martedì 31 maggio 2011

GAME OVER

Era il Presidente-Imprenditore, venuto dal mondo del lavoro. Finisce come un vecchio politicante abbarbicato a una maggioranza che si regge sul trasformismo parlamentare. Aveva chiesto, ancora una volta, forse l’ultima, un voto contro i magistrati e i comunisti, interessando alla faccenda perfino l’allibito Obama. E a Milano e a Napoli perdono, straperdono due imprenditori, Letizia Moratti e Gianni Lettieri, contro un post-comunista e contro un ex pubblico ministero. Fine più beffarda non si è mai vista. Trionfa Giuliano Pisapia a Milano, dieci punti di distacco alla manager Moratti, l’avvocato mite con il sorriso mite, non un trascinatore di folle, che aveva già vinto le primarie contro il candidato del Pd (c’è ancora qualcuno che si opporrà ai gazebo?) e che ha indicato alla città una speranza, dopo decenni di candidature di imprenditori, prefetti, aristocratici di dubbia fama (ricordate Diego Maria Masi de Vargas y Machuca…?). Vola addirittura Luigi De Magistris a Napoli, una vittoria che sconquassa il sistema di potentati, di destra e di sinistra, che ha lasciato andare in questi anni la città del Golfo in malora, nella putredine dei rifiuti e della politica che si ingrossava come un ratto nella monnezza. Una valanga fuori dai partiti, il successo di una persona, come nella storia della Repubblica è successo solo un paio di volte, a Palermo con Leoluca Orlando (che però era un figlio della Dc) e sempre a Napoli con Achille Lauro (che però aveva i soldi).
Il centrosinistra espugna perfino la roccaforte azzurra di Cagliari, con il giovane vendoliano Massimo Zedda. Vince, udite udite, ad Arcore e forse anche a Gallarate. La sconfitta del centrodestra era attesa, annunciata, ma non in queste proporzioni. Con queste cifre, e con una geografia elettorale interamente sconvolta, è un terremoto. Il ballottaggio di fine primavera 2011 è un’onda d’urto che spazza via tonnellate di articoli, analisi pigre, commenti mesozoici, tipo la divisione tra radicali e riformisti e altre amenità politologiche. Alleanze, giochi e giochetti, manovrine di Palazzo non ci sono più, come sempre accade quando larghe fasce di elettorato mollano i porti sicuri della tradizionale appartenenza e si rimettono in movimento.
Dopo questo voto non esisterà più il centrodestra così come lo abbiamo conosciuto finora. Quello fondato sul patto tra Silvio e Umberto. Sulle cene di Arcore e sui vertici di via Bellerio. Il centrodestra che si è presentato con il volto di Daniela Santanchè, Michela Brambilla, Maristella Gelmini, Sandro Bondi, Ignazio La Russa, le mutande di Ferrara e le igieniste, i ciellini con la camicia a fiori e i puttanieri in tunica bianca. Ma non ci sarà più neppure il centrosinistra di questi anni, quello che si dibatte convulsamente tra la tentazione di affidarsi a Casini e quella di corteggiare Tremonti, quello che ha il complesso della sconfitta, che il paese-è-di-destra, che ha paura di vincere da solo e chiede l’eterno aiutino alla controparte. Oppure salta direttamente dalla parte opposta: come ha fatto l’ex dalemiano Velardi, spin doctor di Lettieri dopo essere stato assessore di Bassolino. Bel risultato, doctor Velardi.
Il vento del cambiamento spazzerà via anche il governo del Cavaliere? E’ ancora troppo presto per dirlo. Anzi, fin da ora si può scommettere che la maggioranza Pdl-Lega-Responsabili, almeno in prima battuta, proverà a inchiodarsi alle poltrone. Anche se i numeri della disfatta sono troppo clamorosi per giustificare un voltare la testa dall’altra parte. E di certo sarà difficile per il solerte onorevole Maurizio Paniz tornare nell’aula di Montecitorio per chiedere un voto a favore di Berlusconi che aveva creduto alla nipotina di Mubarak. Ma è già in questo il rovesciamento della logica berlusconiana: l’uomo di Arcore che non ha più la maggioranza del Paese si rifugia nella ridotta di Montecitorio. Da extraparlamentare diventerà super-parlamentare. E accuserà (lui!) di demagogia e di populismo chi chiederà elezioni anticipate.
E’ solo la prova che da stasera Berlusconi può ancora battersi per la sopravvivenza di se stesso, un tirare a campare disperato come quello di Craxi e Andreotti nel 1992, quando la somma di inchieste giudiziarie e crisi economica buttò giù il sistema del pentapartito, le sconfitte elettorali arrivarono al termine. L’alternativa ancora non c’è, è tutta da costruire. E Berlusconi è ancora a Palazzo Chigi. Ma il berlusconismo non c’è più.
Game Over.

venerdì 6 maggio 2011

L'ATTACCO ALLA GIUSTIZIA

Questa storia è iniziata diciassette anni fa, quando una anomala formazione politica, un inusitato partito-azienda, ottenne uno straordinario successo alle elezioni del 27/28 marzo 1994 ed un affarista che aveva accumulato una enorme ricchezza divenne Presidente del Consiglio. Giuseppe Dossetti avvertì immediatamente il pericolo ed il 15 aprile 1994, con la famosa lettera al Sindaco di Bologna Vitali,  lanciò un allarme invocando una mobilitazione popolare capillare per difendere la Costituzione italiana dal pericolo che si profilava all’orizzonte e che minacciava di travolgerla.
Questo allarme  fu raccolto da migliaia di cittadini che si mobilitarono in tutto il paese, ma rimase del tutto inascoltato fra le forze politiche, ivi comprese quelle che, per storia politica e sensibilità istituzionale, dovevano essere più interessate alla difesa della democrazia costituzionale, che invece fecero orecchie da mercante e continuarono a dilaniarsi per la supremazia o per la leadership, incuranti che la barca affondava.
Sono passati 17 anni durante i quali la Costituzione italiana, nella sua architettura fondamentale, è riuscita a sopravvivere, fortunosamente, ma il cancro del berlusconismo, malgrado importanti battute d’arresto come la sconfitta sul referendum che ha cancellato la controriforma costituzionale del 2005, è cresciuto. E’ divenuto più aggressivo, ha esteso le sue metastasi, avvelenando lo spirito pubblico attraverso un controllo sempre più pervasivo dei mezzi di comunicazione, indebolendo l’imparzialità e l’efficienza della pubblica amministrazione ed avviando lo smantellamento del sistema pubblico dell’istruzione, cancellando la funzione di controllo del Parlamento sul potere esecutivo e riducendo la maggioranza parlamentare, dalla quale sono state espulse tutte le componenti non asservite, ad un bivacco di pretoriani schierati a difesa del Capo politico, come i mercenari africani sono schierati a difesa di Gheddafi.
Le metastasi del berlusconismo insidiano le istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale e Autorità giudiziaria), cercano di condizionarle, attraverso campagne sempre più aggressive di intimidazioni e delegittimazione e si preparano ad una sorta di rendimento dei conti finale.
Si è molto parlato nelle ultime settimane della c.d. Riforma epocale della giustizia ed ha fatto scandalo un bizzarro manifesto apparso fra le affissioni del PDL nella campagna elettorale in corso a Milano, in cui si equiparavano alle Brigate rosse i magistrati della Procura di Milano.
E’ a tutti evidente che ci troviamo di fronte ad un crescendo di offensività nei confronti delle istituzioni di garanzia che ancora reggono l’architettura dei poteri disegnata dalla Costituzione, che, ormai, sciolto da ogni vincolo e pudore, mira apertamente a travolgerle per sovvertire l’ordinamento democratico.
L’epicentro di questo conflitto del berlusconismo con le istituzioni democratiche è rappresentato dallo scontro con il sistema che garantisce l’indipendenza della magistratura ed assicura l’imparzialità del controllo di legalità.
Anche questo è un conflitto antico, viene da lontano.
Chi si ricorda oggi che uno dei primi atti del primo governo Berlusconi, nel luglio del 1994, fu il c.d. “decreto salvaladri”? Si trattava di un decreto legge, proposto dal Ministro della Giustizia dell’epoca, Alfredo Biondi,  che introduceva un elenco di reati (in particolare i reati di corruzione e concussione ed altri reati dei colletti bianchi) per i quali veniva proibita la misura della custodia cautelare in carcere (restavano però consentiti gli arresti domiciliari). Il decreto fu approvato dal Consiglio dei Ministri del 12 luglio e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14 luglio. Ancor prima che venisse pubblicato in Gazzetta, ci furono delle vivaci reazioni. Il 13 luglio i telegiornali diedero la notizia che i magistrati del pool di mani pulite avevano mandato una lettera al Procuratore Borrelli annunziando le loro dimissioni ed il TG3 mandò in onda Antonio Di Pietro che leggeva la lettera con le motivazioni del loro gesto.
Nel giro di pochissimi giorni si organizzò spontaneamente una mobilitazione (il popolo dei fax) che rovesciò su Palazzo Chigi gli echi di una indignazione di massa. Il Ministro dell’Interno, che anche allora era Maroni, si dissociò dal decreto il giorno dopo (il 15 luglio) ed il giorno successivo (16 luglio) Silvio Berlusconi sconfessò il decreto, giustificandosi in questo modo: “Qualcuno ha voluto insinuare che esso serve a mandare a casa i corrotti di Tangentopoli, a proteggere certe categorie economiche privilegiate. E’ un’ignobile menzogna, una menzogna propagandistica”
Il 21 luglio, dopo solo una settimana dalla sua emanazione il decreto fu cancellato dalla maggioranza parlamentare che lo dichiarò incostituzionale.
Dunque nel 1994 Berlusconi, per non perdere il consenso dell’opinione pubblica, così magicamente conquistato, fu costretto a rimangiarsi la sua prima legge “ad personam” per non incorrere nel sospetto che egli volesse proteggere i corrotti di tangentopoli.
Dopo 17 anni, il timore di apparire un protettore dei corrotti è completamente evaporato, anzi viene rivendicata l’impunità per il ceto politico senza più alcun pudore. Nella conferenza stampa di presentazione della riforma epocale, il 10 marzo del 2011, Berlusconi ha detto che se fosse stato in vigore questo nuovo ordinamento della giustizia non ci sarebbe stata: “l’esondazione, l’invasione della magistratura nella politica e quelle situazioni che hanno portato nel corso della storia degli ultimi venti anni a cambiamenti di governo, a un annullamento della classe dirigente nel ’93″. Ed il 16 aprile durante un comizio alla Convention del Pdl, Berlusconi dopo aver lanciato uno degli attacchi più virulenti alla magistratura, promettendo di istituire una commissione d’inchiesta “per accertare se c’è una associazione a delinquere dei magistrati”, ha reso gli onori a Craxi, cioè all’uomo simbolo di tangentopoli, qualificandolo un “martire”, vittima della persecuzione dei magistrati comunisti.
Se si raffrontano questi due episodi, il decreto salvaladri, con tutto quel che ne è seguito nel 1994 e “la riforma epocale” con l’orgogliosa rivendicazione dell’eredità di Tangentopoli, vediamo che Berlusconi non è cambiato. E’ rimasto sempre lo stesso, perchè già nel 1994 c’erano le premesse di un  potere sottratto al controllo di legalità, solo che adesso questo potere viene apertamente rivendicato, senza vergogna alcuna, squarciando  ogni velo di ipocrisia.
Se lo può fare è perchè in questi 17 anni le istituzioni democratiche sono state svuotate dall’interno, l’opinione pubblica è stata sempre più corrotta, e si è affermata una costituzione materiale fatta dall’accumulo di leggi, provvedimenti e prassi amministrative contrarie alla Costituzione, che hanno disegnato un nuovo ordinamento sommerso (potremmo definirla la Costituzione di Arcore) che adesso si prepara ad emergere, rovesciando il banco.
Il punto di massima crisi è rappresentato proprio dalla crisi della legge che ha cambiato natura,  mediante un percorso che  attraverso le c.d. leggi “ad personam” è  pervenuto alla corruzione della funzione della legge. La funzione della legge, come strumento di regolazione degli interessi per perseguire il bene pubblico, è stata rinnegata da una politica che trasforma in legge gli interessi privati di una singola persona o di un ristrettissimo ceto di privilegiati, fino al punto da cancellare l’idea stessa che i pubblici poteri traggano la loro ragione di essere in funzione del bene pubblico.
Secondo quelli che portano la contabilità, in questi 17 anni si sono accumulate 36 leggi ad personam + 11 abortite o approvate solo da un ramo del Parlamento.
Per quanto nella comunicazione pubblica si è affermato il concetto di leggi “ad personam” per cui non se ne può fare a meno, tuttavia, è opportuno rilevare che queste leggi, escludendo quelle di immunità personale per Silvio Berlusconi, come il lodo Schifani (L. 140/2003), il Lodo Alfano (L.  124/2008) ed il legittimo impedimento (L. 51/2010) – giustamente affossate dalla Corte Costituzionale -  (dalla riforma del diritto societario (L. 3/10/2001 n. 366) alla legge sulla semplificazione delle rogatorie (L. 5/10/2001 n. 367), alla legge sulla remissione dei processi per legittimo sospetto (L.7/11/2002 n. 248),  alla legge ex Cirielli sulla prescrizione breve per gli incensurati (L. 5/12/2005 n. 251), alla legge sul falso in bilancio (L. 28/12/2005 n. 262), alle legge Pecorella che vietava l’appello del P.M. (L. 20/2/2006 n. 46), alle leggi, ancora in gestazione in questa legislatura sulle intercettazioni (sul processo breve, sulla riforma del processo penale, e per finire, sulla responsabilità civile dei magistrati), in senso tecnico-giuridico non sono  “ad personam” perchè hanno i caratteri dell’astrattezza e della generalità propri di ogni provvedimento legislativo ed i loro effetti si ripercuotono sulla generalità dei cittadini.
Quindi, in un certo senso, Silvio Berlusconi ha ragione quando afferma che si tratta di leggi che corrispondono ad interessi generali dei cittadini, nei quali il suo interesse particolare viene a coincidere.
Questo non vuol dire che la situazione sia meno grave: al contrario, significa che queste leggi hanno un impianto  sovversivo proprio perchè non garantiscono soltanto immunità e privilegi  processuali all’imputato Berlusconi, ma ad una comunità indifferenziata di persone. Non sono quindi leggi ad personam, ma sono leggi ad mafiam perchè favoriscono la criminalità soprattutto, ma non solo, quella dei colletti bianchi ed impediscono l’azione di contrasto alla criminalità della polizia e della magistratura,  specialmente se verranno approvate la legge sulle intercettazioni, il c.d. “processo breve” e la riforma del processo penale nella quale è stata inserita una speciale norma allunga-processi.
Questo coacervo di disposizioni tendono a sgretolare la legalità, creando delle sacche di privilegio ed impunità, inserendosi in un sistema a ferro di cavallo i cui due estremi sono un diritto penale (e processuale) del nemico ed un diritto penale (e processuale) dell’amico.
Il diritto penale del nemico esprime la tendenza a colpire le fasce sociali più deboli, immigrati, tossicodipendenti, Rom, senza casa, indicati come “nemici pubblici” ai quali riservare un trattamento penale differenziato e di particolare disfavore, che si spinge fino al punto di creare un vero e proprio diritto penale per tipo d’autore.
Sull’altro versante del ferro di cavallo si colloca una disciplina di favore per i privilegiati che, iniziata sotto tono, si sta avviando verso traguardi di impunità che, qualche anno fa, non avremmo neppure potuto immaginare, in quanto si tratta di fenomeni che non si sono mai verificati negli ordinamenti di democrazia “occidentale”.
Uno degli esempi più chiari di questo sistema penale double face è rappresentato dalla riforma della prescrizione introdotta con la legge ex Cirielli (L. 5/12/2005 n. 251).
All’epoca taluni protestarono, indicandola come l’ennesima legge ad personam per favorire i soliti noti. Indubbiamente tali critiche coglievano una parte della verità e l’esito del processo Mills e di centinaia di altri processi per corruzione, concussione e reati dei colletti bianchi dimostra che la riduzione dei termini di prescrizione ha ridotto l’area della punibilità, rendendo più facile per i ceti privilegiati sfuggire alle maglie della repressione penale.
Però l’altro lato della verità, rimasto oscuro, è l’ampliamento dell’area della punibilità per quelle forme di criminalità che sono direttamente collegate a situazioni di emarginazione o di degrado sociale. Il pubblico ufficiale condannato per concussione, difficilmente può trovarsi nella  condizione di recidiva specifica reiterata infraquinquennale. Tale condizione, invece, non è infrequente per quelle fasce di popolazione nelle quali la devianza criminale è collegata ad una particolare condizione di vita, come per es. la tossicodipendenza.
Quindi uno stesso fatto può rimanere punibile per un periodo di tempo molto più lungo, a seconda del tipo di autore.
La legge ex-Cirielli ha introdotto una disciplina in cui i limiti temporali per la punibilità non sono dipendenti dalla obiettiva gravità del reato, ma sono costruiti sul tipo di autore. Un fatto commesso da una persona “perbene” è meno grave (e meno punibile) dello stesso fatto commesso da una persona “per male” che, nella generalità dei casi è un emarginato. E’ appena il caso di precisare che nel codice Rocco, cioè nel codice penale del fascismo, la teoria del diritto penale per tipo di autore non aveva trovato cittadinanza.
Ed adesso con l’emendamento Paniz alla legge sul processo breve, questa tendenza è stata rafforzata, è stata ulteriormente diminuita l’interruzione della prescrizione per i soggetti incensurati, allargando ulteriormente la forbice della disuguaglianza del trattamento penale.
Il contrasto alla devianza criminale, che costituisce l’oggetto del diritto penale, è stato costruito come contrasto all’emarginazione sociale, cioè come criminalizzazione dell’emarginazione sia attraverso un’ipertrofia della sanzione penale, sia attraverso sanzioni modellate sul tipo di autore.
La popolazione degli immigrati rappresenta il bersaglio principale (ma non l’unico) nei confronti del quale si sperimentano le forme più gravi e discriminatorie di questa politica del diritto penale del nemico. Una delle disposizioni più fortemente criminogene è quella che colpisce lo straniero che trasgredisca l’ordine di espulsione. Questo reato è nato nel 1998 come contravvenzione, punita con la pena dell’arresto da sei mesi ad un anno ed è diventato delitto nel 2004 (D.L. 14 settembre 2004 n. 241, convertito con modificazioni nella L. 12/11/2004 n. 271), punito con la reclusione da 1 a 4 anni, che diventano 5 per chi abbia fatto reingresso dopo l’espulsione.
In questo modo è stato inventato un reato artificiale, che può essere commesso soltanto da un determinato tipo d’autore, che viene punito , e per giunta con una pena molto più grave di quella prevista per il falso in bilancio o le false comunicazioni sociali (art. 2621 e 2622 c.c. come sostituiti dalla L. 28/12/2005 n. 262), sebbene questi reati tipici dei colletti bianchi, possano causare danni patrimoniali enormi ai risparmiatori, come ben sanno tutti quelli che hanno comprato le azioni Parmalat.
Per far le dovute proporzioni, basti considerare che il fascismo, con le leggi razziali, aveva inventato un reato analogo, previsto dal Regio Decreto legge n. 1381 del 7 settembre 1938, che puniva l’ebreo straniero inottemperante all’obbligo di lasciare il territorio italiano, (mediante richiamo all’art. 150 del TULPS) con l’arresto da tre a sei mesi.
Proprio ieri (il 28 aprile) la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha bocciato questo famigerato reato, stabilendo che i giudici italiani devono disapplicarlo perchè in contrasto con la Direttiva rimpatri, una Direttiva che, a suo tempo, fu fortemente contestata e definita “Direttiva della vergogna”. Ciononostante la legge italiana deve essere disapplicata perchè fa vergogna alla direttiva della vergogna.
E’ questo il panorama nel quale si sta sviluppando l’attacco finale all’indipendenza della giurisdizione, portato avanti dalla c.d. Riforma epocale. Come ha osservato Rodotà, costruito un muro di parlamentari schierati a difesa della sua persona, Berlusconi è passato alla fase due, che possiamo leggittimamente chiamare di “decostituzionalizzazione”.
“La riforma della giustizia, – scrive Rodotà -  vuole in primo luogo rendere disponibile per i voleri della maggioranza l´intero sistema giudiziario. Questo non avviene soltanto attraverso una crescita complessiva del peso della politica in snodi fondamentali. Il punto chiave della riforma è rappresentato dal fatto che materie oggi affidate ad una diretta garanzia costituzionale vengono trasferite alla legislazione ordinaria. Due esempi. Nell´attuale articolo 112 della Costituzione si stabilisce che: «Il pubblico ministero ha l´obbligo di esercitare l´azione penale». La riforma proposta dal Governo aggiunge le parole «secondo i criteri stabiliti dalla legge»: sarà dunque la maggioranza del momento a stabilire in quali casi il pubblico ministero può indagare. Nell´attuale articolo 109 si stabilisce che «l´autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria». La riforma proposta dal Governo prevede che «il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge»: sarà dunque la maggioranza del momento a determinare le informazioni di cui i magistrati potranno disporre. Il mutamento è radicale, la decostituzionalizzazione è compiuta. Ciò che la Costituzione aveva voluto sottrarre alla possibile prepotenza delle maggioranze, per garantire l´autonomia della magistratura, dovrebbe essere assoggettato proprio a questa ipoteca”
Questo processo di scardinamento dell’indipendenza della funzione giudiziaria prefigurato nella riforma costituzionale viene anticipato attraverso norme di legge inserite qua e là. Una delle più insidiose e costituita dall’emendamento Pini alla legge comunitaria, il cui scopo è quello di aggredire l’indipendenza del giudiziario, attraverso l’introduzione di una forma di responsabilità civile che interferisce nella libertà di decisione del giudice, condizionandola pesantemente. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, organo che deve vigilare sull’attuazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, fra i quali rientra il giusto processo, ha proprio recentemente (il 17 novembre 2010) varato una raccomandazione agli Stati membri in cui  prevede che: “L’interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non deve fondare responsabilità disciplinare o civile, tranne che nei casi di dolo e colpa grave”.
L’emendamento Pini provvede a dare attuazione a questo principio rovesciandolo nel suo contrario. Infatti prevede di sopprimere una norma della legge sulla responsabilità civile dei giudici (L. 13/4/1988 n. 317) che garantisce la libertà del procedimento di interpretazione delle legge, statuendo che: “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.
Questa disposizione (l’emendamento Pini) penetra nei  meccanismi interiori più delicati dell’attività giurisdizionale ed interferisce con la libertà della formazione del giudizio, vale a dire con la libertà di coscienza del magistrato e quindi incide pesantemente sull’imparzialità. L’imparzialità del giudice postula come suo corollario essenziale l’indifferenza al risultato dell’attività giurisdizionale, nel senso che la decisione deve essere assunta sine spe ac metu. Nel momento in cui il giudice può essere aggredito, naturalmente dalla parte più forte o più prepotente,sui risultati dell’interpretazione del diritto o della valutazione delle prove, si crea un meccanismo di condizionamento che incide sull’imparzialità. Del resto l’imparzialità dell’esercizio dell’attività giurisdizionale è una delle ossessioni che maggiormente  agitano Silvio Berlusconi.
Quando Berlusconi, dimenticandosi che l’aveva già fatto Sindona prima di lui, si presenta come vittima di una giustizia persecutoria attuata da giudici e PM comunisti, suoi nemici politici, che vogliono toglierlo di mezzo politicamente attraverso l’uso strumentale della funzione giudiziaria, non si tratta soltanto di una menzogna che vilipende le istituzioni ed intimidisce i magistrati. Dietro questa menzogna si intravede una verità. La verità è la concezione della giustizia in testa a Silvio Berlusconi. In altre parole attribuisce ad altri ciò che egli effettivamente pensa della funzione giurisdizionale. Una funzione che deve essere controllata dal Sovrano, non solo per assicurare l’impunità a sé stesso ed alla sua Corte, ma anche per utilizzarla per perseguitare i propri nemici politici. Noi abbiamo avuto degli esempi di questa concezione della giustizia (di cui non è stato compreso il significato allarmante), attraverso la vicenda delle Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Telecom Serbia e sul caso Mitrokhin. Ci siamo dimenticati che la giustizia politica manovrata da Silvio Berlusconi voleva trasformare Prodi in un agente del KGB? Ci siamo dimenticati che i fatti di Genova del 2001 non si sono ripetuti più perchè c’è stata una reazione dell’Autorità giudiziaria che ha fatto franare il castello di false prove costruite contro i dimostranti ed ha chiamato i responsabili all’interno delle forze dell’ordine a rispondere delle violenze commesse?
Nella scena finale del film il Caimano si vede la folla che attacca i Tribunali. Adesso ci troviamo in una situazione in cui la realtà si è molto avvicinata alla fiction, però quel finale può ancora essere cambiato, può essere scritto un altro finale.
Ma ci è rimasto poco tempo.

giovedì 5 maggio 2011

UNA VITA DA PRECARIO

Per entrare nel mondo del lavoro ci sono tre strade. La prima è quella standard: cercare un posto da dipendente, sempre più raro. La seconda, mettersi in proprio creando un business e trasformandosi in imprenditori, malgrado il sistema bancario non offra facilmente credito ai giovani senza la garanzia degli indispensabili, onnipresenti genitori. La terza è inserirsi nel mercato come “freelance”, offrendo le proprie competenze a chi ne abbia bisogno e sia disposto a pagarle. Per chi sceglie, o viene costretto a scegliere, quest’ultima strada – un elenco sterminato ed eterogeneo: dagli avvocati ai commercialisti , dai consulenti ai promotori, dagli architetti ai geometri, e poi ancora psicologi, musicisti, pubblicitari, traduttori, giornalisti… – si apre un futuro di autonomia, senza l’obbligo di timbrare il cartellino o di concordare le ferie, ma soprattutto di rischio, perchè il guadagno di ogni mese dipenderà da quanto i propri servizi saranno richiesti, quanto puntuali i pagamenti, quanto fedeli i clienti.
UN FUTURO oggi caratterizzato da grande incertezza e dal pericolo che il lavoro autonomo diventi uno altro bacino di precari: come conferma la ricerca “Professionisti: a quali condizioni?”, appena svolta dall’Ires – l’Istituto ricerche economiche e sociali – su un campione di quasi 4 mila persone.
Tra gli autonomi i ricercatori dell’Ires individuano tre sottoinsiemi: quelli a rischio di precarietà, i liberi professionisti con scarse tutele e quelli affermati. Peccato che nell’ultima fascia finisca solamente il 20 per cento degli intervistati, con una spiccata quanto ovvia prevalenza di maschi over 45, lasciando il restante 80 per cento in una situazione quantomeno difficile. Si legge nella premessa, curata dal responsabile professioni della Cgil Davide Imola, che in Italia esistono quasi 9 milioni di partite Iva, di cui 6 milioni e mezzo attive. Ogni anno se ne aprono 200 mila, e secondo l’Isfol quelle false, che mascherano cioè un lavoro subordinato, sono ben 400 mila. Le partite Iva rappresentano oltre due terzi del campione: la ricerca ne è quasi una radiografia, da cui emerge che nella maggior parte dei casi si è autonomi per forza o per esplicita richiesta del datore di lavoro. I freelance per scelta sono infatti meno della metà. Lavorano più dei subordinati, quasi nove ore al giorno, sono più sotto pressione e guadagnano troppo poco: uno su quattro porta a casa meno di 10mila euro all’anno.
LE PROSPETTIVE retributive si fanno via via più cupe a seconda del settore – i professionisti della cultura e dello spettacolo sono quelli messi peggio – e la soglia dei 30 mila euro, che significa almeno 2.500 euro al mese, viene superata solo dal 17,2 per cento dei professionisti. A questo si aggiunge una disparità nella relazione con i committenti: spesso la contrattazione non esiste, e o si accettano le condizioni proposte o si resta senza lavoro.
Altro punto dolente, il tempo incredibilmente lungo che si impiega per cominciare: si arriva alla professione a 28 anni e mezzo, dopo ben quattro anni di gavetta costellati di “fasi di studio, disoccupazione, praticantato, tirocini e stage”. E prima di riuscire a ottenere un compenso si lavora gratis in media quasi un anno: la gerontocrazia comincia proprio qui, quando centinaia di migliaia di giovani lavorano senza potersi però rendere indipendenti e autonomi.
Insomma in Italia la terza strada è accidentata da un canale d’ingresso troppo lungo e pieno di insidie, prospettive di guadagno deprimenti, costante necessità di essere aiutati dai genitori (oltre la metà degli intervistati ammette di ricevere aiuti), preoccupazione per un futuro previdenziale dai contorni fumosi (per uno su sette non è addirittura versato alcun contributo pensionistico), e un’altissima probabilità che il “professionista autonomo” lo sia per scelta di qualcun altro e non sua.
C’è dunque urgenza di un’azione forte non soltanto rispetto alla definizione di standard retributivi (i giornalisti sono in testa nel richiederli, e a ragione: alcune testate pagano vergognosamente meno di dieci euro per articolo) ma anche rispetto all’accesso, al welfare e alla pressione fiscale. Un’altra grande sfida che sindacati, ordini professionali e associazioni di categoria non possono più esitare a raccogliere.