv, rischierebbe di trasformarsi in una nuova Gaza con la presa del potere da parte di Hamas. La seconda ragione è che uno Stato palestinese comprensivo di Gaza e con libertà di spostamento per la popolazione porterebbe il numero complessivo di arabi nel territorio conteso a circa 6 milioni di persone, con un forte aumento della presenza araba in Cisgiordania, rendendo quindi impossibile il sogno israeliano di “liberare” dalla popolazione palestinese se non l’intera Cisgiordania almeno sue vaste aree, tollerando una qualche forma di autogoverno palestinese (possibilmente temporanea, in attesa del concretizzarsi di una solida maggioranza ebraica che ne consenta l’annessione) su alcune piccole enclavi cisgiordane.
I 426 morti palestinesi, numero che purtroppo è destinato ad aumentare nei prossimi giorni, testimoniano il rifiuto ostinato di Israele di accettare la realtà del fallimento del progetto sionista e la presenza di due popoli, numericamente ormai equivalenti, nel piccolo territorio dell’ex mandato britannico, popoli destinati a convivere laddove l’ideologia sionista aveva previsto la presenza di un solo popolo, quello ebraico, con una residua minoranza araba tollerata a fatica. Non ci potrà essere pace in Medio Oriente fino a quando Israele non si convincerà che i palestinesi rimarranno in Palestina, e smetterà di essere uno Stato sionista per diventare semplicemente uno Stato come tutti gli altri, che non distingue tra cittadini di fedi o etnie diverse e che non persegue una radicale modifica demografica dei territori che amministra o occupa. E visto che sembra che gli israeliani siano ben lontani dall’accettare questo dato di fatto, se non si vuole che il bagno di sangue continui, è improcrastinabile che sia la Comunità Internazionale, fino ad ora incapace di imporre alcunché a Tel Aviv, a obbligare lo Stato di Israele (non più Stato ebraico) a fare i conti con la realtà.

lunedì 21 luglio 2014

UNA CRISI SENZA LIMITI

Bankitalia scopre l’acqua calda e dipinge un quadro a tinte fosche sulla nostra economia. Il Pil sprofonda e le banche prestano poco e a prezzi insostenibili
La Banca d’Italia scopre l’acqua calda. La crisi in Italia si sta aggravando drammaticamente. Ma anzichè mettere nero su bianco che l’economia del Paese sta per saltare, nel solito bollettino trimestrale Palazzo Koch si limita a parlare di produzione industriale che ristagna e ripresa lontana, nonostante i timidi segnali di crescita che arrivano dai consumi delle famiglie (quali?), dagli investimenti (ma dove?) e dalle migliori condizioni del credito (e qui siamo alla fantasia pura!). Intanto le stime sull’andamento del prodotto interno lordo peggiorano nettamente.
D’altra parte lo stesso governo, con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha appena riconosciuto che la crescita sarà risicata, rafforzando l’ipotesi di una manovra finanziaria – per ora sempre negata da Renzi – che l’ex viceministro Fassina ha quantificato in 23 miliardi di euro. 
Per risollevare le sorti servirebbe un miracolo: un forte miglioramento degli scambi internazionali, una ulteriore attenuazione delle tensioni finanziarie e il funzionamento dalle nuove misure di politica monetaria adottate dalla Bce, che ha promesso di immettere nel sistema un fiume di liquidità con la raccomandazione che questa volta i soldi finiscano alle imprese e non nell’acquisto di Btp. Se tutte queste ultime ipotesi dovessero realizzarsi il Pil potrebbe salire fino a un +1%. Anche se gli stessi economisti di via Nazionale hanno messo le mani avanti avvisando che rimangono tuttavia considerevoli elementi di fragilità nelle prospettive di ripresa, anche a causa dell’incertezza sull’evoluzione delle tensioni geopolitiche in corso.
Se i segni di ripresa non si vedono, Bankitalia riesce a vedere “l’impossibile” parlando di segnali distensivi nell’offerta del credito bancario in Italia. Il costo del denaro per le imprese – sostiene via Nazionale – è in calo “ma resta superiore a quello dell’area dell’euro di circa 70 punti base”. Una visione parziale e quasi beffarda della realtà, visto che il costo del denaro resta altissimo per altri fattori diversi dai tassi, a partire dalle mostruose spese e commissioni applicate dalle banche, soprattutto ai clienti più in difficoltà (cioè in questo momento quasi tutte le famiglie e le piccole imprese). Tanto che la stessa Banca d’Italia non può negare che i segnali di miglioramento delle condizioni del credito sono tuttavia ancora “marginali e incerti”. I prestiti alle imprese sono ancora scesi soprattutto per il debole quadro congiunturale e in misura minore rispetto al passato, scrivono gli economisti di via Nazionale.
Le politiche delle banche, tuttavia, rimangono “condizionate dall’elevato rischio credito” soprattutto nei confronti delle pmi.

domenica 20 luglio 2014

FUORI TEMPO MASSIMO

In questo post intendo descrivere con grande semplicità la situazione italiana, alla luce degli accadimenti internazionali e delle grandi manovre geopolitiche.
Gli euroservi filo-atlantici hanno vinto e stravinto nel nostro paese, che tengono saldamente in pugno e nessun aiuto esterno, tale da invertire la direzione di marcia, sembra concretarsi.
Procedendo con un po’ di ordine, all’interno del paese notiamo che:
1) Le europee hanno consacrato Renzi nuovo Quisling “sine die” di globalisti ed eurocrati, l’agente del grande capitale finanziario internazionalizzato che ha il compito di “fare le riforme che il paese aspetta”, cioè di svendere patrimonio pubblico e aziende, demolire ancora un po’ il mercato interno, indebolire la struttura produttiva ed espropriare definitivamente il lavoro dei diritti. Con il quaranta per cento dei voti espressi, Renzi e i suoi scagnozzi potranno anche sterminarci tutti. Tanto, sono “legittimati dal voto popolare”.
2)Il pd ha saldamente in mano le istituzioni e buona parte dei centri di potere. I suoi alleati (collaboratori dei collaborazionisti, o servitori dei servi se si preferisce) sono deboli comprimari, come la ncd alfaniana, se non attori inconsistenti, nel caso di scelta civica, o condannati a un pieno e irreversibile declino, come nel caso di Berlusconi e forza Italia.
3) L’opposizione non esiste, perché m5s mostra di voler saltare sul carro del vincitore “partecipando” alle riforme, in sostituzione di forza Italia, e la lega tende all’accordo, rendendosi disponibile a votarne alcune in parlamento. Non consideriamo neppure sel, che sarà in parte fagocitato dal pd.
4) Gli indicatori della situazione economica e sociale, già negativi, volgono ancor di più al brutto, perché continua l’applicazione delle politiche volutamente recessive ordinata dalla bce, consigliata dal fmi e imposta dai “mercati finanziari”. Il debito pubblico raggiunge il picco di 2.166 miliardi di euro, mentre la pressione fiscale, già insostenibile, è destinata ad aumentare (per non parlare della disoccupazione). Segno che la tanto conclamata crescita è molto meno importante del rigore contabile, da mantenere ad ogni costo. Le fandonie propagandistiche di Renzi su crescita e allentamento del (o flessibilità nel) rigore lasciano il tempo che trovano. Continua come incubo il “sogno europeo”.
5) Non vi è la ben che minima traccia, in questo paese, di una vera protesta politica e sociale, poiché la presenza di m5s, unitamente all’idiotizzazione mediatica sempre più spinta della popolazione, non lascia spazi al sorgere di un’alternativa reale, capace di aggregare e mobilitare le masse.
Se consideriamo la situazione internazionale, non abbiamo di che stare allegri. L’offensiva globalista, che si serve degli usa, della nato, dei mercenari e addirittura degli estremisti islamici è in pieno corso, in diverse parti del mondo. Il “soft power” obamiano significa, nel concreto, destabilizzazione d’interi paesi con le armi e l’uso di mercenari, generando guerre civili e “conflitti a bassa intensità” che fanno strage di civili e d’innocenti. Ucraina, Siria e Iraq sono testimonianze chiare, in proposito. Inoltre, resta insidiosamente aperta la questione israelo-palestinese. A livello internazionale, notiamo che:
a) In Ucraina si sta giocando una partita importantissima per il controllo del continente europeo con la Federazione Russa e, almeno per ora, la triade del male usa-nato-ue sembra avere la meglio. In Ucraina orientale e nel Donbass i mercenari (guardia nazionale ucraina, pravi sektor, una parte dell’esercito) sono all’attacco, la popolazione subisce bombardamenti, i profughi si moltiplicano e così le provocazioni nei confronti della Russia, con ordigni esplosivi che cadono oltre il confine. La prudenza russa è dettata dal fatto che la stessa potenza antagonista degli usa (e dei globalisti occidentali) è dipendente dal gas, che deve vendere anche in Europa, ma anche dalla necessità di evitare un pericoloso conflitto che potrebbe allargarsi e imporre l’uso di armi non convenzionali. L’impressione è che la triade del male, con l’azione armata dello stato-canaglia ucraino, voglia anzitutto provocare l’esodo della popolazione russofona. Non è escluso, però, che gli usa – e soprattutto i globalisti occidentali che li manovrano – intendano spingere in là le provocazioni fino a far scoppiare un conflitto nucleare con la Russia, convinti di vincerlo con il primo colpo. Vanificando, poi, con l’uso degli scudi antimissile la successiva risposta. Questa è la cosa più terribile in assoluto, per tutti noi.
b) In Siria l’esercito di Assad ha guadagnato un po’ di terreno, negli ultimi mesi, riconquistando città importanti come Homs, contro uno schieramento armato di tagliagole infiltrati e d’insorti prezzolati che si combattono a vicenda, senza un reale sostegno della popolazione. Bashar al-Assad nel giugno di quest’anno è stato riconfermato presidente con il consenso di oltre i due terzi dei siriani, nonostante la criminalizzazione operata nei suoi confronti dai media internazionali. Ma anche in Siria la guerra continua, la vittoria contro le forze del male sembra ancora lontana e altre azioni destabilizzanti, americano-islamosaudite-sioniste, sono molto probabili nei prossimi mesi.
c) L’avanzata dello stato islamico in Iraq, fino a un’ottantina di chilometri da Bagdad, può essere letta come una manovra ai danni della Siria resistente e dell’Iran, che darà la possibilità di attaccare la Siria da oriente e di sancire la definitiva frantumazione dell’Iraq. L’esercito irakeno sembra essersi dissolto, gli aerei da combattimento mancano, ma è proprio questo il risultato che gli americani volevano ottenere, non addestrando e supportando adeguatamente le truppe irakene, non fornendo i vitali F16 e non intervenendo militarmente contro l’isis, che possiamo considerare, sia pur indirettamente, una loro “creatura”.
d) La situazione a Gaza ridiventa esplosiva, con la possibilità di un attacco terrestre israeliano. Nonostante le brevi tregue, umanitarie o meno, c’è la possibilità che la vicenda israelo-palestinese aggravi la situazione in Medio oriente, con rischi di allargamento del conflitto. Hamas non cederà e neppure israele, per cui l’attacco terrestre, annunciato da qualche giorno ma non ancora partito, sembra abbastanza probabile.
e) In Francia il tremebondo euroservo Hollande, è ancora alla presidenza della repubblica, nonostante gli scandali, il biasimo dei francesi e la sconfitta alle europee. Il Front National non sembra in grado, da solo, di dare una spallata decisiva anticipando le presidenziali del 2017. In Gran Bretagna, Farage del UKIP è stato colpito da uno scandalo giudiziario e il referendum per l’uscita dalla ue non c’è ancora.
In conclusione, tutti i fattori endogeni ed esogeni sopra elencati ci fanno capire che la speranza di salvarsi per l’Italia non c’è, e che siamo ormai “fuori tempo massimo”. Il nemico ha vinto in Italia, ma soprattutto sta vincendo nella dimensione geopolitica planetaria, o almeno in Europa e in Medio oriente. Putin va in Brasile per l’incontro dei BRICS, che unendosi in modo più stretto potrebbero contrastare il disegno geopolitico globalista-occidentale, ma nega che Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica potranno costituire una vera e propria alleanza militare. Nonostante tutto, il dollaro è ancora la moneta chiave e gli usa il prestatore di ultima istanza nel mondo. Per quanti anni ancora? Comunque sia, per noi, in Italia, è già troppo tardi.
Renzi e il pd, a fronte di una clamorosa e persistente passività della massa rimbecillita, gestiranno allegramente il disastro finale, vendendolo come “le necessarie riforme” per l’ammodernamento del paese. In fondo, i collaborazionisti piddini svolgo una funzione simile a quella dei mercenari pravi sektor, di cui si serve lo stato-canaglia ucraino al soldo della nato, o a quella degli armati dello stato islamico utilissimi agli islamosauditi ancora gonfi di petrodollari e agli usa. Sì, perché il padrone, o almeno il remoto manovratore, è sempre lo stesso, uguale per tutti, si tratti di collaborazionisti piddini, oppure di esaltati neonazi pravi sektor, o di stragisti dello stato islamico.

giovedì 17 luglio 2014

LE PRIVATIZZAZIONI IMPOSSIBILI

Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. I rischi enormi che corriamo privatizzando l’impossibile in favore degli stranieri. La crisi economica come figlia di una terribile alimentazione.
Come sempre nei periodi economicamente critici la prima pulsione è quella di dismettere quanto possibile. Molte volte comunque sfugge la non trascurabile differenza tra un privato cittadino che si trovi costretto a (s)vendere le sue proprietà, e uno Stato, che frequentemente liquida beni pubblici, pertanto dei cittadini.
Questi ultimi però il più delle volte plaudono a siffatte decisioni governative, lamentandosi anzi quando “diminuiscono gli investimenti stranieri”, ritenendo (non a torto effettivamente) che le strutture pubbliche non sempre siano capaci di gestire delle aziende diligentemente. Numerosi italiani poi, non vengono nemmeno sfiorati dal pensiero che un bene possa cambiare o peggiorare semplicemente perché prodotto sotto l’egida di compratori esteri, in quanto quella stessa merce (nei fatti e nella produzione) rimarrebbe –teoricamente- italica, e la conclusione più diffusa è che proprio gli investitori di altri Stati siano i benvenuti, esattamente perché apporterebbero capitali laddove non ve ne sarebbero altrimenti.
E qui il grossolano errore, analizzato attraverso il teorema della carbonara. Si pensi per un momento ai tanti turisti che affollano quotidianamente le nostre piazze. Si provi a immaginarli, con la loro carnagione chiara abbrustolita dal sole – che normalmente non vedono mai – alle loro camicie a maniche corte dalla trama improbabile, ai sandali col calzino. Si pensi poi ai piatti che ordinano, in particolare al cappuccino che accompagna sempre e comunque ogni pasto, che si tratti di pizza o di caprese. Cappuccini ad ogni ora, eccezion fatta per la mattina, rigorosamente ricca di fritture e proteine. Ecco. Quando i soggetti in questione si trovano sul territorio italico non alzano un fiato, se non di meraviglia, e si ingozzano di qualsiasi cibaria felicemente ed in maniera compulsiva.
Ora però si pensi alle stesse persone, prive di scottature, vestiti quasi normalmente, seduti presso ristoranti sempre italiani, ma con sede all’estero. A quel punto i medesimi piatti, preparati con tanto amore ed attenzione per la qualità, vengono disdegnati, diventando di colpo immangiabili ed osceni. Nella pasta al sugo serve più ketchup, sulla pizza ci vuole l’ananas e sulla povera carbonara ci vorranno massicce dosi di panna.
Il cameriere allora, ultimo fedele custode dell’italianità, insisterà nel sostenere (a ragion veduta) che la vera cucina italiana non prevede quella montagna di sozzure. Questo nobile figuro tuttavia, dinanzi alle imperterrite rimostranze di quegli avventori forestieri -e di fronte alla possibilità di perdere clienti su clienti altrimenti transfughi verso la concorrenza attrezzatissima di panna- sarà costretto a cedere all’ignobile ricatto.
Il teorema sopra esposto ci spiega come così facendo inevitabilmente i prodotti italiani (che si tratti di ristorazione come pure di differenti settori) saranno inevitabilmente condannati alla morte qualitativa, in nome del cliente straniero, ignorante ma pagante. Lo stesso accade quando le nostre aziende vengono acquisite dagli “extraitaliani” o dalle multinazionali. Molti pensano si tratti soltanto di un banale cambio di nome su un contratto e, si diceva, di un nuovo apporto di capitali. Ma possiamo esserne sempre sicuri? Perché per risparmiare (e guadagnare) questi padroni delocalizzano, impongono l’uso delle materie prime più economiche (ossia peggiori), assumono lavoratori più convenienti (quindi non italiani), lasciando in finale i nostri compatrioti disoccupati e con prodotti scadenti.
Il problema principale è duplice, anzi unico: manager avidi ed incapaci. Nazionalizzando troppo si rischia di incorrere verso una percezione delle responsabilità sensibilmente minore, giacché gli amministratori sono portati ingenuamente (od opportunatamente?) a pensare che qualora il bilancio dovesse risultare negativo, Pantalone (lo Stato) interverrebbe a risolver la questione. Un esempio pratico fu l’IRI (istituto per la ricostruzione industriale) negli anni Settanta, un mostro pubblico enorme cui spettava la gestione di imprese ed istituti creditizi. Ebbe momenti di gloria, poi vanificati da un’amministrazione inadeguata, incosciente e clientelare.
Dall’altra parte troviamo gli imprenditori privati, vergognosamente colpiti da una tassazione pesantissima ed insana; di contro sono essi stessi talvolta poco attenti alle possibilità ed alle potenzialità di cui godono e che gli si offrono. Quello di cui siamo deficitari è un sistema fiscale equo ed amministratori validi e coraggiosi tanto a livello politico quanto imprenditoriale. Una cosa in realtà semplice ma contemporaneamente di difficile ottenimento. Il governo intanto, mentre distrae i cittadini con riforme inutili come la legge elettorale, continuerà nel silenzio a liquidar tutto, dall’Eni all’Enel passando per le Poste, privando ignobilmente gli italiani dei propri tesori, del lavoro e della dignità; servendo dunque loro un’indigesta carbonara pannosa.

mercoledì 16 luglio 2014

I TAGLI ALL'UNIVERSITA'

Renzi parla di futuro ma taglia i fondi alle Università: 75 milioni in meno per i prossimi due anni.
Cambia verso. La scuola è il futuro. L’Europa siamo noi. Le solite stronzate alla Renzi vengono puntualmente smentite dai fatti: il Governo ha tagliato 75 milioni di euro i fondi alle Università di 75 milioni per il 2014 e il 2015.
Il taglio è nascosto nei meandri del decreto sul bonus Irpef, come hanno denunciato il coordinamento universitario Link e l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (Adi).
Riportiamo integralmente il comunicato di protesta di Link e Adi.
“Il Governo Renzi potrà continuare a dire di cambiare tutti i versi che vuole, ma i numeri prospettati nel DL sulla Spending Review (art. 50 comma 6), licenziato ieri dal Consiglio dei Ministri, parlano della chiara volontà politica di affossare definitivamente il sistema dell’Università e della Ricerca pubblica, in perfetta continuità con il piano di smantellamento avviato da Berlusconi e proseguito con Monti e Letta.
Finalmente Matteo Renzi ha gettato la maschera sull’Università dimostrando di ritenere la formazione accademica una delle prime voci di bilancio da tagliare.
Trenta milioni di euro tagliati per il 2014 al Fondo di Finanziamento Ordinario e addirittura45 milioni per ogni anno a partire dal 2015.
L’annunciata revisione della spesa pubblica si risolve tristemente nell’ennesima riduzione di risorse da destinare a Università ed Enti di Ricerca, gettando una grave ipoteca sulle possibilità di sopravvivenza del sistema pubblico della ricerca in Italia
I provvedimenti assunti dal CDM ignorano deliberatamente le recenti raccomandazioni del Consiglio Universitario Nazionale (CUN), per un piano di reclutamento straordinario necessario a mettere in sicurezza il sistema della Ricerca, gravato da oltre un miliardo di euro di tagli e dal blocco del reclutamento.
Crediamo che la vera risposta alla crisi economica e occupazionale attraversata dal Paese non consista in provvedimenti estemporanei dal retrogusto propagandistico, ma nel rilancio del sistema della formazione e della ricerca pubblica, unica strategia credibile e di lungo periodo per l’uscita dall’emergenza.
In tutto questo, appare tragicomica l’affermazione della Ministra Giannini, forse distratta dalla candidatura al Parlamento Europeo, in cui si sanciva la volontà di non effettuare più “tagli lineari”: la realtà è ben diversa e di fatto si continua ad non ritenere il sistema della formazione e della ricerca pubbliche una risorsa centrale per lo sviluppo del Paese e per un’uscita alternativa dalla crisi economica.

martedì 15 luglio 2014

ITALIA: GUERRA FRA POVERI

Dal 2007 al 2012 il numero di poveri assoluti in Italia è passato da 2,4 milioni a 4,8 mentre la spesa sociale è stata brutalmente tagliata. Solo un caso?
La povertà aumenta, e su questo siamo e sono tutti d’accordo. Aumenta a un ritmo vertiginoso in Italia dove nel 2007, l’ultimo anno in cui il Pil era positivo, i poveri erano 2,4 milioni pari al 4,1% della popolazione, mentre nel 2012, cinque anni dopo, il loro numero era esattamente raddoppiato. I governi non solo hanno fatto di tutto per minimizzare la crisi, ma non hanno fatto nemmeno niente per porre rimedio alla piaga della povertà, anzi hanno tagliato la spesa sociale in modo netto. 
Nel 2008 i fondi statali contro la povertà ammontavano a due miliardi e mezzo di euro diventati nel 2013 solo 766 milioni di euro arrivati a 964 milioni con il governo Letta. Briciole dal momento che sono un miliardo e 536.000 euro in meno rispetto al 2008, quando però c’erano due milioni e mezzo di poveri in meno. A rendere noti i dati allarmanti e drammatici il rapporto della Caritas che è stato presentato a Roma 
Si tratta di una vera e propria guerra ai poveri con lo Stato che sembra aver scelto di scaricare su di loro i costi della crisi. Nel 2013 il fondo per le politiche sociali è stato tagliato di altri 27 milioni di euro passando da 344 a 317, e tutto questo non sembra avvenire per caso. Sembra anzi seguire un programma ben preciso di darwinismo economico e sociale teso a svantaggiare i più poveri, un disegno che non viene contrastato da nessuno, e che proprio per questo aumenta la sua pericolosità sociale e politica.

domenica 13 luglio 2014

LE SOLITE INUTILI GRANDI OPERE

Non c'è la crescita? Aumenta la disoccupazione? Non c'è problema. Diamo soldi ai costruttori di infrastrutture! Che non creano occupazione (o ne creano in misura estremamente ridotta in proporzione alle dimensioni dell'investimento), ma fanno gonfiare i bilanci degli sponsor del governo.
Gli obiettivi dello "Sblocca Italia", il prossimo - ennesimo - decreto che arriverà teoricamente entro luglio, sul tavolo del consiglio dei ministri, e a cui il Ministero delle infrastrutture sta lavorando intensamente per varare i primi interventi entro fine anno, indica obiettivi alquanto antichi e poco performanti per l'economia: far ripartire le grandi opere, riavviare i cantieri, mettere mano alle infrastrutture per troppo tempo bloccate e soprattutto rilanciare gli investimenti, nazionali ed esteri.La solita ricetta cementizia per inchiodare ancora di più la capacità del paese di "creare ricchezza".
Pier Carlo Padoan e Maurizio Lupi hanno organizzato una task force comune per individuare le modalità per allocare le risorse pubbliche e favorire la mobilitazione di "risorse private" (altra frase sempre inserita nei "progetti", ma sempre disattesa nella pratica; i soldi per le grandi opere sono sempre pubblici, mentre i privati arrivano soltanto per massimizzare i profitti, gonfiando i costi, allungando i tempi, chiedendo "deroghe" e revisioni dei preventivi di spesa).
Allo studio ci sono strumenti finanziari definiti ancora una volta "innovativi" volti a produrre un effetto leva su capitali privati attraverso le risorse pubbliche, come i project bond e il partenariato pubblico-privato, con proposte precise di semplificazione e defiscalizzazione. Per questo, prima ancora di far partire qualsiasi tipo di finanziamento, il Ministero dell'Economia sta portando avanti un lavoro parallelo per monitorare con attenzione lo stato dell'arte delle opere pubbliche su tutto il territorio nazionale. Via XX Settembre punta cioè ad ottenere dalle amministrazioni locali e dalle società concessionarie (che si vedranno recapitare circa 13.000 mail) tutte le informazioni sullo stato di avanzamento dei lavori, gli affidamenti, i pagamenti effettuati. Una misura necessaria, in tempi di "spending review", perché in nessun altro comparto della spesa pubblica c'è un'emorragia di fondi come in questo. Ma, pur tentando di "chiudere i boccaporti", non si cambia modello... Quindi non cambieranno i risultati.
Poi segue il lungo elenco di distese d'asfalto e cemento che attraverseranno territori i quali, nella grandissima maggioranza, non ne sentono alcun bisogno.
L'alta velocità ferroviaria Napoli-Bari e Brescia-Padova, ma anche alcune di quelle segnalate dalle amministrazioni locali sono in cima alla lista.
Matteo Renzi aveva infatti già fatto partire l'operazione chiedendo il contributo dei sindaci, incaricati di redigere una lista di lavori giudicati importanti, se non imprescindibili, per il territorio ma bloccati da lungaggini burocratiche, veti o complessi ingranaggi procedurali.
Le richieste arrivate vanno dalla Metro C a Roma (ormai in fase di pre-apertura, o quasi), al Teatro Margherita a Bari, fino alla metanizzazione di alcuni quartieri di Catania. Ma sul tavolo ci sono anche le infrastrutture indicate nel 2013 nel decreto del Fare del governo Letta (la copertura del passante ferroviario di Torino, il potenziamento della ferrovia Novara-Malpensa (per un aeroporto che nessuno vuol più utilizzare!), la rimozione dei passaggi a livello sull'Adriatica nel tratto Foggia-Lecce e la terza corsia autostradale in Friuli).
A disposizione del ministero delle Infrastrutture c'è circa un miliardo di euro del «fondo revoche», ovvero del contenitore predisposto nello stesso "decreto del Fare" e dove confluiscono le risorse destinate ad opere già censite ma che non si realizzeranno più. Per il dicastero le opere prioritarie da finanziare con quelle disponibilità economiche sono la Metro 1 di Napoli, l'autostrada Termoli-San Vittore e la Lecco-Bergamo.
Qualcosa di utile - in genere indicato dai sindaci meno venduti al business - c'è anche. Ma annegato nel solito arraffa-arraffa a favore dei costruttori.

venerdì 11 luglio 2014

ED IL TANTO DECANTATO JOBS ACT A CHE PUNTO E'?

L'idea che con maggiore flessibilità contrattuale si consegua una riduzione della disoccupazione non trova supporto nell'evidenza empirica
In Italia il 2014 è iniziato con il tema del «Lavoro» al centro dell'agenda politica. Il Jobs Act annunciato già a gennaio si fondava su quattro pilastri: 1) riduzione del cuneo fiscale; 2) politica industriale per il manifatturiero italiano ed il Made in Italy; 3) ricomposizione del mercato del lavoro tramite il contratto di lavoro a tutele progressive; 4) semplificazione delle norme sul lavoro.
Erano pilastri importanti e di buon auspicio per realizzare il cambio di verso annunciato. Dopo 120 giorni di Governo Renzi, cosa è rimasto di quell'annuncio?
Il primo pilastro è contrassegnato dal cartello «lavori in corso». Il bonus degli 80 euro è appunto un bonus, non strutturale e dalle coperture incerte. Dovrà divenire strutturale con la legge di stabilità del prossimo autunno. La riduzione dell'Irap è prevista nell'ordine del 10%, ma anche in tal caso non vi è certezza sulle coperture. Tuttavia, sono passi significativi realizzati. Non avranno però effetti economici significativi nel breve periodo come lo stesso Def2014 certifica.
Il secondo pilastro è stato purtroppo abbandonato, a meno che non si ritenga che «politica industriale» sia sinonimo di «privatizzazioni». Vi è necessità invece di politica industriale pubblica per i settori strategici, sia tradizionali, maturi, sia innovativi, per realizzare cambiamenti nei processi e nei prodotti, nell'organizzazione e qualità del lavoro, in tecnologie verdi e conoscenza, quali fattori cardine per contrastare la stagnazione della produttività che frena sia la competitività delle imprese che le retribuzioni dei lavoratori.
Il terzo pilastro è stato depotenziato e rinviato al disegno di legge delega, una volta approvata dal Parlamento, troverà attuazione forse nel 2015. Sarebbe stato auspicabile che con l'introduzione del contratto a tutele progressive si segnasse una discontinuità rispetto al passato, andando verso una radicale eliminazione del supermarket delle forme contrattuali per indurre le imprese ad investire in capitale cognitivo ed in innovazione organizzativa. Invece, si ipotizza l'introduzione in via sperimentale di una ulteriore modalità contrattuale, flessibile e graduale nelle tutele, che si aggiunge alle numerose forme esistenti, senza sostituirne alcuna.
Si è invece intervenuti a partire dal quarto pilastro, quello della semplificazione normativa sui contratti a tempo determinato e sull'apprendistato, declinando la semplificazione in termini di liberalizzazione. Molto si è già scritto su ciò. Qui ci preme sintetizzare alcune questioni.
Anzitutto, il rischio è che, come vari giuslavoristi hanno evidenziato, la semplificazione dia vita ad un percorso di contenziosi a livello europeo, non solo nei tribunali del lavoro italiani, in quanto la revisione della a-causalità economica-organizzativa contrasterebbe con importanti direttive comunitarie che distinguono il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, inteso come prevalente da quello a termine. La semplificazione mirava ad eliminare i contenziosi in sede nazionale, in realtà rischia di proiettarli su dimensione europea. In secondo luogo, l'eliminazione della causalità, il meccanismo di proroghe e rinnovi legati alla mansione più che al lavoratore, le sanzioni pecuniarie, pongono il lavoratore stesso in una condizione di ulteriore debolezza nei confronti del datore di lavoro.
In aggiunta, altre obiezioni sono di tipo economico. In estrema sintesi, ne indichiamo tre.
Primo, l'idea che con maggiore flessibilità contrattuale si consegua una riduzione della disoccupazione ed un aumento dell'occupazione non trova supporto dall'evidenza empirica, come mostrano peraltro le stesse analisi condotte dall'Oecd. Questa idea si dimostra in verità una prima falsa credenza. Più che accrescere l'occupazione, sembra emergere una sostituzione tra (minore) occupazione stabile e (maggiore) occupazione instabile.
Secondo, la maggiore flessibilità nei contratti a termine favorisce la ripetitività dei contratti più che la stabilizzazione degli stessi, senza peraltro che aumenti la durata complessiva dello status occupazionale, mentre si riduce la retribuzione percepita, come insegna anche l'esperienza spagnola. Quindi l'idea che maggiori opportunità per un lavoro a termine accrescano la probabilità che tale lavoro si trasformi in stabile risulta una seconda falsa credenza.
Terzo, la maggiore flessibilità del rapporto di lavoro, in uscita oltre che in entrata garantita dai contratti a termine e dalle semplificazioni apportate ai contratti di apprendistato, non appare positivamente correlata alla produttività del lavoro ed alla sua crescita. Anzi se una relazione sussiste, è opposta a quella presunta, ovvero la riduzione delle protezioni all'impiego (minori tutele per il lavoratore) appare associata a riduzioni della produttività piuttosto che ad un suo aumento. La ragione è rintracciabile nel fatto che forme contrattuali flessibili se da un lato possono favorire la mobilità del lavoro da imprese ed industrie poco dinamiche verso quelle più dinamiche, dall'altro abbassano la propensione ad innovare ed investire sulla qualità del lavoro da parte delle imprese, le quali cercano piuttosto di trarre vantaggio dai minori costi del lavoro invece di accrescere la produttività. Per cui, che la maggiore flessibilità del lavoro porti a più produttività è la terza falsa credenza.Se questi sono i rischi che corre il nostro paese nel proseguire lungo la strada della flessibilità del lavoro, peraltro comprovati dall'avere coniugato dalla fine degli anni '90 dosi crescenti di deregolamentazione del mercato del lavoro con la progressiva stagnazione della produttività del lavoro, non sarebbe opportuno ripartire dalle potenzialità che potevano essere rintracciate nella versione annunciata del Jobs Act piuttosto che percorrere il declivio improntato dalla fallace idea della «precarietà espansiva»?

mercoledì 9 luglio 2014

IL POTERE DEL DENARO NELLE DEMOCRAZIE

Plutocrazia, tutto il potere all’élite dei più ricchi. Se ormai conta solo il denaro – ed è quello a decidere chi sale e chi scende, chi vince e chi perde – possiamo dire addio alla politica, alla giustizia e alla stessa democrazia dei diritti. La corruzione dilagante? E’ solo una naturale conseguenza, in un mondo degradato dallo strapotere del denaro, immense ricchezze nelle mani di pochi oligarchi. La corruzione dilagante, che ha ormai «permeato tutta la vita politica, economica e sociale del nostro paese», segnando l’evidente «declino dell’ordine e delle istituzioni politiche», è un vero e proprio «sintomo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.
C’è un sistema ideologico alla base delle politiche economiche, tutto questo ha fatto sì che le scuole, gli ospedali e persino le prigioni possano essere privatizzate a scopo di lucro. E se così è, perché non dovrebbe essere, allo stesso scopo, privatizzato anche ogni ufficio pubblico?». Questo sistema, ha creato due conseguenze parallele: «Le ineguaglianze, delle quali ha dato un’impareggiabile recente documentazione il tanto discusso libro di Thomas Piketty “Le capital au XXI siècle”», e naturalmente «la corruzione, sia nel settore pubblico sia in quello privato». Secondo la “London Review of Books”, che parla di “Disastro italiano”, l’Italia in Europa non è un caso anomalo, ma piuttosto una sorta di concentrato, visto che «la manipolazione da parte dei poteri esecutivi nei confronti dei legislativi e la generale involuzione e crisi delle classi politiche causano un silenzioso deficit di democrazia, alimentato da una quasi assoluta scarsità di mezzi di informazione indipendenti e con un aumento della corruzione».
Un panorama impressionante in tutti i paesi: dalla Germania di Helmut Kohl, indiscusso cancelliere per 16 anni, che ricevette due milioni di marchi tedeschi in fondi neri, «rifiutandosi di rivelare il nome dei donatori per timore che emergessero i favori che avevano ricevuto in cambio», alla Francia di un altro super-potente, il presidente Jacques Chirac, in sella per 12 anni, che a fine mandato (cessata l’immunità) fu accusato di abuso d’ufficio, peculato e conflitto di interessi. Clamoroso, ancora in Germania, il governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, che garantì un prestito da un milione di euro a Gazprom per creare una pipeline nel Baltico, «poche settimane prima che lo stesso cancelliere, terminato il mandato, diventasse consulente di Gazprom a un compenso molto maggiore di quello fino a quel momento ricevuto per governare il paese». Dalla Grecia alla Spagna non si Blair e Schroedersalva nessuno. Spiccano, in Gran Bretagna, i favori elargiti alla Faith Foundation di Tony Blair, il rottamatore della sinistra inglese.
«Le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione in poche mani della ricchezza e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate», e costituiscono «la conseguenza principale e più grave dell’intreccio ormai inevitabile fra politica ed economia». Non è un caso che questo intreccio, nelle ideologie contemporanee, diventi inestricabile, al punto che le stesse istituzioni politiche ancora formalmente democratiche «diventino a loro volta causa ed effetto delle diseguaglianze e della corruzione». Non ne sono immuni neppure gli Usa, dove si sta erodendo una Costituzione nata per «assicurare l’indipendenza del governo federale da chiunque non fosse il solo popolo», secondo le famose parole di James Madison. La“gift economy” americana prevede uno scambio corruttivo fatto di «favori e rapporti», innescando un conflitto istituzionale che minaccia la democrazia americana.
Nel 2010 e poi il 2 aprile 2014, infatti, la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto costituzionale di «finanziare candidati e campagne elettorali senza limiti alle somme di denaro profuse».
Di conseguenza, il denaro «è diventato il problema della politica americana e la radice di ogni altro male, che avvelena la fiducia del cittadino nel governo e nella democrazia, divenuta una sorta di sciarada». Così, emerge «un virus distruttivo delle democrazie, che induce i tre poteri dello Stato a confrontarsi fra loro nel tentativo di combattere senza successo la corruzione pubblica, che anche quando viene individuata rimane senza sanzione», confermando l’intreccio tra politica e affari. «Né i grandi banchieri né i politici corrotti sono di norma puniti con la reclusione, perché entrambi sono, secondo l’espressione americana, “too big to jail” (troppo importanti per la galera)». E’ così che, lentamente, soccombe il potere che più di ogni altro dovrebbe combattere le disuguaglianze: la giustizia. La mondializzazione tende a privatizzare anche quella: «Le sanzioni contro la corruzione internazionale delle grandi multinazionali globalizzate sono comminate con il versamento di cospicue somme di danaro, attraverso accordi con organismi del potere esecutivo e delle agenzie indipendenti con una giustizia negoziata e privatizzata, secondo la perversa ideologia in voga».
In questo modo, «la repressione della corruzione delle grandi società viene definita al di fuori delle autorità giurisdizionali, attraverso una collaborazione interna e un’autodichiarazione di colpevolezza da parte delle società che, pur di evitare la giustizia penale, pericolosa sotto ogni aspetto, anche quello reputazionale, preferiscono dichiararsi colpevoli e collaborare utilizzando complessi sistemi di indagini interne». Si chiamano “accordi di giustizia”, e sono semplici trattative. Senza più una vera giustizia, la corruzione pubblica e privata incoraggiata dalla deregulation continua a dilagare, senza freni, assumendo forme «di apparente legalità, difficilmente sanzionabili». Così, «la lotta contro le disuguaglianze e le corruzioni, pubbliche e private, illegali o elusive, deve essere ormai considerata il principale obiettivo per far sopravvivere le società che le corrette idee del passato, prima della loro disgregazione, ci avevano consegnato attraverso la tutela dei diritti dei cittadini».

martedì 8 luglio 2014

IL GRANDE BLUFF DELL'AUSTERITY

La politica della cinta stretta ha fallito. Il paese è al collasso mentre il debito pubblico cresce ancora
Meno male che la politica del rigore avrebbe dovuto riassestare il debito pubblico. I dati dicono tutt’altro. La politica dell’Austerity finora, oltre ad aver portato al collasso famiglie e imprese, non ha prodotto effetti. Negli ultimi dodici mesi, tra aprile 2013 e aprile 2014, il “buco” nelle finanze statali è cresciuto di 103,5 miliardi di euro, pari a una media di 8,6 miliardi al mese. Un ritmo che lo ha portato a superare la quota di 2.146 miliardi. Tale media è più alta rispetto a quella registrata nel periodo aprile 2012-aprile 2013, quando il debito si allargava di 7,01 miliardi al mese.
Questi i dati più rilevanti che emergono dal rapporto del Centro studi Unimpresa “Il debito pubblico italiano”. Secondo l’analisi dell’associazione, basata su dati della Banca d’Italia, negli ultimi due anni (da aprile 2012 ad aprile 2014) il “buco” nei conti della pubblica amministrazione è aumentato complessivamente di 187,6 miliardi di euro; oltre la metà dello stock aggiuntivo del periodo 2012-2014 è stato accumulato negli ultimi 12 mesi, arco di tempo nel quale il debito è salito di 103,5 miliardi. Nei dodici mesi precedenti la fetta di debito in più era stata pari a 84,1 miliardi.
Dati che dimostrano una crescita costante e a una velocità sempre maggiore: alla fine del 2012 l’ammontare del debito era a 1.989,5 miliardi; alla fine del 2012 il debito era a quota 2.069,3 miliardi.
“Questi dati confermano che la politica del rigore attuata negli ultimi anni, si rivela insufficiente non solo per la salute dei conti statali, ma anche sulle prospettive. Le scelte dei vari esecutivi, Monti, Letta e pure Renzi, hanno colpito le poche speranze di ripresa dell’economia”. Per salvare le micro, piccole e medie imprese deve essere abbattuta la pressione fiscale con interventi seri e rigorosi, non più rinviabili. Adesso basta con l’austerity, giù le tasse”

domenica 6 luglio 2014

L'alleanza continentale emergente tra Russia e Germania

Le modalità della nomina di Junker confermano che da una Germania europea ci siamo spostati verso un’Europa tedesca
Questo fine settimana ha visto l'Unione Europea mettere a punto l'affare che ha permesso all'arci-federalista Jean-Claude Juncker di diventare presidente della Commissione.
Le modalità della nomina ci dicono molto circa la natura mutevole del potere che guida l'Europa. Tutti i governi da Stoccolma a Roma si erano opposti alla nomina di Juncker, ma alla fine nessuno ha sfidato Berlino.
Sempre questo fine settimana, Vladimir Putin ha commentato: "Apprezziamo il potenziale che si è accumulato per le relazioni russo-tedesche e l'alto livello di cooperazione commerciale ed economica tra i due paesi. La Germania, uno dei leader dell'Unione Europea, è il nostro partner più importante nel promuovere la pace e la sicurezza globale e regionale".
Si tratta, come sostiene il blog americano, di un cambiamento decisivo nel carattere politico dell'Eurasia. La storia ci dice che c'è sempre stata una tendenza a combattere lunghe guerre tra imperi marittimi e imperi continentali. Pensate a Atene contro Sparta, a Cartagine contro Roma o alla Gran Bretagna contro la Francia napoleonica. L'ultima grande guerra fu tra Stati Uniti e Unione Sovietica e si è conclusa a favore dell’impero marittimo. Come risultato, dal 1989 abbiamo vissuto in un ordine, in ultima analisi, gestito dall'esercito USA.
Ma dopo qualche fatto spiacevole accaduto nell’esercizio del suo ruolo di poliziotto del mondo, anche l'impero marittimo ora è in ritirata.
Conseguenza di questo spostamento verso un isolamento è che un gruppo di «imperi continentali» stanno iniziando a sfidarsi per garantirsi quel "monopolio legale" della violenza internazionale che gli Stati Uniti hanno esercitato negli ultimi 25 anni. Gli sfidanti più evidenti sono i musulmani sunniti in tutto il Medio Oriente e nell'est-asiatico la Cina che, sempre più sicura e assertiva, sta affermando la sua supremazia.
Queste lotte hanno tutte un potenziale per diventare grandi problemi regionali, ma quello che maggiormente dovrebbe preoccupare è l'alleanza continentale emergente tra la Russia e la Germania. Evitare che cominciasse questa collaborazione è stata per secoli un'idea fissa della diplomazia francese, e per dei buoni motivi. Una combinazione tra una potenza industriale tedesca e le materie prime e la forza militare russa avrebbe creato immediatamente un colosso.
I polacchi, che sono stati le prime vittime di qualsiasi accordo tra Germania e Russia, sono già visibilmente nel panico, e ne hanno tutti i motivi.
Storicamente, Parigi ha sempre cercato di allearsi con i russi, non perché li amasse, ma per impedire alla Germania di fare lo stesso. Il problema è che la Francia non ha nulla da offrire alla Russia (.... se non qualche casa per piacevoli vacanze al mare e qualche posto barca per i magnati sulla sua costa mediterranea) e, comunque, in questo momento si sta concentrando sul miglior modo per perfezionare il proprio suicidio politico ed economico.
Questo lascia il Regno Unito come unico scudo contro un'alleanza verso est. Ma questo fine settimana c'è stata una dichiarazione di Berlino che ha spiegato chiaramente dove vede i suoi interessi. Certo si è sentita qualche parola verso Londra che le diceva di non lasciare l’Ue ma dopo l'incidente del voto che ha fatto eleggere Juncker è chiaro che la situazione è cambiata e che da una Germania europea ci siamo spostati verso un’Europa tedesca.
Sembra che il Regno Unito stia preparando la strada per uscire dall’UE entro quattro anni. Le probabilità che Londra ottenga delle modifiche sostanziali del trattato sono vicine a zero. Come diceva Winston Churchill a metà del XX secolo: “L'Inghilterra non appartiene all'Europa, appartiene ai mari" e così, quando arriverà il momento delle scelte, Londra rimarrà alleata con l'impero marittimo guidato dagli Usa.
Nel vecchio sistema, l'Europa era una specie di protettorato dell'impero marittimo USA, una formula che ha funzionato abbastanza bene. La sfida allo status quo viene da oriente dove Vladimir Putin ha il chiaro obiettivo di creare una nuova alleanza russo-tedesca, il cui perno sarà nell'Est-Europa. Se ci riuscirà questo sarà una grave colpo per l'impero marittimo, soprattutto se il Regno Unito non sarà più uno dei giocatori europei.
Ci saranno grandi ripercussioni politiche negli Stati Uniti e, se il profilo politico prenderà questa forma, la domanda a cui rispondere non sarà solo "ma come abbiamo fatto a perdere l'Asia e il Medio Oriente?" - ma anche "come abbiamo fatto a perdere il nostro più affidabile e disponibile alleato-Europeo?".

venerdì 4 luglio 2014

RENZI: CREDERGLI O NON CREDERGLI?

Con Renzi ci vuole prudenza. Tra qualche mesi i fatti assegneranno a Renzi un potere costituente – se manterrà le promesse – o il titolo di ciarlatano e golpista – sempre che non gli donino una scappatoia democristiana per evitare questo aut aut.
Renzi ha ottenuto un ampio consenso popolare alle elezioni europee e un ampio consenso parlamentare piegando persino Grillo grazie non solo allo sfacciato appoggio mass-mediatico ma pure a una serie di promesse tanto convincenti quanto sinora non mantenute, ossia il calendario riformatore di marzo, nonché il garantito rilancio della domanda interna attraverso il bonus degli 80 euro.
Ultimamente ha rilanciato alla grande le sue promesse grazie al i risultati delle elezioni europee e dichiarando di aver ottenuto il via libera alla sua linea di investimenti e allentamenti.
Forte del suddetto consenso, comunque lo abbia ottenuto, nonché di una ampia ma artificiale maggioranza alla Camera, dovuta a frazioni percentuali e al superpremio di maggioranza (200 seggi) costituzionalmente dichiarato illegittimo dalla sentenza n. 1/2014, ora vuole riformare tutto, dalla Costituzione alle leggi elettorali, alla pubblica amministrazione, alla giustizia, senza passare per la legittimazione di un voto politico né per i referendum.
Dice che bisogna fare di corsa queste riforme perché l’UE avrebbe detto che, se le facciamo, ci consentirà di fare gli investimenti e di rilanciare l’economia. Ma è vero che l’UE lo ha detto? E’ vero che esiste un patto in tal senso? Oppure è falso, è una millanteria con cui Renzi ci vuole indurre ad accettare le riforme che vuole fare lui o chi gli sta dietro, per suoi interessi? Bisogna vederci chiaro, e indispensabile che quel patto venga dichiarato in modo vincolante, ufficialmente, dalla UE, e non solo da Renzi o solo informalmente da qualche altro politico. Se la UE non lo farà, ciò sarà un indizio che le affermazioni di Renzi sono millanterie.
Se è vero che ha ottenuto dalla UE ciò che afferma; se, come promette e assicura, riuscirà a riformare l’Europa e i suoi meccanismi finanziari nonché a rilanciare l’economia europea e quella italiana in particolare; se riuscirà a invertire la recessione, a riassorbire la disastrosa disoccupazione, a rilanciare investimenti e consumi, a fermare l’emigrazione di capitali e cervelli; allora avrà un legittimo potere costituente per fare ciò che vuole fare, cioè rifondare o riorganizzare il Paese.
Se al contrario il suo si rivelerà un bluff, se sono veri i documenti pubblicati dalla stampa non governativa ed esibiti da alcuni esponenti politici indipendenti, cioè se è vero che Renzi, contrariamente a ciò che afferma, non ha ottenuto margini per investimenti come assicurato, e che anzi deve applicare più rigore di bilancio e nuove tasse per rientrare nei vincoli di Maastricht e nelle imposizioni della Commissione, allora egli si rivelerà un millantatore.
Finché questo dubbio non sarà chiarito oggettivamente, è pericoloso e irrazionale dargli il potere che pretende e consentirgli di togliere ulteriore rappresentanza all’elettorato abolendo l’elettività del Senato.
Quindi aspettate prima di permettergli di fare un Senato a nomina essenzialmente partitocratica e non eletto dai cittadini.
Aspettate a consentirgli di fare anche, con l’Italicum, una Camera nominata dai segretari dei partiti politici e dominata in base a una piccola maggioranza moltiplicata incostituzionalmente dal premio di maggioranza.
Aspettate prima di lasciargli immettere nel parlamento decine di deputati nominati mediante meccanismi accidentali e senza collegamento con la volontà espressa dai cittadini nel voto.
Aspettate prima di lasciargli escludere dalla rappresentanza nell’unica camera elettiva milioni e milioni di elettori che sarebbero esclusi dallo sbarramento.
Ricordate che il consenso e la legittimazione di cui ora gode li ha ottenuti a credito e che finora non ha mantenuto un solo punto delle sue promesse.
E ricordategli la seguente, semplicissima ricetta:
l.per la Camera, che vota la fiducia al governo e le leggi proposte: sistema elettorale
maggioritario con premio di maggioranza assegnato attraverso il ballottaggio.
2. per il Senato, che vota sulle riforme costituzionali ed elegge i poteri neutri e di garanzia quali il capo dello Stato, i giudici costituzionali, e componenti laici del CSM, le autorità di garanzia e le commissioni di controllo: sistema proporzionale senza sbarramento, in modo di includere e rappresentare fedelmente tutto l’elettorato.

mercoledì 2 luglio 2014

RENZI E LE BALLE SULL'AUSTERITY

Il premier si è profuso in dichiarazioni anti-austerity. Senza mai spiegare però come l'Italia potrebbe sciogliersi dalla morsa asfissiante dei vincoli europei
Da un po' di tempo a questa parte, tirare all'austerity è diventato lo sport preferito degli uomini politici e di governo del nostro paese. Tra i campioni di questa disciplina spicca per pervicacia il premier Renzi, che di dichiarazioni anti-austerity ha riempito in poco più di un anno un campionario da guinness dei primati. Nessuno, però, men che meno il giovane capo del governo, ha spiegato come l'Italia, concretamente, potrebbe sciogliersi dalla morsa asfissiante dei vincoli europei, che, banalmente, discendono da trattati e regolamenti la cui paternità è anche nostra, in quanto membri del Consiglio europeo e dell'Eurogruppo.
Si tratta, chiaramente, di un imbroglio, consumato scientemente a danno degli italiani, da parte di chi, governo compreso, non ha la minima intenzione di mettere in discussione l'attuale modello di integrazione europea.
Il nostro paese, insieme agli altri partner dell'Eurozona, soggiace ad una serie di regole che ne limitano pesantemente l'autonomia sul versante delle politiche economiche e di bilancio. È giusto ritornarci, perché un'eventuale - e auspicabile - fuoriuscita dall'austerity non potrebbe prescindere dalla rottura della gabbia d'acciaio in cui attualmente siamo rinchiusi.
Tale gabbia si chiama governance europea e si compone di una serie di vincoli per i bilanci pubblici - ispirati a rigidi concetti di stabilità e di sostenibilità delle politiche che vi afferiscono, tra cui spiccano i noti (o famigerati) parametri sul deficit e sul debito in rapporto al Pil - e di strumenti atti a prevenirne o a correggerne gli squilibri.
Col Fiscal compact, nel 2012, l'Omt per i paesi dell'Eurozona è stato fissato allo 0,5%. Com'è noto, accanto alla «regola del deficit» c'è la «regola del debito», introdotta nel 2011 con il Six Pack, l'insieme dei regolamenti che hanno profondamente modificato la governance europea, poi ripresa nel Fiscal compact.
Cosa dice questa regola? Che la quota del rapporto debito/PIL in eccesso rispetto al valore del 60% debba essere ridotta ad un tasso di 1/20 all'anno, avendo come riferimento la media dei tre precedenti esercizi. L'ora «x» per il nostro paese (valutazione di conformità della Commissione) è fissata al 2015.
Il cerchio si chiude, come già accennavamo, con gli strumenti di prevenzione, di sorveglianza e di correzione automatica, che consentono al sistema di «funzionare».
Nella sostanza parliamo di una serie di interventi a monte (braccio preventivo) e a valle (braccio correttivo) nel procedimento di formazione del bilancio dello stato e nella definizione delle politiche economiche pubbliche che, di fatto, hanno esautorato i governi ed i parlamenti nazionali nelle loro prerogative costituzionali in materia (lo chiamano «coordinamento e sorveglianza delle politiche economiche e di bilancio nell'Unione»). Alla base di questo complicatissimo edificio di regole e di poteri c'è un principio semplicissimo: l'indebitamento è un problema e come tale va affrontato e risolto, agendo sulla sua matrice (spesa in deficit) ed operando a tappe forzate per la sua riduzione (deleveraging).
Il dramma è che l'accelerazione su questo versante si è avuta quando la crisi stava già producendo i suoi effetti recessivi sull'economia europea. E' stata la risposta - folle - che l'Europa, attraverso le sue istituzioni, ha dato alla crisi scoppiata oltreoceano nel 2007-2008. I danni sono sotto gli occhi di tutti: è stato assecondato il ciclo economico negativo anziché contrastarlo. Basta fermarsi ai dati sulla disoccupazione. Dal 2007 al 2013 i disoccupati nell'Eurozona sono passati da 11,6 a più di 19 milioni. In Italia da 1,5 a 3,1 milioni, praticamente il doppio.
Nel 2009 il nostro paese «vantava» un tasso di disoccupazione inferiore di 2 punti percentuali alla media europea (7,4% contro 9,5% Ue), oggi viaggiamo intorno al 14% (giovanile al 46%). E' il debito? Nel nostro paese, sia in termini assoluti che in rapporto alla ricchezza nazionale, è andato alle stelle. Fa bene, perciò, il premier Renzi a dire che l'austerità ci sta facendo male. Ma, com'è nella sua abitudine, non ci spiega come questa sua «sensibilità» («Basta austerità, bisogna cambiare verso») possa sposarsi con il rispetto dei vincoli europei («Dobbiamo tenere i conti in ordine per i nostri figli»), intorno ai quali ruota tutta l'impalcatura del Def approvato ad aprile. Né ha chiarito come il mantenimento della tabella di marcia contenuta in quest'ultimo atto, relativamente agli obiettivi di finanza pubblica (conseguimento del pareggio strutturale nel 2016 e rispetto della regola del debito), sia compatibile con i dati reali che provengono dall'economia, quasi tutti al ribasso rispetto alle previsioni già «prudenti» di qualche mese fa. Diciamolo chiaramente: il nostro paese non è nelle condizioni di rispettare quegli impegni. Sarebbero necessari surplus primari (eccesso della raccolta fiscale sulla spesa pubblica al netto degli interessi sul debito) straordinari, il cui conseguimento imporrebbe tagli draconiani alla spesa e livelli di tassazione del tutto insostenibili (gli 80 euro sono serviti come arma di distrazione?). Il 1 luglio si apre il semestre di presidenza italiana della Ue. Il premier vorrà essere conseguente con le sue proposizioni? Ponga all'ordine del giorno la revisione dell'intera governance europea.