domenica 29 dicembre 2013

FELICE (PER QUANTO POSSIBILE) 2014 A TUTTI

In occasione delle prossime festività di fine anno, il sottoscritto augura un buon 2014 a tutti i lettori del blog.nella speranza (molto vana) che l'anno nuovo si possa portare via tutti i problemi e le insicurezze che attanagliano le persone.
Ci si rivede dopo il 1 Gennaio....hola!!!!!!!!!

lunedì 23 dicembre 2013

FESTE TRISTI PER MOLTI ITALIANI

Le iminenti festività non sollevano l'umore delle gia tristi e sconsolate famiglie italiane.
Il cosidetto ceto medio, che oggi sono i nuovi poveri, non ha di che sorridere anche durante le festività natalizie.
Il peso fiscale delle tasse, con le ultime stangate di Tares e Imu, non mette in moto i consumi, la tredicesima viene spesa per coprire debiti e balzelli fiscali.
In questa maniera di certo non si riattivano i consumi; il natale è nero anche sul fronte disoccupati, le proteste di piazza aumentano sempre più..insomma l'italia e gli italiani piangono.
La cosa più triste è che all'orizzonte del 2014 non si vede nulla di positivo e che faccia intravedere un minimo segno di cambiamento positivo.
Si prospettano ancora e chissa per quanto lacrime e sangue, ma almeno durante il giorno di Natale e il pranzo con parenti e amici cerchiamo di dimenticare questa triste realtà, almeno per un giorno.
Per piangere c'è sempre tempo e ce ne sarà anche nel 2014.
Auguro comunque buone feste, per quanto possibile...e ci risentiamo nel 2014.
Ciaooooooooooooooooooo!!!!!!!!!!!!

martedì 17 dicembre 2013

LA SANTIFICAZIONE DEL PROFITTO

Una volta si chiamavano feste comandate. Le domeniche, innanzitutto. E poi Natale, Pasqua. E poi quelle strappate con la lotta, il 1° Maggio, 25 AprilE, Ma il capitalismo conosce un unico comandamento: sacrifica qualunque cosa, preferibilmente i lavoratori, sull’altare del profitto. E così da qualche anno anche in Italia, a un numero sempre crescente di lavoratori viene impedito di godersi un riposo settimanale degno di questo nome, magari in compagnia delle proprie famiglie, dei propri figli.
Quella della liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali è una storia che va avanti da quasi vent’anni.Nel 1998 ci prova Bersani, con il decreto che porta il suo nome, il quale prevede (in barba all’esito del referendum di soli tre anni prima) che gli esercizi commerciali possano restare aperti tutti i giorni della settimana per un massimo di tredici ore. Le domeniche sono ancora quasi escluse dalla liberalizzazione: pur conferendo poteri di deroga ai comuni, le aperture domenicali sono previste solo per le domeniche del mese di dicembre e per altre otto domeniche nei restanti mesi dell’anno. Le cose peggiorano nel 2001: con la riforma del titolo V della Costituzione la competenza in materia passa alle Regioni, che fanno largo uso dei poteri di deroga previsti dal decreto Bersani.
E arriviamo ai giorni nostri: il governo Monti, nel 2011, ci lascia in eredità il decreto “Salva Italia”(in vigore dal gennaio 2012), che avrebbe dovuto risollevare le sorti di un’economia strangolata dal cappio del debito e dello spread. I risultati sono sotto gli occhi di tutti… Il “Salva Italia” prevede, tra le altre cose, la completa liberalizzazione degli orari di apertura.
Le aperture domenicali e festive avrebbero dovuto dare nuovo slancio al commercio, far aumentare i consumi, creare nuovi posti di lavoro. Niente di tutto ciò è accaduto. Secondo le stime di Confesercenti, complice la crisi che ancora morde le famiglie, i consumi sarebbero calati del 4,3% nel 2012, dato al quale andrebbe ad aggiungersi un -2% previsto per quest’anno. Tra l’inizio del 2012 e i primi sei mesi del 2013 sarebbero scomparsi quasi 32.000 esercizi di commercio al dettaglio e 90.000 posti di lavoro; 500.000 locali commerciali sarebbero rimasti sfitti, con una perdita di 62 miliardi di euro di affitti non percepiti e 6,2 miliardi di euro di gettito fiscale andato in fumo (più di quanto si è racimolato nelle tasche della povera gente con l’aumento di un punto di IVA).
Diverso sembra essere il discorso per i grandi nomi della Grande Distribuzione:  la capacità di competere al ribasso sui prezzi dei prodotti e la possibilità di restare aperti nei giorni festivi hanno sicuramente favorito i grossi centri commerciali.
La parola d’ordine che si materializza agli occhi dei lavoratori della grande distribuzione è una e una sola: flessibilità. Parliamo di circa 2 milioni di occupati, la maggior parte dei quali donne (circa l’80%) e con contratti part-time. In molti casi, la speranza di arrivare a firmare un contratto a tempo indeterminato è una chimera irraggiungibile: essere sbattuti fuori dopo anni di lavoro  non è una cosa così infrequente.
Lo stipendio medio di un lavoratore part-time si aggira intorno ai 600-700 euro mensili, il che rende quasi impossibile essere indipendenti, figuriamoci mettere su famiglia e crescere dei figli. Ma i problemi non finiscono qui. Perché proprio la liberalizzazione degli orari e le aperture nei giorni festivi hanno inferto un altro duro colpo alla qualità del tempo di lavoro e di vita di quanti lavorano nella GDO. In nome della già citata flessibilità, i turni vengono fissati settimana per settimana, a volte il giorno prima per il giorno dopo. In più si tratta spesso di turni spezzati, che prevedono qualche ora a metà mattinata e altre ore nel pomeriggio, con una pausa che magari non basta nemmeno per fare il tragitto di andata e ritorno dal lavoro a casa, figuriamoci per fare una visita medica.
 E' evidente che tutto cio rientrà nella logica della santificazione del profitto, non capendo che non essendoci soldi tra le famiglie, tenere aperto domenica e feste comandate non cambia nulla...ma vaglielo a spiegare a certuni..

venerdì 13 dicembre 2013

LAPROTESTA DI PANCIA, NON DI IDEALI

Dal 1968 al 1977 si ricordano perfettamente le battaglie metropolitane tra dimostranti e polizia ma c’era un progetto, un obiettivo, si sapeva chi erano i nemici.
Ad ogni modo quella era una battaglia ideale contro la borghesia parassita, ed il capitalismo che non era ancora globale ma sfruttava i lavoratori come e più di adesso.
Se gli sfruttati sono più degli sfruttatori, i poveri più dei ricchi, come mai non sono mai diventati vera maggioranza nelle gabine elettorali?
Perchè lo sfruttato vota per gli sfruttatori per paura di perdere le briciole che gli consentono la sopravvivenza, la lotta la lascia fare agli altri, ai sindacalizzati.
I sindacati sono attaccati da sempre, messi in cattiva luce, ed è ovvio che in mezzo a migliaia di problemi ci sia sempre un cavillo per il quale il proletario si senta in diritto di criticare senza tenere in considerazione le conquiste ottenute.
Non ho mai visto nessuno, di quelli assenti dalla lotta, rinunciare ad una conquista del sindacato. Dal diritto alla maternità quando le donne hanno smesso di fasciarsi la pancia per non essere licenziate alla giusta causa per il licenziamento da rappresaglia.
Sia chiaro per tutti che il dipendente disonesto, fannullone, parassita si è sempre potuto licenziare ma non l’hanno fatto perchè faceva comodo ai padroni per attaccare i lavoratori. Con qualche parassita in fabbrica veniva più facile attaccare i lavoratori, i diritti.
Ma quelli erano gli anni dell’ideologia, concetti superati, obsoleti, come la solidarità tra lavoratori, precari e senza diritti.
L’impressione mia, potrei sbagliarmi ma ho il diritto di opinione, è che la rivolta, la protesta, la ribellione, non diventeranno mai rivoluzione finchè sarà affidata alla pancia e  non alla ragione, all’ideale.
La ribellione affidata alla pancia è ad alto rischio di populismo utile solo a preparare la strada ad un regime. Aggiungo che siamo in una situazione nella quale non possiamo nemmeno scegliere il colore del regime prossimo futuro nel senso che quando il manifestante dice di non essere di destra e nemmeno di sinistra è automatico, da sempre come insegna la storia, che il regime sarà di destra.
Tutti hanno le loro ragioni, se li ascolti uno per uno ti viene spontaneo dargli ragione, ma se non conosci la storia del manifestante e consideri che è senza ideali capisci che di sociale, di solidarietà di classe, questa rivolata non ha niente farà solo gli interessi del sistema di potere camaleontico che, prima ricula sotto ai colpi della rivolta, poi ne prende la guida e la porta dove vuole.
Le rivolte andrebbero preparate a freddo, con un progetto, un obiettivo, cercando consensi tra chi vorrebbe farla. Il resto è terrorismo ideologico, come fu quello di destra o di sinistra. La rivolta dovrebbe essere in primis culturale se invece l’affidiamo alla pancia si spegnerà appena avranno, avremo, un piatto di pasta.
Dopo un ventennio di dominio culturale che ha distrutto, direi mimetizzato la destra e distrutto la sinistra, non ci va più bene niente ed a prima vista hanno pure ragione. Ragionando a caldo nessuno della classe dirigente o politica è difendibile e questo perchè abbiamo “sposato” in toto il capitalismo dimenticando, calpestando la Costituzione ed i suoi principi.
 Il disfattismo nel quale sguazziamo dove tutti sono disonesti, io escluso, ci porta al tanto peggio tanto meglio, al diffidare del vicino, del compagno di strada ed alla speranza di risolvere i problemi individuali e non della massa.
Molti, troppi, soffiano sul fuoco e la prossima marcia su Roma sarà peggiore della precedente perchè mentre la prima era guidata dai fascisti, questa è affidata alla pancia e non alla ragione seppure sbagliata, sconfitta dalla storia.
Di impresentabile, tra quelli che dovrebbero “andare a casa” non c’è solo la casta politica c’è la classe dirigente italiana, la Confindustria, la mafia, la camorra, l’ndrangheta e buona parte degli italiani che hanno sostenuto questo sistema per decenni e decenni senza rendersi conto che mentre il pregiudicato è diventato sempre più ricco noi siamo diventati più poveri.
Inutile prendersela con L’Europa, che ha i suoi limiti e deve migliorare molto, perchè la mafia, la camorra, l’ndrangheta ed una amministrazione corrotta l’abbiamo da un centinaio d’anni prima che arrivasse l’Europa unita.
Anche gli italiani li abbiamo da prima, quelli che hanno votato e sostenuto questa situazione, purtroppo tedeschi, inglesi, francesi o chi per esso non votano al nostro posto ed i farabutti li abbiamo votati noi.
Se il potere molla qualche euro alle lobbies, ai rivoltosi dominati dalla pancia, la rivolta si spegne e non diventerà mai una rivoluzione perchè la rivoluzione è di idee  non di pancia.

mercoledì 11 dicembre 2013

PROTESTA O RIVOLTA?

Caos, scontri, blocchi e negozi chiusi. La rivolta dei “Forconi” scuote l’Italia. A Torino esplode la guerriglia urbana. Sit in dal Veneto alla Sicilia. Tafferugli tra polizia e manifestanti sotto la Mole.
Guerriglia urbana a Torino in nome del cosiddetto Movimento dei Forconi. Mentre nelle altre città d’Italia i presidi e le manifestazioni si sono svolte in modo relativamente pacifico, sotto la Mole la protesta è degenerata in violenza: scontri nella centralissima piazza Castello, davanti alla sede della Regione Piemonte, momenti di tensione davanti al Comune.
Contro i palazzi della politica sono volati non solo gli slogan «ladri, ladri», ma anche bombe-carta, sassi, bottiglie, mentre le forze dell’ordine, in tenuta antisommossa e con maschere antigas, sono state costrette a lanciare lacrimogeni per disperdere la folla. Malmenato un fotografo, assaltate postazioni Rai e Sky, tensione davanti alle sedi di Equitalia e Inps. Ma, alla fine, anche applausi per gli agenti che si sono tolti i caschi.
Si è conclusa così a Torino la protesta organizzata in tutta Italia che si è formalmente dissociato dagli episodi di violenza. In mattinata i manifestanti avevano bloccato le vie d’accesso alla città ed erano arrivati a occupare i binari delle stazioni di Porta Nuova e Porta Susa. Poi si sono mossi verso piazza Castello e qui la protesta è degenerata: ai manifestanti «regolari» si sono uniti gruppi di ultras di tifosi (riconoscibili i simboli del gruppo bianconero dei “Drughi”) e di estrema destra, ed è stata guerriglia per oltre un’ora; cassonetti e auto danneggiate, fumogeni, mattoni e bombe-carta contro la Regione, forze dell’ordine costrette a indossare maschere antigas e a lanciare lacrimogeni.
In più di un’occasione i commercianti che non avevano aderito alla protesta, rifiutandosi di chiudere i loro esercizi, sono stati costretti a farlo. Come per esempio lo storico caffè Caval ’D Brons della centrale Piazza San Carlo, uno dei locali più simbolici di Torino. Manifestanti del Movimento sono entrati nel locale, affollato di clienti, e hanno minacciato i presenti, prendendo a calci le vetrine e costringendo il titolare ad abbassare la serranda. Come avvenuto con altri negozi.
«Il nostro è un movimento pacifico, siamo contrari a ogni violenza e applaudiamo per quanto fa la polizia» si è sforzato di ripetere da un altoparlante uno dei responsabili del movimento. Ma ormai la scintilla era partita e piazza Castello si era già trasformata in un campo di battaglia. Il bilancio a fine giornata sara´ di quattordici feriti tra le forze dell’ordine, decine di vetrine danneggiate, un fotografo che collabora con l’ANSA malmenato e derubato della sua macchina fotografica e un manifestante fermato. La Procura aprirà un fascicolo su quanto avvenuto oggi a Torino, con quattordici feriti. «Sono preoccupato, perché Torino e i torinesi non sono stati rispettati – ha commentato il sindaco, Piero Fassino -. Manifestare è legittimo, ma non si può sconvolgere la vita della città e la normalità di chi la abita». Analogo il commento del presidente del Piemonte, Roberto Cota: «È legittimo manifestare, non lo sono gli atti di violenza».
Proteste a macchia d’olio anche in altre città d’Italia, da Napoli a Genova (dove sono state bloccate la stazione di Brignole e la soprelevata), ma senza degenerare negli scontri di Torino. «Quanto sta avvenendo su scala nazionale fa capire che il Paese corre il rischio di scivolare lungo un crinale pericoloso – ha commentato il Garante degli scioperi, Roberto Alesse -
Per quanto di nostra competenza, il principio che sarà applicato è quello della “tolleranza zero”». «Ma i temi sollevati sono sacrosanti» ha aggiunto il presidente del Veneto, Luca Zaia, mentre per il governatore del Piemonte, Roberto Cota, «è legittimo manifestare, non lo sono gli atti di violenza», e l’assessore al Lavoro del Piemonte, Claudia Porchietto (Ncd), ha tenuto a sottolineare questo principio: «esiste anche il diritto a non scioperare.

giovedì 5 dicembre 2013

LA GERMANIA FALSA MORALIZZATRICE

La Germania, che fa tanto la moralizzatrice con gli altri Paesi europei, è andata in default due volte in un secolo e le sono stati condonati i debiti di due guerre mondiali per consentirle di riprendersi. Fra i Paesi che le hanno condonato i debiti, la Grecia, prima di tutto, che pure era molto povera, e l’Italia. 

Dopo la Grande Guerra, John Maynard Keynes sostenne che il conto salato chiesto dai Paesi vincitori agli sconfitti avrebbe reso impossibile alla Germania di avviare la rinascita. L’ammontare del debito di guerra equivaleva, in effetti, al 100% del Pil tedesco. Fatalmemte, nel 1923 si arrivò al grande default tedesco, con l’iperinflazione che distrusse la repubblica di Weimar. Adolf Hitler si rifiutò di onorare i debiti, i marchi risparmiati furono investiti per la rinascita economica e il riarmo, concluso, come si sa, con una seconda guerra, ben peggiore, in seguito alla quale a Berlino si richiese un secondo, enorme quantitativo di denaro da parte di numerosi Paesi. L’ammontare complessivo aveva raggiunto i 23 miliardi di dollari (di allora!)
La Germania sconfitta non avrebbe mai potuto pagare i debiti accumulati in due guerre, peraltro da essa stessa provocate.
Mentre i sovietici pretesero e ottennero il pagamento della somma loro spettante, fino all’ultimo centesimo, ottenuta anche facendo lavorare a costo zero migliaia di civili e prigionieri, il 24 agosto 1953 ben 21 Paesi, Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia, con un trattato firmato a Londra le consentirono di dimezzare il debito del 50%, da 23 a 11,5 miliardi di dollari, dilazionato in 30 anni. In questo modo, la Germania poté evitare il default, che c’era di fatto. L’altro 50% avrebbe dovuto essere rimborsato dopo l’eventuale riunificazione delle due Germanie, ma nel 1990 l’allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell’accordo, che avrebbe procurato un terzo default alla Germania. Italia e Grecia acconsentirono di non esigere il dovuto.
Nell’ottobre 2010 la Germania ha finito di rimborsare i debiti imposti dal trattato del 1953 con il pagamento dell’ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro.
Senza l’accordo di Londra che l’ha favorita come pochi, la Germania dovrebbe rimborsare debiti per altri 50 anni. E non ci sarebbe stata la forte crescita del secondo dopoguerra dell’economia tedesca, né Berlino avrebbe potuto entrare nella Banca Mondiale, nel Fondo Monetario Internazionale e nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Quindi: che cos’ha da lamentare la Merkel, dal momento che il suo Paese ha subito e procurato difficoltà ben maggiori e che proprio dall’Italia e dalla Grecia ha ottenuto il dimezzamento delle somme dovute per i disastri provocati con la prima e la seconda guerra mondiale? La Grecia nel 1953 era molto povera, aveva un grande bisogno di quei soldi, e ne aveva sicuramente diritto, perché aggredita dalla Germania. Eppure… Perché nessun politico italiano ricorda ai tedeschi il debito non esigito?

domenica 1 dicembre 2013

LA DECADENZA DELL'IMPERATORE

Piace molto cercare similitudini su scala grandiosa per non dire epica: Salò, caduta dell’impero Romano. Per via della lassezza dei costumi, per via di Romolo Augustolo  detto il Piccolo, ma forse non per via della statura, perché la leggenda stende sui grandi declini il velo leggendario della perdizione dissipata e folle che si accompagna appunto alla “decadenza”, tra baccanti e etere, eunuchi e cantori, cortigiani lascivi e sgangherati pronti al tradimento e irriducibili amanti, dedite all’estrema prova d’amore
È che il Senato non aspetta l’arrivo dei barbari, quelli li abbiamo in casa da tempo, è che si sarà riscontrata una coazione a ripetere italiana concernente tiranni e despoti, ma stavolta pare che il nemico non fugga, anzi, che nessuno gli faccia ponti d’oro su cui passare, mentre la folla inferocita abbatte monumenti e fasci littori. Il sacrificio del dittatorello è davvero quello  rituale, ma con i coltelli da teatro quelli con la lama retrattile, con il re che mostra il pollice verso, ma sa che i leoni sono di cartapesta, mentre il console e il suo governicchio sono chiusi dentro alla  fortezza a sbrigare le loro faccende, indisturbati.
Non lo saranno per molto. La minaccia non arriva dagli ultras del condannato che  innalzano altari in onore del martire, si produrrà tramite insolite alleanze tra lui e il capo dell’ondivaga opposizione: hanno terreni di scorreria e geografie della propaganda comuni, a tutti e due fa comodo la più suina delle leggi elettorali, il loro radicamento nell’elettorato si somiglia, occasionale, livoroso e personalistico. E ambedue invocano la piazza ma la temono, perché non ne sono immuni, perché la folla . lo sanno perfino loro – è più intrattabile e meno governabile degli spettatori, dei teleutenti, dei consumatori.
E di questi tempi le piazze mostrano un carattere preoccupante per chi pensa di difendersi stando in alto, stando lontano, stando separato. È fatta di tanti segmenti, di tanti fermenti ognuno dei quali è mosso da una rabbia differente, per la casa, contro il precariato, per il lavoro, contro le grandi opere, per i beni comuni, e tutti poi possono dare forma a un amalgama, a un’unica combinazione di dissenso, critica, rabbia, opposizione, a un unico urlo contro un unico nemico, cui prestano le loro facce grigie figure senza carisma, senza autorevolezza, senza coraggio, senza idee, non molto diversi dal tirannello per il quale hanno esplicitamente o nascostamente prestato servizio. Ma meno ricchi, meno fatali, meno potenti, meno furbi, meno liberi. Perché c’è il sospetto che la sua capacità e i suo strumenti di ricatto, la rete di alleanze opache che ha intessuto, le regalie dispensate con dovizia, la molteplicità di complicità facciano ancora tenere tra le sue dita molti fili che muovono gli eterni burattini.
Il sacrificio rituale del tiranno non fa fuori l’imprenditore sfacciato e disinvolto, l’imperatore delle televisioni che può pontificare a reti unificate e cui il sindaco della Capitale non nega il plateatico, l’origine del successo della satira che resterebbe orfana, l’oscuro cravattaro che minaccia implicitamente ex fedeli, diversamente fan, finti oppositori che oggi si accorgono che solo con un paletto nel cuore ci si libera di lui.
Perché come non mi stancherò di ripetere, è l’erede del declino della politica in favore del primato del leaderismi, è il volto prestato a un italiano medio, poco attento alla trasparenza e alle regole, incantato dalla furbizia, dall’affermazione sguaiata di sé e delle proprie ambizioni, è l’altoparlante e l’imbonitore di una ideologia del profitto che predica e razzola il disprezzo delle regole, l’egemonia dell’affiliazione, l’egoismo sopraffattore. Anche se se ne andasse, anche se il gran baule di Vuitton sulla Piazza Rossa altro non fosse che il suo bagaglio a mano di fuggiasco, resta il suo cerchio tragico e ridicolo a una tempo, le sue propaggini, le sue germinazioni, che si chiamino Renzi, che si chiamino Alfano. E d’altra parte mica pretenderete che gli italiani uccidano il Berlusconi che è in loro?